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Posts written by GalileoGalilei

view post Posted: 30/4/2024, 09:22 Sperma nel calice e sesso a 3. L'invito a cena di P. Rupnik alle suore: "per capire la trinità" - La stanza del peccato
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«Ora hai il sigillo dei gesuiti». Le accuse della suora a Rupnik
Di Federica Tourn

Domani, 26 gennaio 2024

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«Una volta, mentre eravamo seduti a tavola uno di fronte all’altra, Rupnik mi disse: “Ora vediamo chi è più forte!”. Mi afferrò le mani sul tavolo e, palmo su palmo, cominciò a premere con grande forza. Io gridai che mi faceva male ma lui non smise. Cercai di allontanarmi e lo pregai di fermarsi. Continuò a spingere, piegandomi il dito in modo così violento che il mio indice destro si ruppe. Ero sconvolta dal dolore ma padre Rupnik non si scusò. Rimase calmo e disse: “Ora hai il sigillo permanente della Compagnia di Gesù”. E aggiunse: “L’ho fatto per amore”».

A parlare è Pia (nome di fantasia), entrata a far parte della Comunità di Loyola in Slovenia nel 1990, all’età di 24 anni. Questa scena, che si è svolta quando la ragazza era ancora una novizia della comunità religiosa fondata dall’ex gesuita Marko Rupnik e da Ivanka Hosta, è un’altra testimonianza degli abusi che il famoso artista ha commesso ai danni di diverse religiose e di cui dovrà rispondere in un processo canonico, ora che papa Francesco ha tolto la prescrizione ai fatti avvenuti negli anni ’90.

Pia racconta a Domani che in quell’occasione Rupnik le impedì di ricevere cure mediche e le proibì di parlare di quello che era successo, e lo stesso fece la superiora Ivanka Hosta. «Rupnik era estremamente arrogante e narcisista. Mi diceva ripetutamente: “Sono il più grande artista e il più grande poeta di questa terra”», ricorda Pia. «Durante il noviziato, abbiamo anche trascorso alcuni mesi a Roma nel 1992 – racconta ancora Pia – Don Rupnik era stato nominato unico direttore spirituale e confessore di tutte le novizie. Io non volevo che fosse il mio confessore ma non avevamo libertà di scelta. Una volta, durante la confessione, chiuse a chiave la stanza del Centro Aletti in cui eravamo e si mise la chiave in tasca. Ero arrabbiata e spaventata e gli dissi che non avevo nulla da dirgli: rimasi in silenzio per così tanto tempo che alla fine mi fece uscire».

A causa della sua resistenza a Rupnik, suor Pia viene ripetutamente sminuita e messa sotto pressione, sia dal gesuita che dalla superiora. Nonostante tutto, prende i voti insieme ad altre sorelle il 1° gennaio 1993; poco tempo dopo, avviene la rottura fra Rupnik e Hosta, ufficialmente per un disaccordo sulla fondazione della Comunità, in realtà perché un’altra religiosa, Gloria Branciani, aveva detto di essere stata ripetutamente abusata da Rupnik.

Rimasta sotto la guida di Ivanka Hosta, suor Pia sperimenta ogni sorta di violenze spirituali, compresa un’istigazione al suicidio – «dovevo essere disponibile, obbediente e sottomessa: non potevo più seguire la mia coscienza perché solo lei sapeva quale era la volontà di Dio per me», ricorda Pia – finché, nel marzo 1998, l’allora arcivescovo di Lubiana Franc Rodé accoglie la sua richiesta di uscire dalla comunità.

Il Dicastero per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica ha sciolto la Comunità Loyola lo scorso 20 ottobre «a causa di gravi problemi riguardanti l’esercizio dell’autorità e della convivenza comunitaria». La superiora generale Ivanka Hosta è stata rimossa a giugno di quest’anno dal suo ruolo e, tra le altre cose, le è stato proibito di contattare le ex suore per tre anni.

Dove è finito nel frattempo don Marko Rupnik? In attesa del processo ecclesiastico, l’ex gesuita sembra avere per il momento rinunciato a comparire in pubblico. Non lo si vede dire messa, nè presenziare a convegni o guidare esercizi spirituali aperti a tutti, anche se continua ad accompagnare gli amici in visita ai suoi mosaici nel Pontificio Seminario Maggiore di Roma e quindi è probabile che graviti sempre intorno al Centro Aletti, nonostante la sua parrocchia sia ora in Slovenia. Il vescovo di Capodistria Jurij Bizjak, infatti l’ha accolto a fine agosto 2023, senza curarsi delle accuse a carico del sacerdote e delle conseguenti restrizioni che gli erano state imposte dalla Compagnia di Gesù. «Il vescovo Bizjak ha emanato il decreto di incardinazione senza consultare nessuno, con l’appoggio del nunzio apostolico in Slovenia Jean-Marie Speich», rivela una fonte interna al clero sloveno. Il nunzio, insiste il sacerdote (che preferisce rimanere anonimo), è un uomo difficile e poco apprezzato dai vescovi (con l’eccezione di Bizjak e di Maksimilijan Matjaž, vescovo di Celje, diocesi suffraganea dell’arcidiosi di Maribor), ed esercita una forte influenza nella chiesa slovena. Una versione dei fatti che pare confermata dall’imbarazzo del presidente della Conferenza episcopale Andrej Saje, che ha preso subito le distanze dalla decisione di monsignor Bizjak con un comunicato ufficiale in cui dichiarava che la conferenza dei vescovi era estranea al processo di incardinazione di Rupnik.

A Zadlog, paese natale di Rupnik, una manciata di case ai piedi delle montagne, nessuno parla volentieri. Don Iztok Mozetič, il parroco del centro più vicino, Črni Vrh, si sottrae imbarazzato alle domande: è preso in mezzo fra il vescovo di Capodistria e la gente del posto, che serra le fila intorno al prodigio locale, il sacerdote che è diventato un artista e un teologo di fama mondiale: «è un grande», commenta un suo ex compagno di scuola incontrato nel bar sulla piazza del paese. Nessuna solidarietà per le religiose che l’hanno denunciato, che vengono liquidate con toni sprezzanti. La sorella di Rupnik, che abita ancora nella casa di famiglia, non rilascia dichiarazioni.

Se è vero che ogni vescovo è sovrano nella propria diocesi, è anche vero che certe decisioni non condivise suonano forzate e non possono che portare scontento. Un altro sacerdote sloveno, che si firma con il nome di Karel Fulgoferski, ha diffuso una lettera aperta in cui denuncia l’ipocrisia che circonda il caso Rupnik. A dispetto della tolleranza zero promessa da papa Francesco, scrive il prete, «nei giorni scorsi i superiori religiosi hanno fatto formazione sulla prevenzione degli abusi nella Chiesa all’ombra dei dipinti di Rupnik». Una gestione ambigua che continuerebbe anche con la decisione di papa Francesco di riaprire il processo al sacerdote: la notizia dell’incardinazione di Rupnik, spiega Fulgoferski, è arrivata come «un’onda d’urto nell’Ufficio Comunicazioni del Vaticano», e l’improvviso voltafaccia di Francesco su Rupnik sarebbe quindi «solo una manovra per salvare un’immagine pubblica del papa gravemente appannata».

Per inciso, ricordiamo che nella Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede lavora come direttrice della Direzione Teologico-Pastorale Nataša Govekar, che fa parte dell’équipe del Centro Aletti ed è fra le fedelissime di Rupnik. Il papa stesso, durante l’udienza ai vaticanisti del 22 gennaio, ha ringraziato i giornalisti presenti per «la delicatezza» con cui trattano il tema degli abusi: «un silenzio quasi “vergognoso”», ha sottolineato Francesco. Parole che suonano come una richiesta a essere indulgenti nel trattare un problema che per la Chiesa sta diventando sempre più scottante.

Almeno sul fronte dei mosaici del Centro Aletti, però, qualcosa si muove. Jean-Marc Grand, parroco di Saint Joseph-Saint Martin a Troyes, in Francia, ha deciso, dopo un processo di discernimento con testimoni e vittime di abusi, di rimuovere un trittico di Rupnik, realizzato e installato nella cappella del presbiterio nel 1994 «senza consultare la comunità», come si legge in una nota della parrocchia. È la prima volta che si decide di togliere un’opera di Rupnik da una chiesa: un caso che può diventare un precedente per tutte le commissioni che stanno valutando cosa fare dei mosaici del discusso artista.

In Vaticano, intanto, tutto tace. Non c’è dubbio, però, che a Roma l’ex gesuita conservi ancora potere e appoggi: il 10 gennaio è stato diffuso in rete un video della Cei in cui don Fabio Rosini, direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale delle vocazioni della diocesi di Roma, tiene la sua relazione sullo sfondo del Pontificio Seminario Maggiore, con lunghe panoramiche dei mosaici del suo maestro e mentore Marko Rupnik. È sempre Rosini che, nel pieno delle rivelazioni sugli abusi, aveva pubblicato un libro con in copertina un’opera di Rupnik, a condurre questa settimana gli esercizi ignaziani del Centro Aletti a Santa Severa.


Rupnik, riaperto il processo canonico. Le vittime: «Un passo verso la verità»
Di Federica Tourn

Domani, 30 ottobre 2023

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«Siamo state molto sorprese dal comunicato della Santa Sede nella quale il Santo Padre chiede di esaminare il caso Rupnik al Dicastero per la Dottrina della fede e deroga alla prescrizione per consentire lo svolgimento di un processo che possa rendere giustizia alle vittime. Speriamo che questo sia un passo idoneo per vedere riconosciuta la verità. Siamo in attesa di ulteriori sviluppi». È volutamente scarna la dichiarazione che cinque delle persone offese da don Marko Rupnik hanno voluto rilasciare in seguito all’inaspettata decisione di papa Francesco di riaprire il processo canonico all’ex gesuita accusato di abusi su almeno una ventina di donne.

Poche parole per sottolineare una prudente sospensione del giudizio, in vista di un procedimento che a questo punto dovrebbe tenersi a breve. A firmare sono quattro ex sorelle della Comunità Loyola, di cui Rupnik era il consigliere spirituale nei primi anni ’90 – Gloria Branciani, Mirjam Kovač, Vida Bernard, Mira Stare – e una religiosa che appartiene ancora alla comunità, Jožica Zupančič. Le prime quattro il 19 settembre scorso avevano già scritto, insieme a Fabrizia Raguso, un’altra ex suora della Comunità Loyola, una lettera aperta a papa Francesco in cui dichiaravano di sentirsi profondamente offese dalla relazione finale della visita canonica al Centro Aletti, che in sostanza riabilitava la figura di Rupnik, fondatore e mentore del centro.

Non solo: oggi Gloria Branciani e Mirjam Kovač escono dall’anonimato e rendono pubblico il nome con cui avevano affidato a Domani le loro testimonianze, quasi un anno fa. Gloria Branciani infatti è “Anna”, che aveva raccontato in una lunga intervista gli abusi sessuali e di coscienza subiti da Rupnik per nove anni, da quando era una studentessa universitaria e faceva da modella al gesuita nel suo atelier fino all’ingresso nella Comunità Loyola in Slovenia.

Secondo il racconto di Branciani, Rupnik era riuscito, grazie a un uso accorto e manipolatorio del discernimento ignaziano, a fare leva sulle sue fragilità fino a indurla ad avere rapporti sessuali con lui. L’ex gesuita giustificava le sue azioni dicendo che potevano vivere liberamente il sesso «a immagine dell’amore trinitario». Mirjam Kovač, “Ester”, all’epoca segretaria della madre superiora Ivanka Hosta, aveva raccontato i suoi tentativi di denunciare gli abusi di Rupnik alle autorità ecclesiastiche e ai gesuiti a partire dal 1993. Anche Branciani nel ’94, al momento della sua uscita dalla Comunità Loyola aveva raccontato quello che le era successo a monsignor Alojzij Šuštar, all’epoca arcivescovo di Lubiana, e persino al consigliere spirituale di padre Rupnik, padre Tomáš Špidlík, poi nominato cardinale.

Nessuno le aveva ascoltate. Branciani e Kovač erano tornate a scrivere ai gesuiti e a diverse personalità della chiesa nel giugno 2022, ribadendo le accuse a Rupnik e chiedendo conto dell’inchiesta sul sacerdote che in quel momento era in corso alla Congregazione per la dottrina della fede; inchiesta poi conclusa nell’ottobre scorso con la prescrizione dei fatti. Ora papa Francesco, con la decisione di derogare alla prescrizione per consentire lo svolgimento del processo, ha sparigliato le carte e (almeno apparentemente) riaperto il gioco, che sembrava avviato a concludersi con l’incardinazione del sacerdote nella diocesi di Capodistria.

Proprio la notizia che Rupnik è stato accolto a fine agosto nella sua diocesi di origine dal vescovo Jurij Bizjak, arrivata soltanto un giorno prima dell’annuncio della riapertura del processo canonico, ha gettato non poco scompiglio nella chiesa slovena. Andrej Saje, presidente della Conferenza episcopale, si è subito smarcato dalla decisione di monsignor Bizjak, sottolineando in un comunicato ufficiale che la conferenza dei vescovi «non ha partecipato al processo di incardinazione di Rupnik nella diocesi di Capodistria». Saje ha aggiunto di non averne mai saputo nulla: «Ogni vescovo è autonomo e indipendente a questo riguardo, quindi non è obbligato a informare la Conferenza episcopale».

Anche la dinamica e la tempistica dell’incardinazione sono degni di nota. La diocesi di Capodistria sottolinea che il vescovo «non dispone di alcun documento probatorio che dichiari Rupnik colpevole degli abusi, di cui è stato accusato, davanti a un tribunale civile o ecclesiastico». Già a inizio marzo, però, padre Johan Verschueren, delegato per le Case e Opere Internazionali romane della Compagnia di Gesù ed ex superiore di Rupnik, aveva scritto a Bizjak per informarlo della difficoltà riguardanti il sacerdote, che evidentemente già all’epoca era alla ricerca di una diocesi. «Ho descritto ampiamente i diversi tipi di accuse, e di abuso, che sono occorsi negli ultimi tempi nei suoi confronti, e la situazione giuridica di ogni dossier, anche la scomunica (in cui era incorso nel 2020 per aver assolto in confessione una donna con cui aveva avuto un rapporto sessuale, ndr), afferma padre Verschueren a Domani.

«Sono state descritte in dettaglio le forti misure di restrizione, e le ragioni per cui erano state prese e infine ho chiesto al vescovo se, dopo aver ricevuto tutte queste informazioni, rimanesse nell’intenzione di accoglierlo – prosegue Verschueren – La sua risposta qualche settimana dopo mostrava che non aveva l’intenzione di cancellare la sua offerta di incardinare padre Rupnik, se questi avesse ottenuto l’indulto per lasciare la Compagnia di Gesù, cosa che gli è stata rifiutata dal padre generale».

Rupnik infatti non ha ottenuto l’indulto ma è stato cacciato dalla Compagnia lo scorso 14 luglio; nonostante questo, e contrariamente a quello che aveva assicurato a padre Verschueren, il vescovo Bizjak ha ritenuto di incardinarlo ugualmente, segno di una chiara determinazione a voler assicurare a Rupnik la diocesi di cui aveva bisogno per poter continuare a esercitare il sacerdozio una volta espulso dai gesuiti.

Ed ecco il colpo di scena. Secondo il bollettino della Santa Sede, Bergoglio è giunto alla decisione di far riesaminare il caso al Dicastero per la dottrina della fede (da settembre presieduto dal cardinale argentino Víctor Manuel Fernández) in seguito a «gravi problemi nella gestione del caso di P. Marko Rupnik e la mancanza di vicinanza alle vittime» segnalati «nel mese di settembre» dalla Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori.

Al cambio di rotta avrebbe contribuito anche il clima dell’assemblea sinodale, sensibile al tema degli abusi, e in particolare – riferisce una nostra fonte – una discussione avuta proprio sul caso Rupnik con il cardinale Seán Patrick O’Malley, presidente della Pontificia Commissione per la Tutela dei Minori.

È un fatto che il 21 ottobre alcune vittime di Rupnik sono state ascoltate dalla Pontificia Commissione in un incontro online: l’intento era quello di garantire in futuro «che le procedure per assistere le vittime siano giuste, trasparenti e adeguate per fornire un ambiente sicuro e rispettoso per tutti coloro che sono colpiti dall’abuso».

«A questo punto non serve ascoltare le vittime, perché tutte siamo state ascoltate più volte e l’unica cosa che manca è la giustizia: questo è quello che ho detto alla Tutela Minorum – ha riferito una delle vittime di Rupnik che ha partecipato all’incontro e che preferisce mantenere l’anonimato – Non ho bisogno di ascolto ma di giustizia, per me e per le altre». Branciani e Kovač invece non hanno partecipato: «Abbiamo proposto ai membri della Commissione un’altra modalità, che prevedesse un colloquio in presenza con il nostro avvocato: hanno acconsentito, ma ancora non abbiamo stabilito quando e dove si svolgerà», spiega Gloria Branciani.

Restano molti nodi da sciogliere per comprendere l’improvviso voltafaccia di Francesco. È possibile che il papa, messo sotto pressione da parte del Sinodo e soprattutto dall’indignazione delle vittime, abbia cambiato politica e abbandonato al suo destino l’amico protetto fino a ieri? Non resta che attendere il processo, a questo punto determinante per capire le intenzioni del Vaticano.

FOTO DI MARCO GARRO

Rupnik ha di nuovo una diocesi nonostante le accuse di abusi sulle donne. Il silenzio del Vaticano
Di Federica Tourn

Domani, 26 ottobre 2023

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CAPODISTRIA
Marko Rupnik, il sacerdote e artista accusato di aver abusato di diverse donne ed espulso dalla Compagnia di Gesù lo scorso 14 luglio, è stato incardinato nella diocesi di Capodistria dal vescovo Jurij Bizjak alla fine di agosto. La voce in Slovenia girava da tempo, ma fino a ieri non si aveva alcuna conferma ufficiale. Secondo quanto ha dichiarato il vicario generale Slavko Rebec, «il vescovo di Capodistria ha accettato sulla base del decreto di dimissione di Rupnik dall’ordine dei gesuiti e sulla base della richiesta di ammissione di Rupnik alla diocesi di Capodistria».

L’incardinazione del sacerdote è avvenuta «sulla base del fatto che non era stata emessa alcuna sentenza giudiziaria nei confronti di Rupnik – prosegue monsignor Rebec – chiunque risulti accusato di un reato penale ha il diritto di essere presunto innocente fino a quando è giudicato colpevole in base alla legge, in un procedimento pubblico in cui gli viene data la possibilità di difendersi». Il vicario mette le mani avanti e cita anche la Dichiarazione dei diritti umani all’articolo 11.1, quando ribadisce che «fino a quando Rupnik non sarà condannato, gode di tutti i diritti e le libertà fondamentali dei sacerdoti diocesani».

Tutto a posto, quindi? Rupnik torna a casa, nella diocesi dove è stato ordinato prete nel 1985, e ricomincia da capo? Un po’ difficile da credere. Innanzitutto, Rupnik non ha intenzione di chiudersi in qualche parrocchia della provincia slovena, ma aveva semplicemente bisogno di un vescovo che lo accogliesse formalmente per poter continuare a esercitare il ministero come sacerdote diocesano. Infatti non si trova attualmente a Capodistria e né ci lavorerà, ma è «ufficiosamente» a Roma, come ha dichiarato candidamente don Božo Rustja, portavoce della diocesi di Capodistria, ripreso da Družina.

È da notare che il vescovo di Capodistria ha dato le dimissioni più di un anno fa per ragioni di età (ha compiuto 75 anni nel febbraio 2022) ed è in attesa che papa Francesco nomini un successore. Secondo quanto si dice nella chiesa slovena, la sedia da vescovo a Capodistria era già pronta per Ivan Bresciani quando è scoppiato lo scandalo Rupnik e tutto è stato congelato. Bresciani, già vicedirettore del Centro Aletti e per sei anni provinciale dei gesuiti in Slovenia, è fra i fedelissimi di Rupnik ed è uscito dalla Compagnia di Gesù poco dopo l’espulsione del confratello.

Sempre secondo quanto riferisce Družina, anche altri tre ex gesuiti sloveni del Centro di via Paolina sarebbero stati accolti dal vescovo Maksimilijan Matjaž nella diocesi di Celje, a una settantina di chilometri dalla capitale, ma manca ancora la conferma ufficiale.

Guardando agli ultimi avvenimenti che riguardano l’affaire Rupnik, è difficile non pensare a una manovra studiata a tavolino con un’accurata attenzione alla tempistica (l’espulsione di Rupnik dalla Compagnia è stata annunciata pubblicamente a metà giugno), in modo da evitare di sollevare future obiezioni formali.

Seguiamo la cronologia degli eventi: a Capodistria si formalizza l’incardinazione a fine agosto, ma facendo attenzione a non dirlo a nessuno e senza specificare quando è stata avanzata la richiesta da parte di Rupnik. Il 18 settembre il vicariato di Roma pubblica l’esito della visita canonica al Centro Aletti di don Giacomo Incitti, docente di diritto canonico alla Pontificia Università Urbaniana di Roma, in cui si dice che al Centro Aletti, di cui Rupnik è la mente, «è presente una vita comunitaria sana e priva di particolari criticità» e si avanzavano addirittura «fondati dubbi» sul procedimento di scomunica imposta al sacerdote nel 2020 per aver assolto una donna dopo un rapporto sessuale.

Pochi giorni prima si era tenuta l’amichevole udienza con il papa della direttrice del Centro, Maria Campatelli. A fine ottobre, infine, la diocesi di Capodistria si decide a diffondere la novità su Rupnik incardinato e i media sloveni, di solito non così reattivi sul tema, si precipitano a pubblicare la notizia (tuttora non disponibile sul sito della diocesi), quasi l’avessero avuta pronta nel cassetto da tempo. Il tutto, naturalmente, senza una parola per la sofferenza e la richiesta di giustizia delle vittime dell’ex gesuita.

È da capire quali saranno le prossime mosse di Rupnik, ma con ogni probabilità vedremo nuovi mosaici con la sua firma uscire dall’atelier artistico del Centro Aletti, che peraltro non ha mai smesso di essere operativo. Lungi dall’essere la parola fine su una vicenda intricata che affonda le radici in Vaticano, quest’ultimo capitolo apre in realtà la strada a nuovi scenari per la chiesa in Slovenia e a Roma.


Abusi nella chiesa, le vittime dell’ex gesuita Rupnik si oppongono alla sua riabilitazione
Di Federica Tourn

Domani, 19 settembre 2023

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«Questa relazione, che scagiona da ogni responsabilità Rupnik, ridicolizza il dolore delle vittime, ma anche di tutta la chiesa, mortalmente ferita da tanta tracotanza ostentata». Queste le parole di alcune vittime di Marko Rupnik, che in una lettera aperta al papa reagiscono con sdegno al rapporto finale della visita canonica sul Centro Aletti, diffuso ieri dalla diocesi di Roma.

«I fatti e i comunicati che si sono susseguiti in questi ultimi giorni – l’udienza privata, resa poi pubblica attraverso immagini apparse in rete, concessa dal papa a Maria Campatelli, ex religiosa della Comunità Loyola e attuale presidente del Centro Aletti; e il comunicato diffuso con il report conclusivo della visita canonica realizzata alla comunità del Centro Aletti – tali fatti ci lasciano senza parole, senza più voce per gridare il nostro sconcerto, il nostro scandalo», scrivono le sopravvissute alle violenze dell’ex gesuita nella lettera pubblicata oggi sul sito di Italy Church Too (https://italychurchtoo.org/2023/09/19/157/), il coordinamento contro gli abusi nella Chiesa cattolica, nato nel febbraio 2022 in sostegno di tutte le vittime della violenza clericale.

Per le firmatarie, l’udienza papale a Campatelli e il rapporto diocesano che assolve l’operato del Centro Aletti sono un chiaro segno dell’indifferenza della Chiesa nei confronti delle vittime: «riconosciamo che la “tolleranza zero sugli abusi nella chiesa” è stata solo una campagna pubblicitaria, a cui hanno invece fatto seguito solo azioni spesso occulte, che hanno invece sostenuto e coperto gli autori di abusi», si legge nel testo. Oltre al papa, la lettera – che si può sottoscrivere e che denuncia la doppia violenza subita dalle vittime, prima da Rupnik e poi dalla Chiesa, che le ha ripetutamente ignorate – è indirizzata anche al cardinale Angelo De Donatis, al presidente della Cei Matteo Zuppi e al cardinale João Braz de Aviz, prefetto del Dicastero per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica.

«Il comunicato della diocesi, avallando pienamente il lavoro del Centro Aletti riabilita anche il suo fondatore ed è l’ultimo sfacciato tentativo del cardinale De Donatis di salvare Rupnik, con la piena approvazione del papa», spiega a Domani Fabrizia Raguso, docente di psicologia all’università cattolica di Braga, in Portogallo, ex sorella della Comunità Loyola e prima firmataria della lettera aperta. Proprio dalla Comunità Loyola erano emerse, già nel 1994, le prime denunce di abuso a carico di Rupnik.

Da questi fatti si era originata la spaccatura della Comunità: alcune sorelle erano rimaste con la superiora Ivanka Hosta e altre, fra cui la stessa Campatelli, avevano seguito Rupnik per fondare il Centro Aletti a Roma. Hosta, si legge ancora nella lettera, «per trent’anni ha coperto le nefandezze di Rupnik, e ha ridotto in schiavitù spirituale coloro che si opponevano ai suoi disegni di rivincita». La Comunità Loyola è stata commissariata nel dicembre 2020 e la sua situazione canonica è al momento lasciata in sospeso dal Dicastero competente, nonostante la relazione conclusiva del commissario, il vescovo gesuita Daniele Libanori, che ha evidenziato gravi casi di manipolazione di coscienza da parte della superiora. Emerge quindi chiaramente come il sacerdote sloveno abbia goduto di una rete di protezione da parte di diverse persone (non ultimo l’allora arcivescovo di Lubiana Alojzij Šuštar), che già trent’anni fa erano a conoscenza dei suoi abusi ma non hanno fatto nulla per fermarlo.

«Immagino che dietro questa difesa ad oltranza di Rupnik e delle sue seguaci ci siano anche interessi economici – continua Raguso – perché il Centro Aletti è un’associazione pubblica di fedeli della diocesi e incassa cifre importanti grazie alla produzione e alla vendita dei mosaici». La risonanza mondiale delle denunce a carico dell’ex gesuita ha però già fatto calare le richieste di nuove opere e in diversi paesi, dalla Francia alla Svizzera e alla Gran Bretagna, si comincia a discutere dell’opportunità di rimuovere i mosaici usciti dall’atelier artistico del Centro Aletti.

Alla lettera aperta hanno aderito anche alcune ex religiose che avevano testimoniato a Domani sotto pseudonimo e che ora hanno deciso di esporsi pubblicamente con il proprio nome. «Sono passati più di trent’anni dagli abusi subiti nella comunità Loyola – dice Gloria Branciani a Domani – un tempo insopportabile perché nonostante tutte le testimonianze, le denunce, i fatti narrati con fatica e dolore io oggi ancora non esisto per la Chiesa. I fatti sono prescritti ma le persone no, e neanche il nostro dolore. Per questo sento il diritto-dovere civico e morale di continuare a testimoniare la verità dei fatti, anche se a qualcuno possono sembrare sgradevoli e inappropriati». «Di nuovo ci vogliono costringere al silenzio ma la verità non si può cancellare», aggiunge un’altra sopravvissuta, Vida Bernard.

Papa Francesco, che il 15 settembre ha accolto con calore in Vaticano Maria Campatelli (un incontro «sbattuto in faccia alle vittime»), non ha invece mai risposto a quattro lettere che altrettante religiose ed ex religiose della Comunità Loyola gli avevano fatto recapitare nel luglio del 2021. L’amarezza delle vittime per la diversità di trattamento ricevuto dal papa è profonda: «non c’è posto in questa chiesa per chi ricorda verità scomode», concludono.

FOTO DI FONDAZIONE SANTA LUCIA

Abusi nella chiesa, la diocesi di Roma riabilita Rupnik e solleva dubbi sulla sua scomunica
Di Federica Tourn

Domani, 18 settembre 2023

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IL VESCOVO ANGELO DE DONATIS
«Emerge con chiarezza che in seno al Centro Aletti è presente una vita comunitaria sana e priva di particolari criticità»: questo, in sintesi, il risultato della visita canonica disposta dal cardinale vicario di Roma, il vescovo Angelo De Donatis, sul Centro fondato e a lungo diretto da Marko Rupnik, l’ex gesuita accusato di aver abusato di almeno una ventina di donne. Non solo: il cardinale vicario mette in dubbio una sentenza del Dicastero per la Dottrina della fede (ex Congregazione), quando dichiara che «il Visitatore ha potuto riscontrare e ha quindi segnalato procedure gravemente anomale il cui esame ha generato fondati dubbi anche sulla stessa richiesta di scomunica». Scomunica in cui era incorso Rupnik per aver assolto in confessione una donna con cui aveva avuto un rapporto sessuale e che gli era stata rimessa pochi giorni dopo, molto probabilmente dal papa in persona. Ora, il fatto che il vicario generale oggi dichiari di aver «rimesso la relazione alle Autorità competenti» per la gravità dei riscontri sulla «richiesta della scomunica», sembra evidenziare uno scontro sotterraneo in Vaticano nel nome di Rupnik.

La visita canonica, avviata il 16 gennaio scorso, aveva l’obiettivo di indagare sulle dinamiche interne all’équipe del Centro Aletti, associazione pubblica di fedeli dal giugno 2019, e in particolare, sui rapporti fra l’attuale gruppo dirigente e Rupnik. La relazione finale del visitatore incaricato, don Giacomo Incitti, docente di Diritto Canonico presso la Pontificia Università Urbaniana, è chiara: nulla da eccepire su quel che succede in via Paolina. Anzi, il gruppo ne è uscito rinsaldato: «la vicenda – a giudizio di Incitti – ha aiutato le persone che vivono l’esperienza del Centro Aletti a rafforzare la fiducia nel Signore, nella consapevolezza che il dono della vita di Dio si fa spazio anche attraverso la prova». I membri del Centro Aletti, ha appurato il visitatore, «benché amareggiati dalle accuse pervenute e dalle modalità con cui sono state gestite, hanno scelto di mantenere il silenzio – nonostante la veemenza dei media – per custodire il cuore e non rivendicare una qualche irreprensibilità con cui ergersi a giudici degli altri».

Nessun problema, quindi. Niente da dire sul fatto che la direttrice Maria Campatelli fosse in prima fila il 5 marzo scorso, insieme al resto dell’équipe e al gruppo dei gesuiti (ora usciti dallla Compagnia dopo l’espulsione di Rupnik, ratificata lo scorso 14 luglio), quando Rupnik concelebrava nella basilica di Santa Prassede a Roma, violando il divieto dei suoi superiori di esercitare attività ministeriale e sacramentale in pubblico. Niente da dire nemmeno sugli esercizi spirituali che Rupnik avrebbe dovuto condurre per il Centro Aletti, in violazione delle restrizioni imposte dalla Compagnia; e, soprattutto, niente da rilevare sugli abusi che il sacerdote e artista commetteva anche nei locali del Centro, a Roma, approfittando del suo ruolo, come più di una vittima ha testimoniato alla Compagnia di Gesù nel corso dell’indagine avviata lo scorso febbraio. Tutto nella norma, insomma. Si sono rese necessarie alcune modifiche allo Statuto, vista l’uscita della compagine dei gesuiti dal Centro ma, a parte questi aggiustamenti tecnici, restano «integre le finalità fondative».

Resta da vedere che cosa succederà adesso che il cardinale De Donatis ha lanciato la bomba sulla scomunica, imposta a Rupnik nel 2020 con una sentenza firmata dal cardinale Luis Ladaria Ferrer, all’epoca prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Al netto della successiva revoca, mettere in dubbio i presupposti per la scomunica appare un chiaro atto di sfida nei confronti del Dicastero vaticano, con un unico obiettivo di fondo: la riabilitazione di Rupnik, in spregio alla Compagnia di Gesù che ne ha deciso l’espulsione e dei vescovi sloveni che hanno condannato gli abusi – per non parlare delle vittime. Non solo: difficile pensare che dietro il pesante attacco di De Donatis non ci sia l’approvazione, se non addirittura la regia, del papa. Lo stesso Francesco, d’altronde, appena tre mesi fa aveva illustrato proprio un mosaico di Rupnik presente a Santa Marta durante un messaggio a un congresso mariologico brasiliano, segno inequivocabile di sostegno al discusso confratello.

Tre giorni fa, la direttrice del Centro, Maria Campatelli, che non ha mai fatto mistero di essere totalmente dalla parte di Rupnik, anche attraverso lettere pubbliche in cui l’ex sacerdote veniva dipinto come vittima di stampa e gesuiti, è stata ricevuta dal papa in colloquio privato. Oggi, alla luce dell’esito della visita canonica, non è difficile immaginare che al cuore dell’incontro in Vaticano ci sia stato un cordiale avallo delle attività del Centro, che potrà quindi portare avanti le redditizie opere di Rupnik con la benedizione di Francesco.

FOTO DI LORENZO IORFINO

La diocesi di Ginevra verso lo smantellamento delle opere di Rupnik, l’ex gesuita accusato di abusi
Di Federica Tourn

Domani, 07 settembre 2023

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Tredici mosaici che ripercorrono la risurrezione di Gesù, in dodici luoghi di culto sparsi nel cantone di Ginevra: i volti, con i grandi occhi neri, hanno il marchio ben riconoscibile dell’ex gesuita Marko Rupnik. Il “Cammino di gioia”, un progetto inaugurato nel 2019 e realizzato dal Centro Aletti in collaborazione con l’atelier peruviano Encañada, è ora a rischio di smantellamento dopo lo scandalo che ha coinvolto Rupnik, fondatore e a lungo direttore del Centro Aletti.

Rupnik, infatti, accusato di aver abusato di almeno una ventina di donne, è stato dimesso dall’ordine dei gesuiti lo scorso 14 luglio in seguito a un’indagine interna che ne ha verificato «il rifiuto ostinato di osservare il voto di obbedienza». Nei giorni scorsi la diocesi di Losanna, Ginevra e Friburgo ha comunicato di aver costituito un gruppo diocesano di riflessione per valutare l’impatto della vita personale dell’artista sulla sua arte e l’effetto che le opere hanno sulle vittime. «I membri di questa équipe hanno svolto un’ampia consultazione con esperti ed enti competenti, oltre che con le persone coinvolte nella creazione di questo percorso artistico», ha spiegato a Domani Charles Morerod, vescovo di Losanna, Ginevra e Friburgo.

Fra le associazioni che collaborano c’è anche il gruppo Sapec, che nel 2016 ha promosso la Cecar, la Commissione indipendente sugli abusi nella chiesa in Svizzera. «Il problema – ha sottolineato il vescovo – è come conciliare il rispetto dovuto alle vittime e quello per gli artisti, in particolare i partecipanti all’atelier peruviano, che ha creato cinque dei tredici mosaici che compongono il “Cammino di gioia”».

Una decisione simile è stata presa lo scorso marzo a Lourdes, quando il rettore del Santuario Michel Daubanes e il vescovo di Tarbes e Lourdes Jean-Marc Micas hanno costituito un gruppo di lavoro per verificare l’opportunità di rimuovere i mosaici realizzati da Rupnik nel 2007 sulla facciata della Basilica del Rosario. Molte vittime in pellegrinaggio al Santuario infatti, hanno dichiarato che non riescono più a pregare di fronte alle immagini realizzate da un abusatore.

«Non si può separare l’arte di Rupnik dalla violenza psicologica, sessuale e spirituale imposta alle vittime, che spesso erano anche le sue prime modelle», dice a Domani Olivia (nome di fantasia), una delle religiose che ha testimoniato di fronte ai gesuiti di aver subito molestie da Rupnik quando era ospite del Centro Aletti. Diverse ex sorelle della comunità Loyola hanno raccontato a Domani che il sacerdote le avvicinava convincendole che l’arte è un modo per vivere la fede e poi, usando abilmente il suo carisma spirituale, abusava di loro. «Bisogna anche considerare che se Rupnik sovrintendeva l’opera, a comporre concretamente i mosaici c’erano anche tante donne, artiste che lavoravano anche per brevi periodi all’atelier – continua Olivia – alcune di queste erano vittime di Rupnik, io per prima: vogliamo davvero conservare dei mosaici che rappresentano figure sacre, ora che sappiamo che sono stati realizzati da vittime di violenza per ordine del loro abusatore?».

Rimuovere le opere di sacerdoti contestati non è impossibile: lo dimostra il caso di don Louis Ribes, detto il “Picasso delle chiese”, pedofilo riconosciuto che ha abusato di almeno 49 minori. Dopo anni di richieste da parte delle vittime, a inizio agosto nella chiesa di Dième, vicino a Lione, sono state tolte due vetrate realizzate dal sacerdote e altre presto seguiranno la stessa sorte. In Brasile, invece, i responsabili del Santuario nazionale dell’Aparecida, nello stato di San Paolo, non hanno ancora preso una decisione chiara su cosa fare dei 2300 metri quadri di mosaico posati sulle facciate nord e sud della Basilica da Rupnik e dai suoi collaboratori. L’opera, iniziata nel 2019, verrà portata a termine o si deciderà per una marcia indietro, come è successo con la chiesa di Saint-Joseph-le Bienveillant, vicino a Parigi, dove il parroco ha rotto il contratto con il Centro Aletti? Da mesi la laconica risposta che arriva dall’Aparecida è sempre la stessa: «Il Santuario nazionale segue da vicino il caso e attende le direttive della Chiesa per le sue decisioni». Silenzio assoluto, invece, sul costo dei mosaici corrisposto al Centro Aletti.

La Chiesa sembra però non avere troppa fretta, né probabilmente intenzione, di dire una parola chiara sul tema. Non l’ha fatto finora e l’impressione, in Brasile come a Roma, è che si attenda soltanto che si calmino le acque dell’indignazione mediatica per ricominciare tutto più o meno come prima.

Fuori Rupnik dalla Compagnia di Gesù, restano però aperte diverse questioni: come dare giustizia (e risarcimento) alle vittime? Rupnik dove eserciterà ora il suo ministero? Dimesso dai gesuiti ma non dallo stato clericale, deve infatti trovare un vescovo disposto a incardinarlo nella propria diocesi. In questo scenario, come si trasformerà il Centro Aletti? La direttrice Maria Campatelli, in una lettera aperta agli amici del 28 febbraio scorso, aveva dichiarato che «dopo lunghi anni di affiancamento, l’Atelier è oggi guidato da un’équipe direzionale, in grado di assumere la responsabilità per un cantiere sia dal punto di vista teologico-liturgico e artistico-creativo, che dal punto di vista tecnico-amministrativo. Questo ci consentirà di tener fede a tutti gli impegni sin qui presi e ad assumerne altri di nuovi».

L’intenzione è chiara, così come è evidente che dietro le quinte rimane saldo Marko Rupnik, da cui il Centro Aletti non solo non ha mai preso le distanze ma che, anzi, ha continuato a sostenere in ogni occasione. È facile immaginare che l’atelier artistico continuerà a creare mosaici finché arriveranno commesse: con Rupnik (almeno formalmente) fuori dalla scena, il Centro Aletti non trova motivo di rinunciare a un affare che si è dimostrato negli anni florido e redditizio. Un progetto ben congegnato, che potrebbe però essere messo in crisi dalla decisione delle chiese francese e svizzera di rimuovere le opere del controverso sacerdote.


FOTO DI RAMA

Rupnik non è più un gesuita. Ma sul suo destino si sa ancora poco
Di Federica Tourn

Domani, 24 luglio 2023

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È ufficiale, Marko Rupnik non fa più parte della Compagnia di Gesù. Lo ha confermato il suo ex superiore, padre Johan Verschueren, delegato per le Case e Opere Internazionali Romane della Compagnia di Gesù in una lettera aperta pubblicata oggi, 24 luglio, sul sito della Compagnia. Rupnik, accusato di abusi da almeno quindici religiose, era stato dimesso il 14 giugno scorso a causa – recitava il comunicato ufficiale – «del suo rifiuto ostinato di osservare il voto di obbedienza» e «di dare un segnale chiaro alle numerose persone lese che testimoniavano contro di lui».

Trascorso il mese previsto dal diritto canonico per la presentazione di un eventuale ricorso contro la decisione, oggi il famoso artista è soltanto un sacerdote secolare in cerca di un vescovo che lo incardini nella sua diocesi. In risposta a quanti chiedevano un processo che portasse alla dimissione dello stato clericale di Rupnik, Verschueren ha ricordato che questo non compete ai gesuiti ma alla Santa Sede. Così, ai tanti interrogativi che circondano questa vicenda si aggiunge ora una nuova domanda: chi accetterà di incardinarlo, in totale disprezzo della sofferenza delle vittime e delle consapevolezze emerse in questi mesi, tra cui una scomunica latae sententiae (poi rimessa dalla Santa Sede) per “assoluzione del complice in confessione”? Alcune fonti sostengono che Rupnik stia cercando riparo in Croazia, dove è stato visto il mese scorso fra Spalato e l’isola di Hvar, come abbiamo scritto su Domani il 9 giugno.

Certo è che anche al Centro Aletti di Roma da settimane si registra un gran fermento per ridefinire gli statuti e sancire anche formalmente la separazione dai gesuiti. Lo attesta anche padre Verschueren quando sostiene che «è fermo desiderio della Compagnia di Gesù prendere distanza anche giuridica dal Centro Aletti, uscendo formalmente dall’Associazione Pubblica di Fedeli che porta lo stesso nome e trovando il modo migliore di rescindere rapporti di partnership con il Centro». Problema non semplice, visto che il palazzo di via Paolina dove ha sede il centro è di proprietà dei gesuiti. «Stiamo cercando il modo migliore per poterlo fare, anche in collaborazione con il Vicariato di Roma, da cui dipende oggi il Centro Aletti», scrive ancora il padre gesuita nella lettera, sottolineando «che non c’è più una comunità di gesuiti residenti al Centro Aletti». Padre Milan Žust e gli altri confratelli del Centro hanno infatti fatto domanda per uscire a loro volta dalla Compagnia dopo l’espulsione di Rupnik. Secondo quanto conferma una fonte interna alla Compagnia di Gesù, Žust, docente di missiologia alla Pontificia Università Gregoriana, è stato anche esonerato dal suo corso (almeno) per il prossimo anno accademico.

Un clima incandescente, che non smette di generare polemiche. La direttrice del Centro Aletti, Maria Campatelli, aveva puntualizzato in una “lettera agli amici” del 23 giugno scorso che era stato lo stesso Rupnik, già a gennaio, a presentare istanza per uscire dall’ordine dei gesuiti, «essendo in toto venuta meno la fiducia verso i propri superiori una volta che questi hanno purtroppo dato ripetuta prova di favorire una campagna mediatica basata su accuse diffamanti e non provate». Verschueren ha risposto pubblicamente che questo non dava a Rupnik alcun diritto a sottrarsi alle restrizioni e alle direttive imposte dai suoi superiori «dato che i voti da lui emessi un giorno nella Compagnia di Gesù lo vincolavano a un impegno a vita di obbedienza».

Un divorzio annunciato, quello fra il Centro Aletti, da sempre schierato in strenua difesa del suo fondatore, e i gesuiti, che ora alzano le mani dicendo che il problematico artista e la comunità di preti e religiose di via Paolina non è più affar loro. «Ho sempre desiderato come Superiore Maggiore poter avviare un processo che potesse garantire l’accertamento giudiziale dei fatti, il diritto alla difesa e le pene sanzionatorie conseguenti (o la possibile assoluzione), ma diversi motivi, tra cui gli attuali limiti delle normative relative a situazioni simili, non lo hanno permesso», precisa infatti Verschueren. Con buona pace delle vittime, che ancora una volta non vengono considerate: non da Campatelli, che mai le ha nominate, e per ora nemmeno da Verschueren, che non chiarisce se e come si procederà al dovuto risarcimento, pur mostrandosi disponibile «a nuovi percorsi che potremo studiare insieme». La patata bollente è ora tutta nelle mani del vicario di Roma, il cardinale Angelo De Donatis, e in ultima istanza del papa. Francesco, in un videomessaggio a un convegno brasiliano di mariologia di inizio giugno, aveva descritto con dovizia di particolari proprio un quadro di Rupnik, lasciando intendere che i mosaici dell’ex confratello non si toccano.

FOTO DA CENTROALETTI

Rupnik, il Vaticano e l’artista russo: il pasticciaccio della “nuova Sistina”
Di Federica Tourn

Domani, 24 giugno 2023

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La chiamano “la nuova Cappella Sistina”, e i mosaici che l’hanno resa famosa in tutto il mondo portano la firma di Marko Rupnik. Stiamo parlando della cappella Redemptoris Mater in Vaticano, che papa Giovanni Paolo II decise di rinnovare completamente allo scadere del millennio con un’opera che profetizzasse l’avvento di nuova epoca cristiana. Un grande progetto, non solo artistico ma anche teologico, che Wojtyła non a caso aveva definito «i due polmoni di una sola Chiesa». Attribuito universalmente a Rupnik, il famoso restauro ha in realtà una genesi complicata e per molti versi ancora oscura.

In un primo momento, infatti, la Santa Sede non aveva incaricato l’artista sloveno di realizzare i mosaici per la cappella papale ma il mosaicista russo Alexander Kornoukhov: il Centro Aletti era in origine responsabile soltanto della supervisione organizzativa e teologica dell’opera. Oggi Kornoukhov accusa apertamente Rupnik di aver distrutto il suo lavoro e di essersi sostituito a lui per prendersi il merito finale dell’opera. «Attraverso la calunnia, la sedizione e l’inganno, in violazione del suo trattato con la Santa Sede, (Rupnik) ha distrutto, all’insaputa di Papa Giovanni Paolo II, i mosaici finiti della Cappella “Madre del Redentore” del Palazzo Vaticano, creati nel 1996-1998 da Kornoukhov», si legge infatti nella lettera del 3 gennaio 2023 che Artyom Kirakosov e Anna Weinberg, rappresentanti dell’artista russo, hanno indirizzato (ma non ancora spedito) a papa Francesco e a padre Joahn Verschueren, delegato per le case e le opere interprovinciali dei gesuiti a Roma.

Una vicenda rocambolesca che vale la pena ricostruire dall’inizio e che aggiunge non pochi elementi alla comprensione della figura del noto sacerdote, accusato di reiterati abusi da diverse religiose e da poco dimesso dall’ordine dei gesuiti per violazione del voto di obbedienza. Rupnik ha tempo fino al 14 luglio per fare ricorso contro la decisione dei suoi superiori ma è molto improbabile che lo faccia visto che, come ha rivelato la direttrice del Centro Aletti Maria Campatelli in una “lettera agli amici”, lui per primo il 21 gennaio scorso aveva chiesto di uscire dalla Compagnia di Gesù «essendo in toto venuta meno la fiducia verso i propri superiori». Per gli stessi motivi, anche gli altri gesuiti del Centro Aletti hanno fatto domanda di indulto per uscire dalla Compagnia e non c’è dubbio che lo seguiranno anche le donne consacrate del Centro, le sorelle della comunità della Divino Umanità. In questa nuova cornice, che ne sarà dell’atelier artistico di via Paolina, e dell’avviata attività di realizzazione dei mosaici? Un affare fruttuoso che ha portato fama e denaro al Centro Aletti e che è iniziato proprio con la controversa realizzazione della Cappella vaticana.

«Nel 1996 la Chiesa mi ha chiesto di impegnarmi in un’opera artistica liturgica. Allora ho capito con chiarezza che non mi posso più sottrarre, che l’arte non è semplicemente l’espressione dell’artista, ma un servizio, umile come tutti i servizi. L’arte è come l’amore: più è personale, più è universale». Ne Il colore della luce (Lipa 2003), Marko Rupnik allude così all’incarico di occuparsi della ristrutturazione e decorazione della cappella Redemptoris Mater. Con la somma ricevuta nel ’96 dal Collegio cardinalizio in occasione del cinquantesimo anniversario della sua ordinazione, Karol Wojtyła aveva infatti deciso di restaurare la cappella con un progetto iconografico che riconciliasse, alle soglie del nuovo secolo, la divisione millenaria fra l’oriente e l’occidente cristiano. Così il papa spiegava ai cardinali la sua idea, il 10 novembre 1996: «Essa diventerà un segno dell’unione di tutte le Chiese da voi rappresentate con la Sede di Pietro. Rivestirà inoltre un particolare valore ecumenico e costituirà una significativa presenza della tradizione orientale in Vaticano».

Il Centro Aletti, fondato pochi anni prima proprio con l’intento di favorire l’incontro fra ortodossi e cattolici, appare a tutti il luogo perfetto per concepire un progetto ecumenico e artistico così ambizioso, e proprio nella sede di via Paolina nasce l’idea di realizzare la cappella in stile bizantino. A garanzia della tenuta teologica dell’impresa c’è Tomáš Špidlík, teologo ceco, gesuita, profondo conoscitore della spiritualità ortodossa, ispiratore del Centro Aletti e, fra l’altro, mentore e padre spirituale di Rupnik. A realizzare il lavoro viene chiamato Alexander Kornoukhov, che Rupnik e Špidlík hanno conosciuto tramite la celebre poetessa russa Ol’ga Sedakova, all’epoca ospite del Centro Aletti. «Una sera, dopo cena, padre Marko Rupnik mi invitò nel suo ufficio e mi chiese se conoscevo qualche buon mosaicista: voleva trovare un artista russo che lavorasse nello stile tradizionale bizantino – racconta a Domani Sedakova – Gli parlai volentieri di Alexander Kornoukhov, un mio vecchio amico, che era ormai un artista affermato e in Russia aveva ricevuto il premio di Stato». Kornoukov non era un perfetto sconosciuto nemmeno in Italia: aveva vinto il primo premio in un concorso internazionale di mosaico a Ravenna nel 1984 e a Roma nel 1995-96 aveva realizzato dei mosaici per la parrocchia di Sant’Ugo (per ironia della sorte, nella stessa chiesa, fianco a fianco, oggi si trovano anche dei mosaici di Rupnik, commissionati nel 2000 quando ormai la spaccatura dei due artisti si era consumata).

Ecco come vanno le cose, almeno secondo la ricostruzione fatta dal Centro Aletti in un documento del 29 ottobre 1996. Il 23 gennaio ’96 Špidlík, Rupnik e Michelina Tenace (ex sorella della Comunità Loyola e membro del Centro Aletti, oggi docente alla Gregoriana) sono a pranzo con Giovanni Paolo II: parlano di teologia orientale e discutono, fra le altre cose, dell’opportunità di restaurare la cappella privata del papa. Il giorno successivo Rupnik, accompagnato da Kornoukhov e da sua moglie Vika Naveriani, va a visitare la cappella in Vaticano per farsi un’idea del lavoro da fare. Il 24 maggio 1996 i tre presentano il progetto per la parete centrale della cappella a monsignor Stanisław Jan Dziwisz (per 39 anni segretario di Giovanni Paolo II e oggi cardinale, lo stesso che ha bollato come «farneticanti» le ipotesi di coinvolgimento di Wojtyła nella scomparsa di Emanuela Orlandi) e a monsignor Piero Marini, all’epoca maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie. Dopo essere passato al vaglio di «diverse commissioni all’interno del Vaticano, sia ecclesiali che artistiche», il 30 maggio arriva il via libera di monsignor Dziwisz, che incarica Rupnik di occuparsi dell’opera: «la Santa Sede affida a lei il progetto e il restauro della cappella Redemptoris Mater. Noi ci fidiamo totalmente di lei e le diamo luce verde su tutto», si legge nel memorandum del Centro Aletti. Responsabile del progetto e della messa in opera è Rupnik, assistito da Kornoukov; il consigliere teologico è Špidlík e monsignor Marini è il responsabile per la Santa Sede. L’autore dell’opera è Kornoukhov, assistito da Rupnik. Nel documento si accenna anche ai costi: la cifra indicativa è di 800 milioni di lire, ma in calce si sottolinea il fatto che gli artisti devono comunque sentirsi onorati di «lavorare in un posto così importante».

Una lettera del patriarca di Mosca Alexiei, datata 20 agosto 1996, in cui il capo della Chiesa ortodossa russa benedice l’incarico di Kornoukhov in Vaticano, conferma che a metà di quell’anno gli accordi erano avviati. «Vi ringrazio per l’informazione sui vostri contatti con il papa di Roma e sulla vostra intenzione di realizzare il mosaico nel Palazzo del Santissimo Papa Giovanni Paolo II – scrive il patriarca a Kornoukhov – Che il Signore vi aiuti in questo lavoro. Spero che realizzandolo voi sarete degno testimone della dottrina e tradizione culturale della Chiesa Ortodossa».

L’accordo formale fra Kornoukhov e il Governatorato della Città del Vaticano, nella persona del segretario generale, il vescovo Gianni Danzi, viene stipulato il 23 maggio 1997: si stabilisce che l’artista russo «collaborerà all’esecuzione del lavoro di restauro» e che sarà suo «il compito di curare lo stile artistico del mosaico». Il maestro Kornoukhov concorderà la realizzazione delle singole fasi del progetto con il direttore artistico del Centro Aletti, Marko Rupnik, a cui è affidata «la direzione artistica e teologica del restauro della Cappella». Per il suo lavoro, l’artista russo riceverà ottocento milioni di vecchie lire, escluso il costo dei materiali impiegati.

L’11 marzo ’97 Kornoukov firma anche un accordo privato con il Centro Aletti, in cui si concorda che l’artista e la moglie (più due collaboratori, se necessario) si stabiliranno in via Paolina per tutto il tempo necessario al restauro della cappella, con un «parziale rimborso spese» per il Centro di dieci milioni all’anno per vitto e alloggio. In questo accordo si specifica che a Rupnik non riceverà nessuna percentuale del compenso accordato a Kornoukhov dalla Santa Sede per il restauro, né si farà pagare per il suo apporto all’opera. Anche in questo caso si specifica che il russo è «il principale artista» del rinnovamento della cappella papale.

Allestito il cantiere nella cappella, Kornoukhov comincia dalla parete orientale, dove realizza il mosaico della “Gerusalemme celeste”, l’unico che si è conservato quasi interamente. «Il mosaico – spiega l’artista – si ispira a un frammento di un’icona del Giudizio universale del XVI secolo, che avevo visto in uno studio di restauratori a Mosca, e che raffigurava dei santi seduti intorno a un altare, a loro volta rappresentazione della Trinità». Poi, insieme ai suoi collaboratori si dedica alla volta e alle altre pareti. Nel frattempo, però, i rapporti con Rupnik hanno cominciato a incrinarsi. «All’inizio si era proclamato mio allievo ma dopo un po’ ha iniziato a usare ogni pretesto per criticare il mio lavoro, insinuando che non fosse ben fatto e che addirittura cadesse a pezzi», spiega Kornoukhov a Domani. Lo stesso contratto con la Santa Sede, secondo quanto si legge nella già citata lettera di Kirakosov e Weinberg, era stato redatto da Rupnik e privava totalmente l’artista russo della sua libertà creativa. Kornoukhov era stato quindi «costretto a firmarlo senza un’adeguata traduzione, sotto costrizione, e in seguito a una pressione emotiva e psicologica durata diversi giorni».

Il punto di rottura arriva il 10 febbraio 1998, in concomitanza con la visita di Stato del presidente della Federazione russa Boris Eltsin a Roma. In quell’occasione, Eltsin e la moglie sono invitati in Vaticano ad ammirare la Cappella papale. «Fu un successo e tutti apprezzarono i mosaici già realizzati sulle pareti e sulla volta», ricorda Kornoukhov. «Il papa stesso era molto soddisfatto», conferma Sedakova. Ma è qui che la situazione si trasforma in un vero e proprio thrilling ricco di colpi di scena. «La mattina successiva alla visita di Eltsin, Rupnik mi buttò fuori dal Centro Aletti e mi tolse anche le chiavi della cappella – accusa Kornoukhov – si chiuse nel cantiere impedendomi di entrare e distrusse quasi tutto il lavoro che avevo realizzato fino a quel momento». Rupnik fa a pezzi la volta con il Cristo Pantocratore, smantella i mosaici che ricoprono le pareti, salvando soltanto buona parte della Gerusalemme Celeste, mentre Kornoukhov è congedato senza una spiegazione. «Da quel momento mi fu impedito di entrare in Vaticano, senza alcuna prova scritta delle accuse che mi venivano rivolte», rincara l’artista.

Un motivo in realtà c’era ed era anche piuttosto grave, almeno secondo quanto afferma Rino Pastorutti, all’epoca consulente dell’opera: «mi chiamò il cardinale Re – ricorda – dovevo dare un parere sul lavoro e alla fine mi fermai per tre anni». Il problema, secondo Pastorutti, era che «i mosaici fatti da Kornoukhov non tenevano perché il collante non era adatto e le tessere della volta venivano giù». Pastorutti, maestro mosaicista di Spilimbergo e a lungo collaboratore del Centro Aletti, racconta a Domani che i problemi di tenuta erano talmente evidenti che all’epoca circolavano anche disegni satirici in cui si vedeva il papa dire messa col casco protettivo. «Non discuto la bravura dell’artista ma sulle grandi superfici non si può andare a naso. Forse è stato consigliato male», aggiunge. Pastorutti, che ha poi collaborato al rifacimento della volta dopo il licenziamento di Kornoukhov, scrisse anche una relazione sul lavoro fatto dal russo e sui motivi che avrebbero causato il suo allontanamento dalla Redemptoris Mater. Il documento, spiega Pastorutti, «doveva rimanere secretato in Vaticano per un certo numero di anni». «Una relazione tecnica di cui non ho mai sentito parlare prima d’ora», assicura dal canto suo il mosaicista russo.

Secondo Kornoukhov, queste accuse erano totalmente infondate e frutto di una manovra del gesuita, «un puro atto di vandalismo», pianificato per prendersi il credito finale del restauro della cappella. «Per dimostrare i gravi “difetti” del mio lavoro, Rupnik con un cacciavite aveva staccato delle pietre dalla parete est», sostiene Kornoukhov. «Insisto sul cacciavite, perché le pietre avevano pezzi di grassello di calce che non ci sarebbero state se le pietre fossero cadute da sole», aggiunge. Non solo: secondo quanto afferma Kornoukhov, prima di mandarlo via dalla cappella Rupnik si assicurò che il russo non avesse ancora provveduto a fissare il mosaico alle pareti. «Mi chiese: hai fissato il mosaico? Alla mia risposta negativa, si limitò a comunicarmi verbalmente che la nostra collaborazione era terminata».

Così l’artista russo è costretto a lasciare Roma, e a nulla valgono le lettere di protesta che, insieme ai suoi sostenitori, scrive all’arcivescovo di Roma e allo stesso papa Giovanni Paolo II. Sarà Rupnik a rifare le parti demolite e a completare il restauro e oggi chi visita la cappella Redemptoris Mater vede questa accozzaglia di stili che, secondo Kornoukhov e Sedakova, ha deturpato anche dal punto iconografico il progetto originario di Giovanni Paolo II.

Comunque sia andata, una cosa è certa: per Rupnik la realizzazione di questo “umile servizio” è la svolta: da quel momento la sua carriera di mosaicista decolla e le commissioni per i lavori cominciano a fioccare da ogni parte del mondo. Prima del prestigioso incarico in Vaticano, infatti, Rupnik si era dedicato, fra dubbi e ripensamenti, soprattutto all’arte figurativa («facevo le mostre, i critici mi hanno notato, e ho capito il rischio che può costituire la fama», confessava nel Colore della luce). Ma allo scadere del millennio, insieme ai mosaici della cappella privata del papa viene consacrata anche la sua fama di artista internazionale. Rupnik viene chiamato a riprodurre i mosaici della Redemptoris Mater nella cappella dei Cavalieri di Colombus a New Haven, nel Connecticut, nel 2005, e da lì a poco arriveranno i grandi incarichi a Lourdes, Fatima e nella Basilica di San Giovanni Rotondo. Per l’opera in Vaticano benedetta da Paolo Giovanni II, il gesuita riceve nel 2000 il premio Prešeren, la più alta onorificenza del Ministero della Cultura sloveno (premio che è stato invitato a restituire dalla ministra della Cultura Asta Vrečko quando è scoppiato lo scandalo degli abusi sulle suore della Comunità Loyola).

Rimangono molte domande: chi ha permesso a Rupnik di distruggere il lavoro di Kornoukhov e di prendersi il merito dell’opera? Se il Centro Aletti doveva fornire all’artista russo supervisione e assistenza, perché non ha risolto l’eventuale problema del collante?

Sul lavoro perduto di Kornoukhov, in Russia sono stati stampati alcuni libri ed è stato realizzato un documentario, diretto da Alexander Stroev e creato appositamente per i 25 anni dei mosaici della cappella. A inizio 2023 a Mosca sono stati organizzati una tavola rotonda e una mostra che, scrive il curatore Artyom Kirakosov, «include per la prima volta una rappresentazione dei mosaici perduti e distrutti in Vaticano», grazie al restauro digitale basato su vecchie fotografie Polaroid non professionali e curato dalla restauratrice Maria Ovchinnikova. Lo scorso 20 gennaio, Kornoukhov ha mandato una lettera a papa Francesco in cui chiede la conferma ufficiale della paternità dei mosaici vaticani da lui eseguiti e il permesso di «continuare a creare in vari formati e materiali, in una varietà di linguaggi artistici, nuove opere sulla base di bozzetti, cartoni e fotografie conservate nell’archivio dell’artista». Per ora dal Vaticano non è arrivata risposta. Kournokhov questa volta non ha però nessuna intenzione di lasciarsi zittire ed è pronto a spedire la già citata lettera di denuncia contro Rupnik. Determinato a ristabilire la verità sulla cappella Redemptoris Mater, l’artista russo vuole rientrare in possesso dei diritti sul suo lavoro e progetta di portare la mostra anche in Italia: i bozzetti mai realizzati della “seconda Sistina” si potranno probabilmente vedere a Venezia già il prossimo autunno.

Una cosa è certa: comunque vada – e soprattutto ora che la sorte di Rupnik è quanto mai incerta, mentre infuria la polemica sulla possibile rimozione delle sue opere– la storia della cappella contesa non è ancora arrivata ai titoli di coda.


FOTO DI FRED ROMERO

Marko Rupnik è stato dimesso dai Gesuiti
Di Federica Tourn

Domani, 15 giugno 2023

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Alla fine, il decreto è arrivato: espulsione. Marko Rupnik, il sacerdote accusato di abusi da diverse religiose, è stato dimesso dalla Compagnia di Gesù.

La decisione è stata presa il 9 giugno scorso dal generale dei gesuiti, padre Arturo Sosa Abascal, «a causa del suo rifiuto ostinato di osservare il voto di obbedienza», come si legge nel comunicato ufficiale diffuso il 15 giugno da padre Johan Verschueren, superiore di Rupnik e delegato per le Case e le Opere interprovinciali romane dei gesuiti.

Dopo un’inchiesta interna alla Compagnia sulle responsabilità del famoso artista, durata diversi mesi, e che aveva appurato gli abusi sessuali, spirituali, di coscienza commessi da Rupnik nei confronti di almeno quindici persone, i gesuiti avevano provato a offrirgli una nuova comunità e una nuova missione, in sostanza «un’ultima possibilità di fare i conti con il proprio passato e di dare un segnale chiaro alle numerose persone lese che testimoniavano contro di lui».

Ma è stato tutto inutile: Rupnik non ha risposto alle direttive dei suoi superiori, rifiutandosi di sottostare alle restrizioni che gli erano state imposte. Come abbiamo documentato su Domani, ha infatti continuato come nulla fosse a celebrare messa, a viaggiare e addirittura a portare avanti gli affari dell’atelier del Centro Aletti.

«Di fronte al reiterato rifiuto di Marko Rupnik di obbedire», scrive ancora padre Verschueren, «ci è rimasta purtroppo una sola soluzione: la dimissione dalla Compagnia di Gesù».

Ora l’ex gesuita, a cui è stata comunicata la dimissione dall’ordine il 14 giugno, secondo le norme del codice di diritto canonico ha un mese di tempo per presentare ricorso. I gesuiti hanno anche ringraziato «per la comprensione e il sostegno» le persone che hanno testimoniato al Team Referente, formato a dicembre per verificare la verosimiglianza delle denunce a carico del prete.

«Se e quando la dimissione dovesse diventare definitiva – promette la Compagnia in una lettera alle vittime – sarà possibile approfondire i temi e rendere note più cose».

«Rupnik è stato ritenuto responsabile dei fatti che tutte noi abbiamo denunciato – dichiara Anna (nome di fantasia), la prima ex sorella della Comunità Loyola ad aver raccontato a Domani le violenze subite da Rupnik – ma chi perde veramente ancora una volta in questa storia? Le vittime, che sono chiamate ad attendere ulteriori sviluppi».

«Siamo di fronte a un gioco delle parti, dove la grande assente è la giustizia per chi, come me, aveva creduto nella chiesa e si è ritrovata abusata nello spirito, nell’anima e nel corpo – aggiunge ancora Anna – vincono invece i gesuiti, che allontanano un confratello problematico, la chiesa, che continua a proteggerlo, e ovviamente lo stesso Rupnik, che non è obbligato ad assumersi le sue responsabilità e a iniziare un percorso di conversione».

Ancora una volta in questa storia le vittime rimangono le grandi assenti, a cui nessuno – non la Compagnia di Gesù, tantomeno la chiesa – chiede scusa o propone un risarcimento per il dolore e le violenze subite.

«Mettendomi nei panni delle mie ex consorelle, alle quali gli abusi hanno stravolto la vita, mi chiedo cosa provino leggendo che padre Marko è stato dimesso perché ha rifiutato di osservare il voto di obbedienza», commenta Esther (nome di fantasia), un’altra delle ex suore della comunità Loyola, già intervistata da Domani.

«Non è quello che ci aspettavamo quando abbiamo risposto all’invito del team referente del gesuiti di testimoniare – aggiunge – abbiamo sperato che lo avrebbero fermato e invece oggi ci troviamo a chiederci quante persone ancora dovranno soffrire a causa sua».

Rupnik resta un sacerdote secolare: la sua eventuale dimissione dallo stato clericale dipende ora dalla Santa sede, cioè, in ultimo da papa Francesco, che già una volta lo ha salvato dalla scomunica latae sententiae che la Congregazione per la dottrina della fede gli aveva impartito per aver assolto in confessione la novizia con cui aveva avuto un rapporto sessuale.

L’ex gesuita ora dovrà cercare un vescovo che accetti di incardinarlo nella sua diocesi: qualcuno che ovviamente gli permetta di continuare a produrre e vendere mosaici con il sostegno dei suoi fedelissimi (e soprattutto delle sue fedelissime) del Centro Aletti.

Lo scenario che si apre oggi è dunque ancora ricco di variabili e di problemi da sciogliere. Uno di questi è la permanenza di Rupnik all’interno dello stesso Centro Aletti, che pur dipendendo dalla diocesi di Roma in quanto associazione pubblica di fedeli, si trova in un palazzo romano, in via Paolina, di proprietà dei gesuiti.

Il vicario di Roma, il cardinale Angelo de Donatis, è un grande amico di Rupnik, ma è comunque sempre il papa a decidere delle questioni fondamentali, come disposto dalla Costituzione apostolica In ecclesiarium communione sull’ordinamento del vicariato romano, voluta dallo stesso Francesco lo scorso 6 gennaio. In ultima istanza sarà ancora una volta il papa, quindi, a determinare – con opere o con omissioni – il futuro del controverso sacerdote, suo amico, oggi anche ex confratello.

FOTO DI SAMSTUDIJ

Il viaggio di Rupnik in Bosnia e Croazia, nonostante i divieti. Sfida aperta al Vaticano
Di Federica Tourn

Domani, 09 giugno 2023

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Marko Rupnik a inizio giugno è stato a Mostar, in Bosnia Erzegovina, ospite dell’ordine dei francescani, in occasione della chiusura dei lavori di ristrutturazione della Chiesa dei Frati minori di San Pietro e Paolo. Negli stessi giorni è stato visto anche sull’isola di Hvar, in Croazia, a quattro ore di viaggio da Mostar. Una fonte che preferisce rimanere anonima ha raccontato a Domani che il gesuita, d’accordo con il vescovo di Hvar-Brač-Vis, monsignor Ranko Vidović, sta progettando il restauro della cappella del Palazzo vescovile della città di Hvar.

L’artista sloveno continua quindi a viaggiare, a monitorare i lavori in corso e persino a progettare nuove opere, noncurante delle restrizioni che gli sono state imposte dal suo superiore, padre Johan Verschueren, delegato per le Case e le Opere interprovinciali romane della Compagnia di Gesù, e che gli vietano di lasciare il Lazio e di accettare nuovi incarichi, «in modo particolare nei confronti di strutture religiose, chiese, istituzioni, oratori e cappelle, case di esercizi o spiritualità». Proibizioni attualmente in vigore, come ha confermato padre Verschueren a Domani, ma che evidentemente non hanno turbato il noto artista e teologo, sotto inchiesta da mesi da parte della Compagnia per le accuse di abusi nei confronti di numerose suore. Padre Verschueren non era a conoscenza degli spostamenti di Rupnik, così come non sapeva che la srl Rossoroblu, che gestisce le commissioni e i proventi dei mosaici del Centro Aletti, appartiene al 90 per cento al gesuita, come abbiamo raccontato su Domani del 14 aprile.

Nella chiesa dei francescani di Mostar, Rupnik e il suo atelier artistico hanno realizzato un’imponente opera di decorazione dal 2018 al 2021, ricoprendo la volta e le pareti con affreschi e l’abside con un mosaico di 700 metri quadri. Lavori ultimati nei giorni scorsi ma non ancora pagati: i francescani hanno infatti sollecitato i fedeli a contribuire con donazioni, mentre un nuovo imponente restauro è iniziato nella vicina chiesa di Rodoč. Rupnik vanta delle amicizie anche sull’isola dalmata di Hvar. L’attuale vescovo di Hvar-Brač-Vis Ranko Vidović era infatti parroco dell’Isola della Madonna a Salona (Spalato) quando, nel settembre 2020, è stata inaugurata la chiesa della Sacra Famiglia, decorata con i mosaici e gli affreschi dell’artista sloveno. In occasione dell’ordinazione di Vidović a vescovo di Hvar, nel maggio 2021, la città di Salona gli aveva donato un bastone da pastore, anche questo realizzato da Rupnik, segno di un legame consolidato che oggi potrebbe portare a nuovi progetti artistici nel Palazzo vescovile che si affaccia sulla piazza principale della città.

Secondo quanto riferisce una nostra fonte, però, l’idea di Vidović di affidare a Rupnik la decorazione della cappella del Palazzo vescovile di Hvar non è andata a genio al vicario generale, monsignor Stanko Jerčić. Il vicario, trovando inopportuna la scelta di affidare i lavori a un sacerdote sotto inchiesta per abusi, avrebbe anche scritto una lettera di protesta indirizzata al vescovo e al nunzio apostolico a Zagabria, l’arcivescovo Giorgio Lingua. Jerčić, interpellato da Domani, ha dichiarato «di non essere disponibile a parlare di questi fatti con i giornalisti», mentre il nunzio ha affermato di non essere a conoscenza del progetto della cappella e di non aver ricevuto nessuna lettera. Don Robert Bartoszek, parroco di Vrboska, un piccolo centro dell’isola, ha risposto bruscamente a Domani che «i preti devono avere l’autorizzazione del vescovo per parlare con la stampa». Silenzio, per ora, dal palazzo vescovile.

Che Rupnik non tenga in nessun conto le indicazioni dei suoi superiori è però ormai evidente, così come è chiaro che continua a portare avanti le trattative per le sue opere, personalmente o tramite membri del Centro Aletti. La sua disinvoltura nel viaggiare e nell’ignorare le restrizioni sono il segno che continua a godere di molte protezioni, nonostante le denunce di abuso e lo scandalo accertato della scomunica per aver assolto in confessione una novizia con cui aveva appena avuto un rapporto sessuale. Inoltre, stride non poco il fatto che a Rupnik venga permesso di proseguire le sue attività come se nulla fosse, in totale spregio delle vittime, proprio mentre altrove si discute dell’opportunità di rimuovere i suoi mosaici, a cominciare dal Santuario di Lourdes dove nel 2007 ha realizzato la facciata della Basilica del Rosario.

Inquietante in questo senso il segnale lanciato lo scorso 3 giugno da papa Francesco che, pur non parlando apertamente del caso Rupnik, ha lasciato ben intendere la sua posizione sul futuro delle opere del confratello sotto inchiesta. Come rimarcato dal blog Il Sismografo, infatti, durante un videomessaggio di saluto al congresso mariologico dell’Aparecida in Brasile, il papa ha descritto minuziosamente un quadro di Rupnik presente nella sua residenza a Santa Marta. Un errore, una disattenzione, o piuttosto l’indicazione di una precisa volontà di sostenere Rupnik?

Sostegno che probabilmente non è comunque mai venuto a mancare, se è vero che la scomunica impartita dall’allora Congregazione per la dottrina della fede è stata tolta dalla Santa Sede, e quindi con ogni probabilità dallo stesso Bergoglio. Difficile pensare, in ogni caso, che il papa ne fosse all’oscuro anche se, ufficialmente, Francesco ha negato ogni coinvolgimento nella spinosa faccenda.

In questo clima sempre più torbido si attende l’esito dell’inchiesta della Compagnia di Gesù, che dovrebbe essere reso noto entro l’estate e potrebbe comportare l’espulsione di Rupnik dall’ordine dei gesuiti.


Gli scandali di Rupnik portano la cancel culture all’interno della chiesa
Di Federica Tourn

Domani, 16 maggio 2023

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Una cappa di silenzio avvolge la sorte di Marko Rupnik, il gesuita molto vicino a papa Francesco, accusato di aver abusato di almeno sedici persone in trent’anni. Da oltre due mesi sul noto artista è in corso un’inchiesta interna alla Compagnia di Gesù che potrebbe portare alla sua espulsione dall’ordine dei gesuiti, ma è difficile prevedere quando sarà presa una decisione. «Dipende da tanti fattori giuridici in corso – ha detto a Domani il diretto superiore di Rupnik, padre Johan Verschueren, delegato per le case e le opere interprovinciali della Compagnia a Roma – La mia speranza è che si riesca prima delle vacanze d’estate».

Ma se i gesuiti non si sbilanciano, si esprimono i committenti dei suoi mosaici, che più di ogni altra cosa hanno determinato la sua fortuna (e il suo potere) nella Chiesa. A Lourdes, dove Rupnik nel 2007 ha realizzato la facciata della Basilica del Rosario, il rettore Michel Daubanes e il vescovo di Tarbes e Lourdes Jean-Marc Micas a fine marzo hanno costituito un gruppo di lavoro per decidere dell’opportunità di rimuovere i mosaici a causa «della sofferenza delle vittime che vengono al santuario in cerca di conforto». Sempre in Francia, il parroco di Montigny-Voisins le Bretonneux, vicino a Parigi, ha deciso d’accordo con il suo vescovo di rompere il contratto firmato con Rupnik per la decorazione della nuova chiesa di Saint-Joseph-le Bienveillant. A Fatima, in Portogallo, dove nel 2007 Rupnik ha realizzato l’interno del nuovo santuario della Santissima Trinità, il rettore fa invece «una chiara distinzione tra l’opera e l’uomo».

«L’opera, di indiscutibile qualità estetica – ha spiegato a Domani padre Carlos Cabecinhas – va infatti separata dai fatti che coinvolgono padre Rupnik e che hanno portato al suo allontanamento pubblico, fatti che il Santuario di Fatima rifiuta totalmente, associandosi al dolore delle vittime». In Brasile, la Pontificia Università Cattolica del Paraná a febbraio ha deciso di revocare la laurea honoris causa che aveva conferito a Rupnik tre mesi prima, ritenendolo «indegno di tale onorificenza», ma ancora non si sa che cosa verrà deciso dei lavori in corso al monumentale Santuario nazionale dell’Aparecida, nello Stato di San Paolo, dove l’artista e la sua équipe hanno già finito le facciate nord e sud della basilica. Un conto, infatti, è togliere un titolo onorifico, un altro smantellare più di 2300 metri quadri di mosaico. Oggi, i responsabili del Santuario ammettono il loro imbarazzo dicendo che «stanno monitorando attentamente il caso e attendono indicazioni dalla Chiesa su come procedere».

La Chiesa, però, tace. La Compagnia di Gesù, che pure ha ritenuto credibili le testimonianze delle vittime, come abbiamo detto stenta a prendere una decisione sul futuro del teologo sloveno, lasciando trasparire la delicatezza di un’operazione che non coinvolge soltanto i gesuiti o la diocesi di Roma ma arriva a toccare anche il Vaticano. Rupnik infatti, scomunicato “latae sententiae” (cioè con effetto immediato) dalla Congregazione per la dottrina della fede nel maggio 2020 per aver assolto in confessione una novizia con cui aveva avuto un rapporto sessuale, neanche un mese dopo si è visto revocare la scomunica dallo stesso dicastero. Considerata la gravità del reato canonico, soltanto la Santa Sede poteva togliere la scomunica ed è quindi difficile non vedere la mano di papa Francesco dietro questo brusco cambio di rotta; Bergoglio, però, ha negato di essere intervenuto nella faccenda durante un’intervista ad Ap e non è poi più tornato sull’argomento.

Certo, il curriculum delle malefatte di Rupnik è ormai abbastanza nutrito: scomunica a parte, il gesuita ha alle spalle un’indagine ecclesiastica con l’accusa di violenza su diverse suore della Comunità Loyola a cavallo degli anni ’90, indagine che il Dicastero per la dottrina della fede ha chiuso con un non luogo a procedere nell’ottobre 2022 perché i fatti erano ormai prescritti. Per tacere della violazione del voto di povertà, visto che possiede il 90 per cento delle quote della Rossoroblu srl, la società che tratta (almeno in parte) le commissioni delle sue opere, come abbiamo documentato su Domani del 16 aprile. Nonostante questi precedenti e le restrizioni che la Compagnia di Gesù gli ha imposto a più riprese, Rupnik ha continuato indisturbato a lavorare, viaggiare e persino a concelebrare messa a Roma, quasi a voler rimarcare di essere al di sopra delle regole, forte di protezioni potenti alle spalle.

In ogni caso, in pubblico il papa è sempre molto attento a non nominare lo scomodo confratello, anche se alcune fonti, a Roma e nella chiesa slovena, attribuiscono proprio a Francesco la regia di questa complicata e sconcertante vicenda. Il 28 aprile Bergoglio ha ricevuto in Vaticano una delegazione di sopravvissuti agli abusi clericali proveniente dalla Slovenia ma, nonostante il caso Rupnik fosse chiaramente l’elefante nella stanza, neanche una parola è stata pronunciata sul suo conto. Non solo: nel gruppo non c’era nemmeno una delle vittime del gesuita, e questo nonostante la Comunità Loyola, tuttora commissariata per gravi problemi interni, abbia la sede principale proprio a Lubiana.


Abusi, mosaici e milioni, ecco la società segreta di Rupnik
Di Federica Tourn e Marija Zidar, (Lubiana)

Domani, 14 aprile 2023

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Si chiama Rossoroblu la società fondata nel 2007 da Marko Rupnik «per la creazione e posa in opera, in laboratorio e sul luogo, di mosaici, vetrate, affreschi, murales, sculture, pitture in tutte le varie tecniche ed arti». La srl, con sede in via Paolina 25, dove si trova il Centro Aletti, appartiene per il 90 per cento a Rupnik e per il 10 a Manuela Viezzoli, una ex sorella della comunità Loyola che ora fa parte del “cerchio magico” delle sue fedelissime, le laiche consacrate della Comunità della divino-umanità. In almeno due casi abbiamo la prova che è stata questa società a trattare le commissioni dei mosaici: in occasione dell’imponente lavoro al Santuario di padre Pio di Pietrelcina a San Giovanni Rotondo e per i lavori di decorazione nella chiesa del cimitero di Lubiana. Il famoso artista, il gesuita accusato di abusi nei confronti di diverse suore, non poteva scegliere un nome più evocativo per la srl che gestisce le commissioni e i pagamenti dei suoi mosaici. Rosso, oro e blu sono i suoi colori: il rosso a indicare la divinità, il blu l’umano e il giallo la santità secondo la tradizione cristiana del primo millennio, come ha più volte spiegato lo stesso Rupnik. Sono il suo marchio di fabbrica, come i grandi occhi neri delle figure sacre, ritratte con le pupille dilatate a occupare tutta l’orbita.

Una società di cui nemmeno il superiore di Rupnik, padre Johan Verschueren, delegato del Preposito generale della Compagnia di Gesù per le Case internazionali dei gesuiti a Roma, era a conoscenza: «è una notizia completamente nuova per me e anche abbastanza scioccante», ha detto, interpellato da Domani. Possedere una società non è ammissibile per un gesuita, «perché è contro il voto di povertà» ha aggiunto padre Verschueren. Chi allora ha permesso a Rupnik di gestire direttamente i profitti derivati dalle sue opere?

Più si diffondono le testimonianze delle vittime (un’altra religiosa, suor Samuelle, qualche giorno fa ha raccontato al giornale francese La vie le molestie subite da Rupnik al Centro Aletti), più quei rossi, gialli e blu accesi di Rupnik sembrano incombere su chi li osserva e sollevano non pochi dubbi sul futuro delle opere. Si può distinguere il lavoro dell’artista dalle responsabilità del sacerdote? Al momento a Rupnik è vietato accettare nuove commissioni di lavori artistici, ma l’interdizione si estende anche all’atelier artistico del Centro Aletti di cui lui è il fondatore e l’ispiratore? Domande imbarazzanti, perché coinvolgono non solo la reputazione di Rupnik ma il futuro stesso del Centro Aletti e di non poche istituzioni religiose e chiese in tutto il mondo. Interrogativi spinosi che qualcuno ha cominciato a porsi: il 27 marzo il vescovo di Tarbes e Lourdes Jean-Marc Micas e il rettore del Santuario di Lourdes Michel Daubanes hanno affermato in un comunicato ufficiale che «i mosaici di padre Rupnik che decorano la Basilica del Santuario di Lourdes potrebbero essere rimossi a causa della sofferenza delle vittime che vengono al Santuario in cerca di conforto». Rupnik era stato anche nominato responsabile della decorazione interna ed esterna della nuova chiesa di Saint-Joseph-le Bienveillant, la cui costruzione è iniziata diversi mesi fa nella parrocchia di Montigny-Voisins, non lontano da Parigi. L’8 dicembre scorso, però, venuto a conoscenza delle accuse al gesuita, il vescovo di Versailles Luc Crepy, d’accordo con don Pierre-Hervé Grosjean, parroco di Montigny-Voisins le Bretonneux, ha deciso di interrompere ogni collaborazione. Segnali importanti che arrivano dalla Francia, un paese sempre un passo avanti sul tema degli abusi clericali e del rispetto delle vittime, e che presto potrebbero fare scuola anche altrove.

In attesa del responso della Compagnia di Gesù, che a breve dovrebbe pronunciarsi sulla sorte del sacerdote e che ha già detto di ritenere attendibili le denunce raccolte nei mesi scorsi dal team referente incaricato di ascoltare le vittime, è quindi interessante approfondire come funziona “l’industria” delle opere di Rupnik. Oltre 220 mosaici, affreschi e vetrate in chiese e istituzioni religiose – questo il numero dei lavori eseguiti dal Centro Aletti dal 2000 al 2022 – a cui bisogna aggiungere i quadri, le vetrate e le opere funerarie di proprietà di privati. Una produzione enorme e diffusa in tutto il mondo, frutto del pensiero di Rupnik e dell’opera dell’Atelier del Centro, che si propone «come via per aiutare un nuovo incontro tra l’arte e la fede, tra le diverse Chiese e gli artisti», come si legge sul sito del Centro. Un «permanente cantiere comunitario», che si occupa quasi esclusivamente di arte liturgica e di cui fanno parte artisti e architetti, «in modo da poter gestire tutte le fasi del lavoro, dalla progettazione dello spazio ecclesiale fino alla realizzazione dell’arredo liturgico e delle opere d’arte».

Senza entrare nel merito del valore artistico di queste opere, siamo certamente di fronte a un patrimonio considerevole dal punto di vista economico. In particolare i mosaici, che hanno reso famoso Marko Rupnik a livello internazionale, hanno prodotto ricavi stimati in decine di milioni di euro. E qui dunque sorge la domanda: quanto costa un mosaico realizzato da Rupnik e dalla sua corte di artisti?

Reperire i dati è tutt’altro che semplice. Il Centro Aletti non ha risposto alle domande di Domani e sul sito non c’è traccia di cifre, né si trova di più sui siti delle istituzioni che hanno commissionato le opere, come se fosse di cattivo gusto parlare di denaro in mezzo a tanta professione di fede. Per quanto riguarda l’Italia, abbiamo rintracciato il preventivo per il mosaico di 250 metri quadri realizzato nel 2017 sulla facciata esterna del Santuario della Madonna dei Fiori di Bra (Cuneo): ammontava a 250mila euro (coperti interamente dai fedeli), ma la cifra è lievitata in corso d’opera. Il lavoro al Santuario di Padre Pio, invece, è costato ai frati minori cappuccini più di sei milioni di euro già dieci anni fa (il cantiere è stato aperto dal 2009 al 2013), secondo quanto riferisce una fonte interna al Santuario. Si tratta di un percorso iconografico di oltre 2400 metri quadri, pensato per arricchire la chiesa costruita da Renzo Piano e che comprende il mosaico della rampa di accesso alla Chiesa inferiore, gli arredi della cripta, il crocefisso, l’altare esterno e infine la decorazione della Cappella del Santissimo Sacramento. Possiamo quindi soltanto immaginare quale cifra da capogiro richieda il progetto, tuttora in corso, al Santuario nazionale dell’Aparecida, nello stato di San Paolo in Brasile, la più grande chiesa del continente americano e la seconda al mondo dopo San Pietro in Vaticano. Qui Rupnik e la sua équipe hanno già terminato di decorare l’ingresso nord della basilica, 2300 metri quadri di mosaico con scene dall’Antico Testamento. Restano ora le altre tre facciate da ultimare. Interpellati da Domani sui costi dell’opera e sulle previsioni per il prossimo futuro (chi completerà il lavoro? Sarà appaltato ad altri?), i responsabili del Santuario brasiliano hanno preferito non rilasciare dichiarazioni.

Parlare di Rupnik non è facile nemmeno quando si tratta del suo paese natale. Secondo i dati pubblici forniti dalle stesse parrocchie e dai media sloveni, già vent’anni fa il prezzo dei mosaici di Rupnik oscillava tra i mille e i tremila euro al metro quadro, e il prezzo è aumentato negli anni successivi di pari passo con la notorietà di Rupnik. Le dimensioni delle opere variano dai 50 ai 200 metri quadri, quindi il ricavo totale dei mosaici sloveni arriverebbe a circa 6 milioni di euro. In Slovenia, dove l’atelier artistico del Centro Aletti, secondo i dati ufficiali, ha realizzato 38 opere, i parroci delle chiese che sfoggiano i mosaici sono quasi tutti molto reticenti a rivelare l’esito delle trattative. A Semič, piccolo comune vicino al confine con la Croazia, Rupnik ha realizzato i mosaici per la cappella di Santa Teresa del Bambin Gesù nel 2019: intervistato da Domani sull’opera, il parroco Luka Zidanšek parla addirittura di «accordo segreto» e si rifiuta di rivelare quanto è stato pagato il lavoro. Nella chiesa della Santa Vergine di Polje, a Lubiana, dove i mosaici non solo ricoprono le pareti del battistero e della cappella della Santa Vergine ma adornano tutta la facciata della chiesa, le cose non sono andate meglio: Janez Bernot, il parroco che ha commissionato il lavoro (realizzato fra il 2017 e il 2020), accoglie con freddezza la domanda e dice che «non ricorda» e che comunque «si è trattato di un accordo commerciale riservato». Per quanto riguarda gli edifici civili, i mosaici di Rupnik svettano per svariati metri di altezza all’interno del complesso residenziale “Vila urbana”, nel centro storico della capitale, a pochi passi dalla cattedrale. Qui, invece del Cristo, si vede il drago, simbolo della città di Lubiana, ma il tratto dell’artista è inconfondibile. Il valore dell’opera non è pervenuto.

Del costo dei lavori realizzati prima del 2012 abbiamo qualche notizia in più grazie alla tesi di laurea in ingegneria civile di Arnold Oton Ciraj su “Aspetti di spesa della costruzione di nuove strutture sacrali”. Nel descrivere la metodologia e i risultati, l’autore ammette che è stato arduo ottenere dati e che le arcidiocesi di Lubiana e Maribor, le due più grandi diocesi slovene, lo avevano addirittura avvertito in anticipo che sarebbe stato molto difficile ottenere informazioni sui costi di costruzione. «La maggior parte non ha nemmeno risposto – scrive Ciraj nella tesi – In molti casi le parrocchie, per vari motivi, non conservano questi dati e ci si chiede se siano mai esistiti su carta». Quando esistono, sono spesso lacunosi o approssimativi: «spesso i lavori venivano pagati in contanti e non se ne fa menzione nei registri finanziari», sottolinea l’ingegnere.

Dei quaranta committenti interpellati, quasi nessuno ha voluto dichiarare l’esito degli accordi finanziari. Ciraj è riuscito a ottenere informazioni sul prezzo delle opere di Rupnik solo da tre parrocchie slovene, dove sono presenti i mosaici più imponenti: San Marco Evangelista a Capodistria, il complesso cimiteriale di Santa Croce a Lubiana e la chiesa di Sant’Elena a Pertoče, vicino al confine con l’Ungheria. Secondo i media cattolici sloveni dell’epoca, la chiesa di Pertoče ha pagato 250mila euro nel 2009 per un mosaico di 92 metri quadri che occupa tutto il presbiterio, mentre la parrocchia di San Marco a Capodistria ha corrisposto circa 100mila euro nel 2003 per un mosaico di 115 metri quadri, a cui si aggiungono i 22mila euro donati dalla società per azioni del Porto di Capodistria per un nuovo mosaico di 40 metri. Per gli 80metri quadri del mosaico nella chiesa di Tutti i Santi nel cimitero di Lubiana, invece, la stima del costo, calcolata sul prezzo al metro quadro, arriva facilmente ai 150mila euro.

Inoltre, si apprende dal sito della parrocchia di Semič, a 70 chilometri da Lubiana, che nel 2019 aveva calcolato di spendere 50mila euro per un mosaico di 70 metri quadri, senza però aver ancora ricevuto un attendibile preventivo di spesa. Alcune parrocchie, a quanto pare, non hanno infatti avuto dal Centro Aletti una esatta stima dei costi, come nel caso della piccola parrocchia di Vrhpolje, a trenta chilometri dal confine italiano, dove i lavori per il mosaico di 180 metri quadri (all’epoca il più grande mosaico di Rupnik in Slovenia), iniziati nel 2013, sono stati terminati anni dopo per la difficoltà nel reperire i fondi necessari. Un articolo del 2016, uscito sul periodico Novi Glas, conferma le difficoltà incontrate dal sacerdote responsabile della parrocchia, don Janez Kržišnik: «l’enorme quantità di lavoro – spiega il prete – ha richiesto costi enormi che non possono nemmeno essere stimati con precisione».

I mosaici di Rupnik sono infatti finanziati principalmente con i doni dei parrocchiani e anche per questo motivo non si capisce tanta reticenza nel rendere note le cifre. Di fronte a questa mancanza di trasparenza, è logico chiedersi dove sono finiti i soldi. Chi ha incassato il denaro? Chi ci guadagna? L’attuale parroco di San Marco, don Ervin Mozetič, non sa dire a chi sia stata corrisposta l’intera cifra spesa nel 2003 (più di 122mila euro), mentre il sacerdote incaricato all’epoca, Jožef Koren, ricorda soltanto che si trattava di un bonifico bancario su un conto fornitogli da Rupnik. Lo stesso succede al cimitero di Lubiana: il sacerdote responsabile, Peter Možina, non era presente nel 2009, quando sono stati realizzati i lavori. Il parroco precedente, Tomaž Prelovšek, raggiunto al telefono da Domani, invece non ha dubbi: il pagamento è stato effettuato con un versamento direttamente a quella che gli viene presentata come «la società del Centro Aletti», la Rossoroblu srl.

Questa società in realtà è di Rupnik, perché il gesuita la possiede al 90 per cento. Dalla visura camerale si evince infatti che è stata fondata nel settembre 2007 da Rupnik e da Viezzoli, con un capitale sociale di partenza di diecimila euro; alla fine del 2022 risulta avere 15 dipendenti, mentre il bilancio dell’anno precedente registra un fatturato di 1.176.500 euro e un utile di 119.607 euro. L’andamento societario è in crescita (più 32,50% nel 2019) e l’utile negli ultimi anni è sempre aumentato, passando dai 41.490 euro del 2017 fino ai 95.481 euro del 2020. Amministratrice unica e rappresentante dell’impresa è Manuela Viezzoli e i soci risultano essere sempre loro due, Viezzoli e Rupnik. Al 31 dicembre 2021, nell’attivo dello stato patrimoniale, la società presenta, tra l’altro, 593.713 euro di crediti, quasi tutti crediti commerciali. Questo credito è aumentato nell’esercizio 2021 di 117.015 euro, che corrisponde quasi esattamente all’utile d’esercizio della società (119.607 euro). La società, insomma, va a gonfie vele.

Il bilancio appare comunque scarno rispetto al peso delle committenze evidenziate: quanto denaro è poi passato semplicemente «di mano in mano», come testimonia Ciraj nella sua tesi? Denaro che, lo ricordiamo, arrivava soprattutto dalle collette dei fedeli. I fondi della società Rossoroblu potevano essere usati per finanziare qualsiasi attività: per esempio – ma è solo un’ipotesi – la “Chiesa dell’uomo nuovo”, la cui costruzione a Roma ovest, secondo una nostra fonte, era già stata annunciata al clero dal vicario generale della capitale, il cardinale Angelo De Donatis.

Da notare anche che, nonostante le grandi entrate e i profitti dei mosaici, il Centro Aletti ha ben due fondazioni che chiedono contributi per finanziarne le attività, la Fondazione Agape a Roma e la Fondazione Centro Aletti, fondata in Slovenia nel 2002 da Marina Štremfelj, un’altra ex sorella della Comunità Loyola. Secondo il sito web del Centro Aletti, la fondazione slovena è stata creata con lo scopo specifico di «sostenere e incoraggiare, anche finanziariamente» le attività dell’Aletti di Roma. Non è chiaro come pensasse di farlo, visto che i bilanci mostrano entrate basse e addirittura numeri in rosso da alcuni anni.

Rupnik, se pur convocato ripetutamente, si è finora rifiutato di presentarsi al suo superiore, padre Verschueren. Il suo caso è un dossier sempre più scottante, visti i tanti elementi problematici che lo caratterizzano: gli abusi sulle ex sorelle della Comunità Loyola, le testimonianze delle vittime rese al team referente della Compagnia, la scomunica per aver assolto in confessione la donna con cui aveva avuto un rapporto sessuale, il ruolo, ancora tutto da investigare, avuto dal Centro Aletti nel coprire e avallare la condotta a dir poco spregiudicata del suo fondatore. A questo oggi si aggiungono gli ingenti guadagni realizzati negli ultimi vent’anni con i mosaci.

Davvero niente male per un sacerdote che ha fatto voto di castità, povertà e obbedienza.

Foto di Lawrence OP


Le manovre in Vaticano per chiudere il caso di Rupnik non considerano le vittime degli abusi
Di Federica Tourn

Domani, 17 marzo 2023

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Mentre a Roma tutto tace sulla sorte di Marko Rupnik, il gesuita sotto accusa per aver abusato di diverse religiose nel corso di trent’anni, qualche voce filtra dal suo paese natale.

Secondo quanto riporta in una lettera aperta un sacerdote sloveno che, con lo pseudonimo di Karel Fulgoferski aveva già commentato pubblicamente i fatti emersi sul conto del celebre artista, padre Rupnik sarà presto ridotto allo stato laicale.

Secondo quanto afferma il prete, la sorte del gesuita è già stata decisa in Vaticano, con buona pace della Compagnia di Gesù che sta ancora portando avanti un’inchiesta interna sul suo conto. «Rupnik sarà presto dimesso dallo stato clericale e fatto sparire dalla vita pubblica – conferma Fulgoferski a Domani – è stato raggiunto un accordo nella Santa Sede secondo il quale, in cambio di un ritiro pacifico del gesuita, non ci saranno né visite apostoliche né verifiche delle operazioni finanziarie del Centro Aletti». Un’ennesima prova del potere che il teologo continua a esercitare a Roma e in Slovenia, sottolinea Fulgoferski, e un altro colpo di scena nel caso Rupnik.

L’informazione è stata almeno in parte avallata da un’altra fonte interna al Vaticano, che ha confermato a Domani che c’è bufera nelle alte sfere ecclesiastiche: anche se non è certo che Rupnik debba lasciare la veste di sacerdote, sostiene la fonte, l’ordine di non toccare il gesuita arriverebbe direttamente da papa Francesco.

Un’accusa grave, che per ora è soltanto una voce, alimentata dai dubbi sul ruolo giocato dal pontefice nell’intera vicenda di Rupnik: il gesuita, infatti, era stato scomunicato latae sententiae nel 2020 per «un’assoluzione del complice in confessione» (cioè per aver assolto una novizia con cui aveva avuto un rapporto sessuale), scomunica poi prontamente rimessa dopo un mese.

Chi ha tolto la scomunica a Rupnik? Considerata la gravità del reato canonico, soltanto la Santa Sede poteva togliere la scomunica, e quindi il Prefetto del dicastero della dottrina della fede, il cardinale Luis Francisco Ladaria Ferrer, o il papa, che però non solo nega di essere intervenuto ma ha addirittura assicurato in un’intervista ad Ap di non essere stato al corrente di quel che succedeva a uno dei personaggi più influenti della curia romana, per non dire della chiesa tutta.

In Vaticano nessuno, fino ad oggi, ha ancora ritenuto di dover sciogliere gli imbarazzanti dubbi sulla gestione della scomunica a Rupnik. Nelle ultime settimane, inoltre, nessuno parla più del ruolo del pontefice e il cerino è rimasto in mano ai gesuiti che, dopo aver ascoltato le vittime del sacerdote, stanno ora cercando di capire come gestire la situazione.

Un compito non facile, visto che Rupnik non solo non si mostra collaborativo ma addirittura sfida apertamente i suoi superiori infrangendo platealmente le misure restrittive a cui è sottoposto.

Il noto artista si muove infatti liberamente per la capitale mostrando le sue opere a gruppi di fedeli e il 5 marzo ha anche concelebrato una messa nella basilica di Santa Prassede a Roma, come raccontato su Domani.

Oggi l’intenzione del pontefice, secondo queste fonti, pare quindi quella di chiudere la questione con meno clamore possibile, nella speranza che la gente si scordi dell’accaduto.

Con Rupnik fuori dalla scena pubblica e una volta calata l’attenzione mediatica, gli affari del Centro Aletti continuerebbero così a prosperare come prima.

Nella “lettera agli amici” diffusa il 28 febbraio, la direttrice del Centro Maria Campatelli è stata chiara: l’atelier è oggi guidato da un’équipe «in grado di assumere la responsabilità per un cantiere sia dal punto di vista teologico-liturgico e artistico-creativo, che dal punto di vista tecnico-amministrativo».

In via Paolina sono quindi pronti a ripartire con nuove commesse e a proseguire i lavori già in corso. «I mosaici costano molto – commenta ancora Fulgoferski nella sua lettera – L’uso dei fondi raccolti dovrebbe essere trasparente e un controllo rivelerebbe molto, anche su coloro che ne hanno beneficiato e occupano posizioni molto alte in Vaticano».

Per ora, però, non si parla né di visita apostolica, né tantomeno di commissariamento: e dire che l’atteggiamento dell’équipe del Centro non è certo limpido, visto che continua a fare quadrato intorno a Rupnik e non ha speso una parola nei confronti delle vittime.

Sono proprio loro, le vittime, le grandi assenti in queste “manovre” dietro le quinte: se si parla a molti livelli della sorte di Rupnik, infatti, non si accenna mai alle persone che hanno denunciato a più riprese (ai vescovi sloveni, al Dicastero per la dottrina della fede, ai gesuiti) gli abusi subiti. Che cosa pensa di fare la chiesa per risarcire le ex sorelle della comunità Loyola e le altre vittime sopravvissute alle violenze? Fra tutte le domande ancora senza risposta del caso Rupnik, questa rimane una delle più urgenti.

Nonostante le accuse di abusi e le restrizioni Rupnik concelebra una messa a Roma
Di Federica Tourn

Domani, 06 marzo 2023

Navata centrale

Sull’altare, vestito dei paramenti sacri, Marko Rupnik concelebra la messa nella basilica di Santa Prassede a Roma, a pochi metri da Santa Maria Maggiore. Sono le nove del mattino di domenica 5 marzo e lo stato maggiore del Centro Aletti è nelle prime file: la direttrice Maria Campatelli, Michelina Tenace, le artiste Eva Osterman e Maria Stella Secchiaroli, i gesuiti Milan Žust e Andrej Brozovic; Alberta Putti, docente di teologia dogmatica alla Pontificia Università Gregoriana dirige il coro. Dietro l’équipe siedono sacerdoti e laici che frequentano il Centro e i ragazzi e le ragazze che gravitano intorno all’atelier di teologia. A tenere l’omelia c’è il gesuita argentino Matias Yunes, anche lui cresciuto al Centro Aletti.

Rupnik concelebra in mezzo agli altri sacerdoti e impone le mani al momento dell’eucaristia, nonostante le restrizioni che gli sono state imposte dal suo superiore maggiore, padre Johan Verschueren, e che gli proibiscono, fra l’altro, «qualunque attività ministeriale e sacramentale pubblica». Marko Rupnik, teologo e artista noto in tutto il mondo, è infatti al centro di un’inchiesta avviata dai gesuiti in seguito alle accuse di abusi nei confronti di numerose donne consacrate. Le restrizioni nei suoi confronti erano già in vigore prima che lo scandalo venisse allo scoperto, lo scorso dicembre, e sono state ribadite in un comunicato ufficiale diffuso il 21 febbraio dalla Dir, la Delegazione per le case e opere interprovinciali romane della Compagnia di Gesù. Disposizioni che però non sembrano turbarlo visto che, almeno fino al 22 gennaio, addirittura predicava nella stessa Santa Prassede e, pochi giorni fa, era nella Basilica di San Giovanni in Laterano a illustrare a un gruppo in visita i mosaici da lui realizzati nella Cappella del Pontificio Seminario Maggiore.

Più volte convocato dal suo superiore, non si è nemmeno presentato per dare la sua versione sulle accuse di abuso, come lo stesso Verschueren ha dichiarato nel comunicato della Dir sul lavoro dell’équipe costituita appositamente per raccogliere le denunce delle vittime. Non solo: secondo fonti interne, Rupnik sta continuando a lavorare sotto traccia anche nel vicariato di Roma.

Il Centro Aletti, dal canto suo, fa quadrato intorno al suo méntore: il 28 febbraio ha diffuso una “lettera agli amici”, in cui sottolinea che, in attesa che la verità «si riveli», il lavoro ecclesiale e artistico del centro non si ferma. «Dopo lunghi anni di affiancamento – scrive la direttrice Maria Campatelli – l’Atelier è oggi guidato da un’équipe direzionale, in grado di assumere la responsabilità per un cantiere sia dal punto di vista teologico-liturgico e artistico-creativo, che dal punto di vista tecnico-amministrativo. Questo ci consentirà di tener fede a tutti gli impegni sin qui presi e ad assumerne altri di nuovi». Non una parola sulle donne abusate dal gesuita, nonostante l’indagine della Compagnia abbia già accertato l’attendibilità delle testimonianze ricevute – almeno 15 persone, di cui 13 donne e due uomini.

Se da un lato c’è il silenzio assoluto sulle vittime, dall’altro è chiara l’intenzione del Centro Aletti di portare avanti l’opera di Rupnik, se pur in modo “ecclesiale”. Ma è possibile scindere fra la comunità di via Paolina e il suo fondatore, quando le persone che oggi lo animano non prendono le distanze da un sacerdote che è stato scomunicato latae sententiae per aver assolto in confessione una donna con cui aveva avuto un rapporto sessuale (scomunica poi rimessa), e che è già stato oggetto di un procedimento ecclesiastico al Dicastero per la dottrina della fede proprio per abusi? Il cerchio magico intorno a Rupnik è fatto da fedelissimi (e soprattutto fedelissime) che si sono formati con il suo insegnamento e sotto la sua influenza: Maria Campatelli, Michelina Tenace, Manuela Viezzoli sono tutte ex suore della comunità Loyola che hanno seguito padre Rupnik al momento della rottura con Ivanka Hosta, nel 1994, in seguito alla fuga di una suora dalla comunità in Slovenia. Ricordiamo inoltre che proprio all’interno del Centro Aletti si sono consumati alcuni degli abusi, fra cui il rapporto a tre del gesuita con due giovani sorelle della Comunità di Loyola negli anni ’90 (come abbiamo raccontato su Domani il 18 dicembre 2022).

Ancora diverse cose devono emergere dalla storia del Centro Aletti, questa repubblica nel cuore della curia romana che pare ignorare non solo le indagini in corso dei gesuiti ma anche le parole del papa. Francesco, infatti, in un’intervista ad AP ha dichiarato di essere rimasto «ferito» da quanto emerso su Rupnik e ha aggiunto di essere sempre stato all’oscuro della vicenda. Un’affermazione che per la verità non convince, perché è difficile immaginare che il pontefice non sapesse della remissione di una scomunica che competeva solo alla Santa Sede. Molti misteri, ben custoditi, ma il futuro del Centro Aletti è tutt’altro che scontato se, come afferma una nostra fonte, un dossier di più di mille pagine è al momento depositato al Dicastero per la dottrina della fede.

Rupnik, avvicinato da Domani al termine della messa, non ha voluto rispondere.

FOTO DI LUCIANO TRONATI

I gesuiti fanno i conti con il caso Rupnik, ma non fino in fondo
Di Federica Tourn

Domani, 21 febbraio 2023

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NELLA FOTO PADRE JOHAN VERSCHUEREN
Quindici nuove testimonianze di violenze – sessuali, spirituali e di coscienza – compiute nell’arco di più di trent’anni a carico di Marko Rupnik, il noto gesuita al centro di uno scandalo dallo scorso dicembre per abusi. È quanto emerge da un comunicato della Dir, la Delegazione per le case e opere interprovinciali romane della Compagnia di Gesù, che dà conto del lavoro del team referente costituito proprio per accogliere le vittime del gesuita. l numero esatto delle persone sentite è invece esplicitato dal superiore maggiore di Rupnik, padre Johan Verschueren, su Repubblica e Associated Press, testate scelte dai gesuiti come uniche interlocutrici per i primi commenti sul report, al posto della conferenza stampa annunciata in un primo momento.

Ecco cosa sappiamo. In attesa di un ulteriore approfondimento sulla fondatezza e la gravità delle accuse, Rupnik non potrà accettare ulteriori incarichi come artista, «in modo particolare nei confronti di strutture religiose, chiese, istituzioni, oratori e cappelle, case di esercizi o spiritualità». Una restrizione che si aggiunge alla proibizione di lasciare il Lazio e ai divieti già in vigore (almeno formalmente) di officiare messa, celebrare sacramenti e parlare in pubblico.

Sulla base di queste nuove testimonianze, il cui grado di credibilità è stato definito «molto alto», padre Verschueren ha però già dichiarato che intende promuovere un procedimento interno alla Compagnia sull’operato di Rupnik. Sul profilo della giustizia civile, tutto invece sarebbe prescritto: «La natura delle denunce pervenute tende a escludere la rilevanza penale, di fronte alla autorità giudiziaria italiana, dei comportamenti di padre Rupnik», si legge infatti nella comunicazione dei gesuiti.

Ben diversa è la rilevanza da un punto di vista canonico, e qui si apre il ventaglio delle possibilità per il futuro sacerdotale di Rupnik: l’inchiesta potrebbe portare a provvedimenti disciplinari di diverso tipo, dalle limitazioni al suo ministero fino alle dimissioni dalla Compagnia. Molto dipende anche dall’atteggiamento dell’accusato e dalle sue intenzioni di ravvedimento, come sottolinea Verschueren: per ora Rupnik, se pur invitato a presentarsi, si è sempre sottratto al confronto con il suo superiore, ma ora dovrà «fornire la propria versione dei fatti».

Il caso Rupnik, che da mesi tiene sulla graticola Compagnia di Gesù, curia romana e Vaticano, è dunque a una nuova svolta o siamo di fronte all’ennesima cortina di fumo? Il comunicato dei gesuiti, al netto delle dichiarazioni di solidarietà nei confronti delle vittime e dei “mai più”, non è chiaro e omette alcuni fatti importanti. Innanzitutto non nomina né la scomunica latae sententiae (poi subito rimessa) in cui Rupnik è incorso nel 2020 per “assoluzione del complice in confessione”, né il procedimento ecclesiastico al Dicastero per la dottrina della fede per abusi su alcune suore, concluso nel 2022 con la prescrizione dei fatti.

Rupnik emerge dalla nota dei gesuiti come uno che non ha alle spalle uno “storico” di procedimenti ecclesiastici anche gravi: il Dir si limita infatti a constatare che non ci sarebbe il sospetto di «un delitto più grave contro il sacramento della penitenza» (quindi assoluzione di una persona con cui ha avuto un rapporto sessuale, per esempio) e dunque non ci sarebbero gli estremi per un trasferimento del nuovo dossier al Dicastero per la dottrina della fede. Padre Verschueren su Ap si è addirittura detto «”sollevato” dal fatto che il Dicastero non sarà coinvolto, data la sua precedente decisione di non rinunciare alla prescrizione del caso del 2021».

Lapidario il commento di Italy Church Too, il coordinamento contro gli abusi nella Chiesa nato un anno fa: «Si tratta di misure insufficienti e tardive – dice la referente, Ludovica Eugenio – i gesuiti parlano di restrizioni che si aggiungono a quelle già in vigore ma che, come sappiamo, non sono mai state osservate da Rupnik, che ha continuato fino a dicembre a muoversi e a lavorare indisturbato. Inoltre se, come pare dal comunicato, Rupnik non si è ancora pentito, perché gli è stata tolta la scomunica nel 2020? Infine: perché il papa si ostina a non togliere la prescrizione e non riapre un nuovo procedimento ecclesiastico, visto che siamo di fronte ad almeno una ventina di vittime?».

Le domande senza risposta, come si vede, restano molte, compresa l’incognita su come verranno risarcite le vittime. Così come resta da indagare la rete di complicità che ha sostenuto e continua a sostenere il gesuita, a partire da chi ha provveduto a rimettere la scomunica (il papa, in un’intervista ad Ap, ha detto di non sapere nulla) fino a chi gli ha permesso di “sorvolare” sulle restrizioni imposte dalla Compagnia.

Chiesa, il report sugli abusi di Vanier mostra che il caso Rupnik è una storia che si ripete
Di Federica Tourn

Domani, 12 febbraio 2023

jean Venier

NELLA FOTO JEAN VENIER
Mentre l’operato di Marko Rupnik è in questi giorni al vaglio della Compagnia di Gesù, arriva dalla Francia un dossier pesante su altre tre personalità carismatiche del mondo cattolico, che molto hanno in comune con il gesuita accusato di abusi su alcune suore. Jean Vanier, fondatore della comunità “L’Arche”, e i domenicani Thomas e Marie-Dominique Philippe, per decenni hanno infatti esercitato violenza su donne adulte, circuendole con teorie “mistico-erotiche” durante l’accompagnamento spirituale, proprio come Rupnik. Ritroviamo l’uso del carisma personale per ottenere favori sessuali, il controllo psicologico sulle “iniziate”, persino le modalità in cui si realizzavano gli abusi e il silenzio complice della chiesa.

Lo attestano due rapporti appena pubblicati, uno commissionato dall’Arche e l’altro dall’ordine dei domenicani, che ripercorrono un secolo di storia, dagli inizi del ‘900 (i due fratelli Philippe sono rispettivamente del 1905 e 1912) fino alla morte di Vanier nel 2019. Quello che emerge da 1600 pagine di attenta ricostruzione della vita e dei legami fra i religiosi racconta di atti sessuali vissuti come il segno di un’unione sacramentale, in cui il sacerdote e la donna vivono una prefigurazione dell’«unione carnale nella città celeste fra Gesù e la Vergine Maria». I due domenicani già negli anni Quaranta approfittavano della possibilità di muoversi liberamente nei monasteri femminili per instaurare un dominio psicologico e abusare sessualmente delle religiose, a volte con la complicità delle priore (una di queste, Cécile, fa parte della numerosa progenie dei Philippe e spinge non poche novizie nelle braccia del fratello Thomas). Nel ’47 Thomas Philippe mette addirittura incinta una donna e la aiuta ad abortire, celebrando una sorta di cerimonia mistica per il feto, «venerato come qualcosa di sacro, legato alla Santa Vergine» e poi seppellito in una foresta. Quanto a Jean Vanier, che da laico aveva raccolto l’eredità spirituale e i deliri mistici del suo mentore Thomas Philippe, avrebbe esercitato una dominazione psicologica a fini sessuali su almeno 25 donne dal 1952 al 2019.

La cosa più eclatante è che le perversioni dei due domenicani erano ben note a Roma: Thomas Philippe già nel 1956 viene condannato «per abusi gravi» dall’allora Sant’Uffizio (che è a conoscenza anche dell’episodio dell’aborto) e l’anno dopo tocca al fratello Marie-Dominique e alla sorella Cécile. Sanzionato dal tribunale vaticano, padre Thomas perde le prerogative del suo ministero: non può più dire messa, confessare e nemmeno vivere nella comunità “L’Eau vive”, che lui stesso ha fondato nel 1945. Qui entra in scena Jean Vanier, che da principio lo sostituisce a capo de “L’Eau vive” e poi nel 1964 fonda insieme a lui un’altra comunità, “L’Arche” che, secondo il report, è stata sin dall’inizio una «setta nascosta nel cuore della Chiesa». Un paravento per i loro deliri mistico-erotici, luogo privilegiato per diffondere una vera e propria cultura dell’abuso contrabbandato per esperienza spirituale privilegiata.

Grazie al silenzio e all’inerzia della chiesa, sia Thomas che Marie-Dominique continuano tutta la vita a intrattenere relazioni sessuali (consenzienti e non) con religiose e laiche, al riparo di una fama personale sempre più altisonante, riprendendo ben presto a predicare, insegnare e confessare senza che i vescovi locali o il Vaticano trovino più nulla da dire. I due domenicani arrivano a “passarsi” le vittime, come testimonia a Domani Michèle-France Pesneau, ex carmelitana: «Marie-Dominique era il mio padre spirituale quando nel ’71 vivevo in monastero – racconta – attraversavo una fase depressiva e lui ha approfittato della mia fiducia per baciarmi e toccarmi attraverso la grata del confessionale». Le molestie durano anni: il rapporto con il domenicano non si interrompe nemmeno dopo la fuga della giovane monaca dal monastero. «Vivevo in una stanza a Parigi, dove mi mantenevo facendo la donna delle pulizie. Lui veniva a trovarmi, mi diceva “andiamo a pregare da sdraiati” e capivo che voleva un rapporto orale». Penetrazione, mai: «rispetto la tua verginità, diceva», racconta oggi Pesneau. Padre Marie-Dominique le trova ben presto una sistemazione nella comunità benedettina diretta da un’altra delle sue sorelle, Winfrida, e le chiede di raccontare a suo fratello Thomas della loro «relazione speciale». «Io, pur vergognandomi, ho obbedito – dice la ex religiosa – e da quel momento ho dovuto fare le stesse cose anche con padre Thomas». Una vera impresa famigliare, quella dei Philippe.

Intanto i due domenicani e il discepolo prediletto Jean Vanier continuano indisturbati la loro ascesa personale. Nel ’75 Marie-Dominique fonda la Famille Saint-Jean, una comunità religiosa che accoglie giovani dai 18 ai 30 anni in cui predica l’“amore di amicizia”, una dottrina che mescola sapientemente sesso e spiritualità. Al momento della sua morte, nel 2006, viene celebrato come un santo, accompagnato da un’omelia piena di elogi del cardinale Philippe Barbarin (condannato in primo grado e poi assolto in appello per aver coperto il prete pedofilo Bernard Preynat quando era arcivescovo di Lione) e da un altrettanto sentito telegramma di papa Ratzinger. Nessuno dei tre religiosi è stato mai segnalato alla giustizia dello Stato.

I fratelli Philippe e Vanier non sono un caso isolato. Le testimonianze delle violenze trascritte nei report francesi sono emblematiche di una deriva che si riscontra spesso nei movimenti e nelle comunità ecclesiali, quando il leader, legittimato dal suo entourage, si sente esautorato dalle regole morali comuni fino a plagiare le vittime attraverso una lettura distorta del Vangelo. Nel leggere di come i fratelli Philippe e Vanier sfruttassero il proprio prestigio per avere rapporti orali con le monache, definiti «grazie mistiche», non si può non pensare a Rupnik, che costringeva le suore della comunità Loyola a fare sesso con lui «a immagine della Trinità». Balzano agli occhi elementi ricorrenti anche nel modus operandi del gesuita sloveno: dall’utilizzare la propria capacità di seduzione intellettuale per orientare le decisioni (e le vocazioni) delle donne che gli si affidano per la direzione spirituale, fino all’assoluzione del “complice” (o della vittima) in confessione. Non manca, poi, sul fronte dei francesi come su quello italiano, la presenza di un cerchio magico, un gruppo di “fedelissime” pronte a difendere il guru contro ogni illazione ed attacco e, in qualche caso, a condividerne il letto. Le coincidenze riguardano anche i dettagli più scabrosi, dal limitarsi ad atti sessuali che prescindano dal coito fino a bere lo sperma come pratica sacra: come Thomas Philippe, che invitava l’iniziata a «bere dal cuore di Nostro Signore», così faceva Marko Rupnik, secondo la testimonianza di una delle sue vittime pubblicata su Domani.

Persiste, soprattutto, la sensazione di impunità che pervade questi uomini di chiesa, leader di comunità ecclesiali, convinti di potere ogni cosa in quanto rappresentanti di Dio in terra. Il culto della personalità, la fama di teologi e di uomini santi protegge questi abusatori, allontanando le voci contrarie, che vengono messe a tacere o tacciate di ridicolo. Ancora una volta il clima di omertà che li circonda – il Vaticano non ha mai reso pubbliche le sentenze di condanna dei fratelli Philippe così come, quasi settanta anni dopo, si è ben guardato dal dire che Rupnik aveva subito due procedimenti ecclesiastici – ha permesso la perpetuazione delle violenze su un numero imprecisato di vittime durante più di mezzo secolo.

C’è infine la questione della separazione fra le azioni private e la vita pubblica: la commissione che ha stilato il rapporto dell’Arche si chiede fino a che punto l’ideologia mistico-sessuale di cui si sono fatti portatori i Philippe e Vanier abbia condizionato l’opera, che oggi è una federazione internazionale che si occupa di disabilità mentale e conta 160 comunità in 38 Paesi. Allo stesso modo, nel caso di Rupnik è in corso la discussione se si possa separare l’uomo dall’artista e dal teologo: se fra i gesuiti c’è chi chiede di non confondere i piani, altri invece vorrebbero già mettere mano ai mosaici e rimuovere le opere del gesuita da chiese e santuari.

Rupnik oggi e Vanier e i fratelli Philippe ieri sono esempi gemelli di un sistema che si riproduce uguale nelle comunità religiose, al riparo dell’ombrello vaticano. Lo conferma suor Véronique Margron, presidente della Conferenza dei religiosi e delle religiose di Francia, una delle più strenue promotrici della Ciase, la commissione indipendente che ha portato alla luce ben 216mila casi di abuso sessuale nella chiesa francese. «Ho parlato con una vittima di Rupnik e ho capito che affascinava e spaventava allo stesso tempo – dice la religiosa a Domani – sottrarsi alla violenza e al plagio è impossibile quando tutti intorno a te dicono che il tuo abusatore è un santo. Le istituzioni hanno una grande responsabilità, perché non giudicano la qualità evangelica di questi guru ma il loro successo fra i credenti. La Chiesa non ha esercitato il dovuto controllo su di lui e l’ha coperto a tutti i livelli, dalla Compagnia di Gesù all’autorità pontificia».

La storia, tragicamente, si ripete.

Tutti sapevano di Rupnik, in Slovenia come a Roma
Di Federica Tourn

Domani, 29 gennaio 2023

LA CHIESA DELL’ANNUNCIAZIONE A LUBIANA
Che ne è stato di padre Marko Rupnik? Complici le polemiche seguite alla morte di Ratzinger e le voci sulle possibili dimissioni di Bergoglio, la vicenda che riguarda il famoso teologo e artista al centro di uno scandalo per abusi è scomparsa dai radar, senza che siano stati risolti i tanti interrogativi che si porta dietro, dalle responsabilità di chiesa e gesuiti fino al ruolo giocato dal papa. Nuove testimonianze, però, indicano che l’atteggiamento predatorio di Rupnik non si è limitato alla Comunità Loyola, da cui sono emerse le accuse, ma ha caratterizzato anche altri periodi della sua vita; e, soprattutto, confermano che diverse autorità ecclesiastiche in Slovenia e in Italia erano da tempo a conoscenza del suo comportamento.

«Negli anni ’80, Marko Rupnik aveva nel suo studio a Gorizia un grande quadro di Gesù crocifisso pieno di sangue. A Rupnik piaceva il sangue – quanto gli piaceva, il sangue – e in questo quadro aveva ritratto un Gesù insanguinato che baciava sulla bocca la Maddalena. Colpito, commentai che mi pareva molto sensuale. Lui, infastidito, ribattè che non capivo niente della sua arte». Così un frequentatore del centro dei gesuiti “Stella Matutina” descrive Marko Rupnik, all’epoca in cui il gesuita guidava a Gorizia un progetto che mirava a unire i due popoli, italiano e sloveno, in un luogo ecumenico e internazionale. Rupnik, poco più che trentenne, predicava l’amore di Dio che si manifesta nel corpo e trasforma ogni cosa, e intanto faceva osservazioni su come si vestono le ragazze e le abbracciava durante i colloqui spirituali, con la scusa che questa modalità «agevolava l’incontro». Lo stesso succedeva pochi anni prima a Lubiana, dove Rupnik aveva dato vita al Kres, un cenacolo di persone impegnate nel cambiamento politico e culturale di quegli anni segnati dalla fine del comunismo. Anche qui, come a Gorizia, qualche coppia era scoppiata dopo l’incontro con il fervente gesuita e ora, ricordando gli anni del Kres, sono in molti a riportare alla memoria anche le molestie, le pressioni, l’uso distorto che il govane leader faceva del suo carisma.

La chiesa in Slovenia, già sofferente per problemi finanziari che nel 2022 hanno portato a una visita apostolica, si è spaccata sul caso Rupnik. I vertici della Compagnia di Gesù, così come i vescovi, hanno affermato di voler andare a fondo della questione e di essere disposti a collaborare con le istituzioni per garantire giustizia e verità alle vittime. «Siamo rimasti profondamente scioccati dalle testimonianze delle suore che hanno accusato don Rupnik di varie forme di violenza e abuso. Crediamo nella sincerità delle suore e delle altre vittime che hanno raccontato le loro sofferenze – scrivono i gesuiti sloveni in una nota diffusa lo scorso 6 gennaio – Le loro confessioni dimostrano al di là di ogni dubbio che i leader ecclesiastici competenti non hanno preso provvedimenti adeguati». Un mea culpa corredato di buone intenzioni, di cui però non si intravede l’esito. Se ci si rivolge al Dravlje, la sede dei gesuiti di Lubiana, ci si scontra infatti con la consegna del silenzio: nessuno ha il permesso di rilasciare dichiarazioni e si è subito rimbalzati al provinciale della Compagnia, padre Miran Žvanut che, però, non risponde. Così come non rispondono, interpellati da Domani, l’arcivescovo di Lubiana Stanislav Zore, il vescovo ausiliare Franc Šuštar e il presidente dei vescovi sloveni Andrej Saje.

Eppure oggi, a Lubiana come a Roma, in tanti ammettono a mezza voce che il vizio di Rupnik per le donne era risaputo da tempo. «Già dieci anni fa un membro della Compagnia mi raccontò degli abusi di Rupnik», racconta padre Anton (nome di fantasia), un gesuita sloveno che preferisce restare anonimo. Quasi nessuno parla, quindi, ma tutti sapevano; e chi non sapeva, non si stupisce. Come mai, allora, non uno, in tutti questi anni, ha provato a limitare i movimenti di Rupnik, in modo da prevenire altri possibili abusi?

«La conferenza episcopale ha dichiarato di essere venuta a conoscenza dei fatti dalla stampa ma la maggior parte dei vescovi in Slovenia sapeva tutto – denuncia don Janez Cerar – molti di loro sono figli spirituali di Rupnik, nutriti dalla sua teologia e cresciuti al Centro Aletti, di cui il gesuita è stato direttore fino al 2020: la sua influenza nella chiesa slovena è molto forte». Don Cerar è stato abusato quando era in seminario dal suo rettore, monsignor Jože Planinšek: nel 2019 l’ha denunciato alla giustizia civile ed ecclesiastica ed ha fondato “Dovolj je” (Basta), un’associazione che si occupa delle vittime clericali nella chiesa. Don Cerar è l’unico che non teme di dire apertamente quel che pensa perché la chiesa, che lo ha già punito rimuovendolo dalla sua diocesi per aver osato denunciare la violenza clericale, ora lo ignora.

«Purtroppo ho esperienza di predatori e Rupnik ha il modus operandi dei predatori sessuali», dice don Cerar. «Rupnik non ha mai sostenuto il mio impegno a favore delle vittime – aggiunge – anzi, quando ha saputo che volevo denunciare l’omertà della chiesa sui preti abusanti, ha commentato che mi credevo il messia». Janez Cerar e le altre quattro vittime (di cui due all’epoca minorenni) di monsignor Planinšek (reo confesso) non hanno avuto giustizia: il reato è ormai prescritto in sede penale e per la giustizia ecclesiastica è sufficiente che l’ex rettore tenga una messa privata al mese in favore delle vittime e si astenga per tre anni da contatti volontari con minori. «Quando sono andato in Vaticano per sapere l’esito del mio caso, il segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica José Rodríguez Carballo mi ha detto che i documenti, che io avevo consegnato a mano, non erano nemmeno in archivio», testimonia il sacerdote. Una storia che, ancora una volta, non depone a favore della trasparenza delle indagini ecclesiastiche.

«Per quanto riguarda padre Rupnik, le dichiarazioni della conferenza dei vescovi slovena sono soltanto chiacchiere – rincara padre Anton – anche il provinciale dei gesuiti dell’epoca, Lojze Bratina, sapeva. L’attuale provinciale, Miran Žvanut, vorrebbe che si riaprisse il processo ecclesiastico per gli abusi nei confronti delle suore della Comunità Loyola, ma incontra resistenze: l’intoppo è nella curia romana». Circostanza confermata anche da un altro sacerdote sloveno, che sul caso di Rupnik ha indirizzato alle autorità ecclesiastiche delle lettere di protesta firmandosi Karel Fulgoferski. «Žvanut è andato fino a Roma per invitare Rupnik a fare chiarezza – dice a Domani – ma questi lo ha minacciato di ritorsioni. Rupnik e la sua cerchia in Slovenia sono potentissimi e hanno un’influenza determinante anche nella diocesi di Roma».

Di quale “intoppo” parla padre Anton, e fino a dove arriva l’influenza di Rupnik e dei suoi? Il cardinale vicario di Roma Angelo De Donatis, fedele sostenitore dell’artista, dopo averlo difeso in consiglio episcopale, poco prima di Natale è stato costretto a diffondere una nota, in cui da un lato esprime «sgomento per le pesanti accuse» e dall’altro prudenza nel «trasformare una denuncia in reato». Un gioco di bilancino in cui però De Donatis comincia a smarcarsi, sottolineando che il sacerdote in questione ha collaborato sì «a più livelli» con la diocesi, ma non dipende in alcun modo dal cardinale vicario, che quindi non è responsabile dei suoi guai.

Papa Francesco deve averla pensata un po’ diversamente, visto che a inizio anno ha provveduto a pubblicare In ecclesiarum communione, una nuova costituzione apostolica sull’ordinamento del vicariato di Roma che entrerà in vigore il 31 gennaio, in cui il ruolo del cardinale vicario è di fatto ridimensionato dalla figura del vicegerente, che coordina tra le altre cose l’amministrazione interna della curia diocesana. A questo incarico è stato chiamato monsignor Baldassarre Reina, della diocesi di Agrigento, e tutta l’operazione suona come un commissariamento di fatto di De Donatis.

Interventi riorganizzativi a parte, Francesco in una recente intervista ad AP, ha dichiarato di non essere stato lui a cancellare la scomunica latae sentantiae, in cui il gesuita era incorso per aver assolto in confessione la donna con cui aveva avuto un rapporto sessuale.

Ma se non è stato il papa, chi è stato, visto che solo la Santa Sede poteva intervenire? Sul fronte dei gesuiti, stessa musica: nessun commento da parte di padre Johan Verschueren, consigliere generale e delegato per le Case e le Opere Interprovinciali a Roma che, interpellato da Domani, si limita a rinviare a febbraio una dichiarazione sul futuro di Rupnik. Silenzio anche dal Centro Aletti, in cui Rupnik è stato visto celebrare messa il giorno del funerale di Benedetto XVI: un silenzio generale che nasconde imbarazzi e questioni irrisolte. Ma dal silenzio all’oblio il passo è breve, e in Vaticano lo sanno benissimo.

Le «crudeli aggressioni psicologiche» di Rupnik di fronte alle resistenze
Di Federica Tourn

Domani, 23 gennaio 2023

IHS Iesus Hominum Salvator (Jesus savior of the world)

Complice l’attenzione riservata alla morte di Benedetto XVI, nella Chiesa è calato un pesante silenzio su Marko Rupnik, il gesuita vicino a papa Francesco al centro di uno scandalo per le violenze commesse su diverse suore negli anni ’90 e per una scomunica latae sententiae, poi subito revocata dalla Santa Sede. Se il Vaticano non parla, lo fanno però le vittime, continuando ad aggravare con le loro testimonianze la posizione del famoso artista e di chi lo ha protetto.

«Padre Rupnik mi disse: se non decidi per la Comunità Loyola non decidi per il Cristo. Io ero giovane, lui era la mia guida spirituale e mi fece capire che se non entravo a far parte della sua congregazione non appartenevo più a Cristo». La storia di Klara (nome di fantasia), oggi 58 anni, adescata dal gesuita quando era ancora minorenne, è la cronaca di un plagio totale, che ha coinvolto ogni aspetto della sua esistenza. Rupnik ha fatto leva sull’inesperienza e l’insicurezza dei suoi sedici anni per indurla a frequentare i ritiri spirituali con lui e poi forzarla a entrare nella Comunità Loyola. Una volta in suo potere, l’ha costretta a fare sesso «per il suo bene» e ha cercato di iniziarla ai rapporti a tre affidandola a un’altra donna affinché la “istruisse” e la preparasse per l’incontro con il “guru”.

Quando ha incontrato Rupnik?

L’ho conosciuto nel 1980, quando avevo sedici anni. Rupnik era stato ricoverato per un’infezione nella Clinica per le Malattie Infettive a Lubiana, dove io stavo svolgendo il tirocinio obbligatorio dopo il primo anno della Scuola per infermiere. Eravamo da soli nella stanza e mentre rifacevo il letto la croce che portavo al collo mi è scivolata fuori dalla camicia: mi sono spaventata, eravamo ancora negli anni del comunismo in Jugoslavia e mostrare di essere cristiani poteva essere pericoloso. Lui per tranquillizzarmi mi ha detto che era un gesuita e che aveva uno studio artistico a Roma. Quando è stato dimesso, mi ha invitato a partecipare a un gruppo di giovani che lui stesso aveva creato e che si riuniva nella sede dei Gesuiti a Dravlje, a Lubiana.

E lei?

Sono andata. Un anno dopo, poco prima di Natale, ho partecipato anche a un ritiro spirituale nel Monastero di Stična, a quaranta chilometri dalla capitale. Alla fine della giornata, mentre mi salutava, Rupnik mi ha abbracciata e baciata, giustificando quel gesto con il mio bisogno di tenerezza. Mentre continuava ad abbracciarmi e baciarmi, mi ripeteva che lo faceva solo per il mio bene.

Che impressione le faceva Rupnik in quel periodo?

Ero confusa, colpita dalle attenzioni che mi rivolgeva. Mi ero da poco trasferita dal mio villaggio di campagna in città ed ero molto insicura e influenzabile, mentre lui era già considerato un leader. Inoltre ero molto religiosa; sin da bambina sognavo di andare in missione, anche se ancora non sapevo se come suora o come laica. Il mio desiderio era di mettermi al servizio degli altri e per questo avevo studiato da infermiera. Lui ha subito captato questa mia aspirazione e l’ha indirizzata verso la Comunità Loyola in formazione. Era molto insistente, e allo stesso tempo mi parlava sempre di una ragazza italiana, sua modella nell’atelier dove dipingeva, come esempio di femminilità ed erotismo, caratteristiche che diceva di vedere anche in me.

Era convinta di entrare nella Comunità Loyola?

Tutt’altro. Qualche mese prima di entrare in comunità, nel 1986, durante l’anno di “prova”, in cui si verificava se davvero avevamo la vocazione a prendere i voti, ho ricevuto una proposta di fidanzamento da parte di un ragazzo che conoscevo. L’ho detto alla sorella responsabile della comunità slovena e subito è arrivata la convocazione da parte di padre Rupnik ad andare a Roma per parlare con lui. In quell’incontro mi ha rimproverata duramente dicendomi che ero una stupida e che stavo sbagliando tutto. «Se non prendi la decisione di scegliere la Comunità Loyola significa che non scegli Cristo nella tua vita»: queste sue parole mi hanno spaventata perché ero una persona religiosa e non volevo certo allontanarmi da Dio. Anche al momento della scelta definitiva ho avuto dubbi: si era risvegliato in me il desiderio di partire come missionaria laica ma padre Rupnik tagliò corto dicendo che la mia decisione per la Comunità Loyola non poteva e non doveva essere cambiata. Avevo 23 anni quando sono entrata in comunità nel 1987 e ho preso i voti definitivi quattro anni dopo.

Quando sono cominciati i primi approcci sessuali?

L’anno prima di entrare nella Comunità Loyola, nel 1986, abitavo a Lubiana in un appartamento in subaffitto. In quel periodo, padre Rupnik viveva nella comunità dei Gesuiti a Gorizia e a volte passava a trovarmi quando era in città. In una di queste occasioni mi ha invitata a entrare con lui nel bagno, dove ha cominciato a masturbarsi, davanti a me, sopra il lavandino; poi mi ha preso la mano in modo che continuassi io, mentre con l’altra mi spingeva la testa verso il basso. Mi diceva che lo faceva solo per il mio bene: «ne hai bisogno perché non hai ricevuto abbastanza amore e attenzione da tuo padre», diceva, e intanto mi raccomandava di non parlarne con nessuno.

Ci sono stati altri episodi?

Molti altri. Quando ha avuto la certezza che sarei entrata in comunità, ha cominciato a sfruttarmi sessualmente a suo piacimento. Durante il primo anno a Mengeš, padre Rupnik veniva per la guida spirituale e le confessioni; in quelle occasioni più volte mi disse che aveva una relazione sessuale anche con altre sorelle, menzionando ripetutamente il sesso a tre e chiedendomi se preferivo stare con una sorella e lui, oppure se desideravo essere sola con due uomini. Mi descriveva il nostro futuro rapporto a tre con ogni dovizia di particolari. Mi ricordo una volta che, dopo aver accompagnato due sorelle da Mengeš a Gorizia, si è fermato nel garage e ha cominciato a palpeggiarmi per poi masturbare sé stesso e me. Lo stesso anno mi ha scelta come aiuto nella direzione degli esercizi spirituali nel Monastero di Stična, soltanto per avermi più giorni a disposizione per fare sesso. Era il mio direttore spirituale e tutte in comunità mi ripetevano che dovevo essere umile e sottomessa: mi sentivo in trappola e non potevo parlarne con nessuno.

Durante la pasqua del 1988, mentre ero a Roma per studiare teologia, sono stata mandata da padre Rupnik a San Marco in Lamis, in Puglia, a casa di una donna che aveva frequentato per un periodo la Comunità Loyola. Rupnik mi aveva parlato a lungo di come lei lo ispirasse artisticamente quando, nel suo atelier si massaggiava i seni e si accarezzava davanti a lui. Ho capito ben presto che ero stata mandata a casa sua con lo scopo preciso di farmi istruire sul sesso a tre: lei si toccava e “giocava” con me a letto, parlandomi di come sarebbe stato con padre Rupnik e di come avremmo bevuto il suo sperma da un calice a cena. Io ero imbarazzatissima e totalmente bloccata, tanto che una sera lei ha chiamato Rupnik al telefono dicendogli che con me non c’era nulla da fare.

A quel punto che cosa è successo?

Padre Rupnik ha cambiato totalmente atteggiamento nei miei confronti e ha cominciato a trattarmi molto male: sono stata sfruttata, ignorata ed emarginata in comunità, e anche l’atteggiamento di Ivanka Hosta è cambiato radicalmente. Sono diventata una sorella di terza classe, considerata incapace di osservare l’obbedienza, di pregare e di essere umile: era il loro modo per dirmi che potevo solo servire le sorelle, guadagnare dei soldi, ma non avevo il diritto di parola. Sono stata umiliata, rimproverata e punita pubblicamente. Non sono riuscita a dire la causa della mia sofferenza e della mia confusione interiore, mi percepivo soltanto come un relitto emotivo ormai inutile.

Quando è riuscita a uscire da questa situazione?

Dopo anni di vessazioni da parte della superiora e delle sue “protette”, sono stata trasferita a Gerusalemme in una piccola sede della comunità e tre anni dopo l’ho lasciata definitivamente. Avevo 35 anni.

Ha mai più parlato con Rupnik?

Una volta, poco prima di andarmene dall’Italia, l’ho affrontato durante gli esercizi spirituali e gli ho detto che mi aveva ingannata sin dal principio e che avevo capito il suo sistema: usava tutti i suoi doni di comprensione delle fragilità di ognuna di noi a suo vantaggio per avere prestazioni sessuali, usando una logica distorta dell’amore. Al contempo, quando trovava “resistenze”, come è successo a me, iniziava a compiere crudeli aggressioni psicologiche, emotive e spirituali che, insieme all’abuso fisico, distruggevano le persone.

E lui?

Ha negato tutto: è rimasto impassibile e mi ha risposto che non sapeva di che cosa stessi parlando.


«Partì da una mano sul sedere per apprezzarne la forma»
Di Federica Tourn

Domani, 7 gennaio 2023

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«In una mostra pubblica di Marko Rupnik a Maribor, in Slovenia, era esposto anche un quadro che ritraeva una donna poco vestita, in atteggiamento che sembrava sensuale. Questa cosa mi causò un certo sconcerto: si sapeva perfino chi di noi gli aveva fatto da modella, come se fosse una cosa normale».

Roberta (nome di fantasia), 54 anni, ha fatto parte della Comunità Loyola dal 1990 al 2000. Dalla sua testimonianza emerge chiaramente la sistematicità con cui il noto artista circuiva le giovani suore attraverso il plagio e l’abuso spirituale per ottenere favori sessuali, nell’indifferenza dei suoi superiori. Così come viene ben evidenziato a quali umiliazioni venissero esposte le donne che con fatica riuscivano a respingerlo. La comunità stessa era per Rupnik un sicuro bacino di coltura delle sue prede: non a caso molte ex religiose che abbiamo intervistato ricordano le pressioni ricevute dal gesuita per farle entrare nella “sua” congregazione.

L’abuso sessuale è però soltanto un aspetto dell’attitudine manipolatoria di Rupnik, che si estende ad ogni aspetto della vita delle persone su cui esercita la sua influenza. Anche chi, come Roberta, è riuscita a sottrarsi ai suoi approcci sessuali, ha dovuto fare i conti con le conseguenze di ripetute violenze psicologiche e spirituali.

Come ha incontrato Marko Rupnik?

Studiavo storia dell’arte all’università e una compagna di studi mi aveva invitato a una mostra di questo gesuita. Ci andai e lo conobbi in quell’occasione: ero alla ricerca di un approfondimento spirituale e quei quadri mi sembrarono significativi; inoltre lui mi notò e mi coprì di complimenti. Aveva un certo carisma, mentre io ero molto insicura. Accettai il suo invito a fare gli esercizi spirituali ignaziani e in pochi mesi lui, mostrando una platonica infatuazione per me, riuscì a manipolare la mia vocazione religiosa fino al punto da costringermi a entrare nella Comunità Loyola, che non avevo mai sentito nominare. Io ero orientata piuttosto verso un ordine tradizionale, come le suore francescane e le orsoline, ma Rupnik diceva che non andavano bene per me, e che ero destinata ad altro. In una messa a Stella Matutina, che allora era la residenza dei gesuiti a Gorizia, mi fece fare un giuramento solenne davanti a Dio che sarei entrata nella Comunità Loyola, un voto che per me doveva avere valore di voto eterno indissolubile. Io subìi e accettai, e da lì sono cominciati i miei dieci anni in Comunità, dolorosi e assurdi: un sacrificio inutile, sterile, senza frutto.

Qual era l’atteggiamento di Rupnik nei confronti delle suore?

Era apertamente ambiguo: per certi sguardi che ti rivolgeva, e per gli apprezzamenti che non ti aspetteresti da un prete. Un giorno, ero ancora una novizia, mi ha messo le mani sul sedere, commentandone compiaciuto la forma. Capivo che era sbagliato, ma lui mi confondeva perché ammantava tutto di un’aura spirituale e giustificava il suo interessarsi apertamente alle forme femminili con il suo essere artista, e perdipiù un artista a servizio della gloria di Dio. Ci ripeteva sempre la retorica del valore spirituale della femminilità, che lui esaltava anche negli aspetti propriamente estetici: per esempio, ricordo una sua “lezione” sull’importanza del colore bianco nella biancheria intima femminile e il suo invito a indossare camicette bianche un po’ trasparenti che lasciassero intravvedere il reggiseno, come segno sublime di purezza e bellezza spirituale. Inoltre, sebbene per allungare le mani avesse aspettato che fossimo soli, in generale il suo atteggiamento ambiguo avveniva alla luce del sole ed era esperienza normale in comunità, come presumibilmente altrove.

Rupnik quindi non agiva di nascosto?

Aveva uno stile comunicativo seduttivo e manipolatorio che era sotto gli occhi di tutti. Ricordo anche che una volta partecipammo all’inaugurazione di una sua mostra a Maribor in cui, oltre ai grandi volti di Cristo, c’erano vari quadri a tema femminile. Uno in particolare ritraeva una donna poco vestita, in un atteggiamento che sembrava sensuale. Questa cosa mi causò un certo sconcerto, ma apparentemente passò sotto traccia in comunità: si sapeva perfino chi di noi gli aveva fatto da modella; se Ivanka ebbe qualcosa da ridire, io non l’ho mai saputo. In quel momento pensai chiaramente che qualcosa non andava, ma se tutti la consideravano una cosa normale, mi dissi che a sbagliare dovevo essere io. Questo era il contesto in cui vivevamo, in cui Rupnik poteva muoversi indisturbato. Infatti, evidentemente, per lunghi anni nessuno lo ha fermato.

Rupnik tentò approcci sessuali con lei?

Una volta. Dato che non riuscivo ad adattarmi alla comunità, ad un certo punto mi trasferirono a Roma e mi mandarono in “cura” da Rupnik. In quel periodo lui mi aveva imposto di telefonargli ogni giorno, cosa che mi metteva in grande imbarazzo, perché in quelle telefonate lui diceva che io ero molto importante per lui, ma chiaramente non era vero. Inoltre dovevo recarmi periodicamente nel suo studio al Centro Aletti, dove lui mi sottoponeva a una specie di terapia psicologica: mi mostrava delle fotografie e io dovevo dire quello che mi facevano venire in mente: lui commentava, anche in un modo che mi feriva, facendomi piangere. Dentro di me pensavo che quella era una procedura improvvisata e che non era qualificato per farlo, ma lui era considerato da tutti nel nostro ambiente un genio, un profeta e un taumaturgo, per cui tenni per me quei dubbi. Al secondo o terzo appuntamento per questa presunta terapia lui volle baciarmi sulle labbra, dicendo che quello era «il bacio di guarigione del Signore». Reagii dicendogli che non volevo più proseguire la “cura” perché non ero sicura che lui sarebbe riuscito a fermarsi.

Dopo che cosa successe?

Io non ne parlai con nessuno ma lui si indispettì e questo mio rifiuto acuì per un certo periodo la riprovazione da parte sua e della comunità, perché adesso ufficialmente, oltre che “poco spirituale”, ero anche una che non portava a termine gli impegni presi e che lasciava le cose a metà. Dopo quella volta, però, non ci provò più con me. Anche se non ho subito molestie sessuali da parte di Rupnik, ho però sperimentato gravi forme di abuso psicologico e spirituale da parte sua e della comunità, perché si sono intromessi nel mio rapporto con Dio, distorcendolo e distruggendo in me ogni fiducia. Questa è una ferita ancora aperta, perché la mia vocazione religiosa era sincera.

Sapeva che aveva abusato di alcune sue consorelle?

No, non sospettavo minimamente che la situazione fosse così grave. Anche a proposito dell’allontanamento di Rupnik dalla comunità non ricordo alcuna ricerca di chiarimento da parte di Ivanka o delle sue fedelissime. Ci avevano detto che era una questione di difesa del carisma. Giravano voci che era successo qualcosa fra “Anna” e padre Marko, ma la chiave di lettura della comunità era che ciò accadeva per una qualche sua colpa. L’unica a essere trattata con riprovazione fu “Anna”, pubblicamente bollata dalla superiora come “infedele” e per questo obbligata per punizione a fare la cuoca nella casa a Mengeš, in Slovenia, per tutta la vita. Lei era visibilmente molto sofferente: quando riuscì a scappare dalla comunità e ci si rese conto che era sparita, una delle sorelle, che in seguito è diventata una colonna del Centro Aletti, ci mandò a cercarla dappertutto, «anche sotto i letti», lasciando intendere che avremmo potuto trovarla senza vita, come se l’ipotesi del suo suicidio fosse prevedibile e quindi razionalmente accettabile. Trovai questo fatto di una crudezza inaudita. Lasciare la comunità era considerato il male assoluto, peggio della morte.

Perché lei decise di andarsene?

Dopo dieci anni in comunità ero ammalata nel corpo, annientata nella psiche e ferita nello spirito. I miei dubbi venivano bollati da Ivanka come opposizione a Dio e intorno a me avvertivo solo riprovazione e condanna. Vivevamo in un clima di terrore, in cui non veniva controllato solo quello che facevi ma anche quello che pensavi. Bastava che non avessi fatto bene il letto perché la superiora ti dicesse che la tua anima non era pulita. Ero sottoposta a un costante giudizio privo di benevolenza e ho interiorizzato il disprezzo che avvertivo nei miei confronti come il disprezzo di Dio verso di me. Alla fine sono scappata e sono tornata dalla mia famiglia; grazie alle cure di mia madre sono riuscita a riprendermi e a ricostruirmi una vita. Non era affatto una cosa scontata, perché la comunità era rigorosa e determinata nel recidere il legame con la famiglia di origine e nel mio caso lo aveva fatto con mano particolarmente pesante. Oggi sono sposata e ho un lavoro ma il percorso di recupero è stato lungo e doloroso.

Ha provato a denunciare le violenze psicologiche che ha subito?

Dopo essere tornata a casa, sono andata con mia madre dal responsabile per le congregazioni religiose della mia città per raccontare quel che succedeva nella Comunità Loyola. Con la scusa che non era di pertinenza della sua diocesi, non volle nemmeno ascoltarci.


«Le nostre denunce su Rupnik e il muro di gesuiti e Vaticano»
Di Federica Tourn

Domani, 29 dicembre 2022

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Una nuova testimonianza aggrava la posizione di Marko Rupnik, il noto teologo e artista al centro dello scandalo per abusi su diverse suore in Slovenia e a Roma. Dopo “Anna”, che ha rivelato a Domani le violenze subite dal gesuita quando era una religiosa della Comunità Loyola, Ester (nome di fantasia), oggi 60 anni, all’epoca segretaria della madre superiora Ivanka Hosta, racconta le repressioni messe in atto nella Comunità e il silenzio dei gesuiti e della Chiesa. Le stesse autorità ecclesiastiche che oggi si dicono addolorate per le vittime e che affermano di non essere state al corrente dei fatti, in realtà più volte segnalati nel corso degli anni.

Quando è entrata nella Comunità Loyola?

Sono stata fra le prime: a Lubiana nel 1984 si era costituito un gruppo di quattro sorelle da cui tre anni dopo ha avuto origine la Comunità. Nell’88 eravamo già in venti: io allora avevo 25 anni ed ho preso i voti perpetui insieme ad altre sei sorelle, fra cui la superiora Ivanka Hosta, mentre le altre hanno emesso i voti per tre anni con l’impegno di ripeterli nel ’91, in occasione dei 400 anni della nascita di Ignazio di Loyola.

Qual era il rapporto fra Marko Rupnik, Ivanka Hosta e le sorelle della comunità?

Rupnik ci diceva che Ivanka aveva il carisma ma non lo sapeva trasmettere: solo lui poteva interpretare questo suo dono e trasmetterlo a noi sorelle. In questo modo costruiva un muro tra Ivanka e le altre suore della Comunità, che non riuscivano a confidarsi con lei. Padre Rupnik le ha legate a sé e non ha permesso una relazione sincera tra Ivanka e le altre sorelle. Pian piano è diventato questo lo stile dei rapporti tra di noi.

Com’era la vita nella comunità slovena?

Io ho vissuto con grande gioia i primi cinque anni di vita in comune e pensavo che anche per le altre sorelle fosse lo stesso. Ero del tutto ignara della sofferenza nascosta e degli abusi che subivano alcune di loro. Tutto è cambiato nel 1989 quando, dopo gli studi di teologia, sono stata mandata a Roma a studiare diritto canonico e a lavorare a Radio Vaticana. Qualcosa si è incrinato dentro me. Credevo che il problema fosse la stanchezza o l’immersione in un nuovo ambiente, con altre abitudini, ma anni dopo ho capito che l’inizio del mio buio era dovuto a padre Rupnik. Già negli anni vissuti a Mengeš, in Slovenia, mi vietava di vivere l’amicizia profonda che avevo con una delle sorelle, dicendomi che era una dipendenza insana, un segno di egoismo; a Roma poi mi ordinò di tagliare del tutto i ponti con lei. Questa esperienza ha cambiato il modello delle mie relazioni: non c‘era niente di stabile nei rapporti che avevamo, non c’erano più amicizie. Non solo: padre Rupnik ci chiese di scrivere una lettera ai nostri genitori e alla nostra famiglia in cui comunicavamo che per un anno non avremmo più avuto nessun rapporto con loro: niente visite, lettere o telefonate. Io in particolare dovevo scrivere quanto fossi preoccupata per la loro salvezza, elencare i loro difetti all’origine di questa preoccupazione. La lettera mi sembrava troppo dura ma la sorella che doveva “approvarla” aggiunse anche altre cose, ancora più tremende. Ho dovuto spedire la lettera e ancora oggi porto in me il ricordo amaro del loro dolore.

Quando ha saputo degli abusi sessuali di Rupnik?

Nel ’93, quando ci sono state le prime denunce alla madre generale. “Anna” ha parlato di quello che era successo con padre Marko e prima di lei era andata da Ivanka l’altra sorella con cui Rupnik aveva avuto il rapporto a tre, a Roma. Da quel momento molte altre sono venute da me a dirmi che erano state abusate da Rupnik e io dicevo loro di rivolgersi a Ivanka, perché era la superiora. Erano anni che le vedevo piangere, già dal 1985, ma solo in quel momento ho capito il motivo, per me prima inimmaginabile.

Che cosa è successo quando “Anna” ha deciso di denunciare apertamente Rupnik alle autorità ecclesiastiche?

Rupnik è stato allontanato dalla Comunità dall’arcivescovo di Lubiana Alojzij Šuštar. Ricordo che io stessa ho avuto l’incarico di portare tutti i suoi quadri al Centro Aletti a Roma. Era furioso.

Hosta come spiegò la sua partenza?

Radunò le sorelle e disse che Rupnik era stato mandato via perché voleva impossessarsi del carisma della Comunità e farsi passare da fondatore, ma noi del Consiglio che le eravamo più vicine conoscevamo il vero motivo. Così come lo sapeva il vescovo Šuštar e padre Lojze Bratina, all’epoca provinciale sloveno dei gesuiti. A padre Bratina avevo raccontato tutto io stessa ma lui mi aveva risposto che non ci credeva.

Da quel momento che cosa è successo?

La Comunità ha cominciato a funzionare come una vera e propria setta. Ivanka, credo per paura che la notizia degli abusi di Rupnik uscisse in qualche modo e compromettesse il futuro della comunità, ha taciuto e ha assunto con noi un atteggiamento totalmente repressivo e controllante. Non si dovevano più salutare gli amici di padre Rupnik o coloro che lo frequentavano, non si poteva più liberamente scegliere il confessore e neanche dirgli tutto. Veniva pure verificato che cosa avevamo detto in confessione e le risposte date dal confessore. La guida spirituale poteva essere soltanto una sorella della Comunità: o era la superiora stessa o, con il suo permesso, un’altra sorella. Il contenuto della preghiera personale doveva essere condiviso con le altre e Ivanka si attribuiva il diritto di giudicare quando una preghiera era genuina e quando non lo era. La sorella che non pregava bene spesso doveva insistere in cappella finché non pregava come voleva Ivanka, altrimenti veniva segnalata come persona in crisi, il che era sempre considerato una colpa, una chiusura nei confronti di Dio. La libertà personale era quasi completamente azzerata. A causa di questo clima buio e minaccioso la Comunità si è dimezzata: nel giro di pochi anni siamo uscite in 19, una addirittura è scappata dalla finestra.

Ci sono state reazioni da parte dei gesuiti o della Chiesa in generale?

Nessuna. Non uno che si sia interessato, almeno ufficialmente, della separazione fra Ivanka Hosta e padre Rupnik e della successiva disgregazione della Comunità. Nel ’98 sono andata in curia dai gesuiti e ho raccontato tutto di nuovo, stavolta al delegato per le case internazionali a Roma padre Francisco J. Egaña, ma ancora una volta non è successo niente. Dopo, per anni, ho vissuto con una grande ferita senza più avere rapporti con nessuna finché, prima del lockdown, ho incontrato una ex sorella che mi ha detto che la Comunità era stata commissariata.

Che cosa ha fatto dopo essere uscita dalla Comunità Loyola?

Lavoravo già in un’università cattolica a Roma. Al momento delle mie dimissioni dalla comunità, Ivanka è andata dal mio superiore per dirgli di sostituirmi con un’altra sorella: per fortuna si è rifiutato.

È in contatto con le sorelle che attualmente vivono nella comunità?

Con qualcuna. Molte hanno seri problemi fisici e psichici a causa delle violenze psicologiche e spirituali che hanno subìto. Alcune assumono farmaci che le devastano: una l’ho rivista ad un funerale e non l’ho nemmeno riconosciuta, tanto era segnata dall’effetto delle medicine. Prima Marko e poi Ivanka sono riusciti a togliere loro quel poco di autostima che avevano.

Per appoggiare la denuncia di “Anna”, lo scorso giugno lei ha scritto una lettera sugli abusi di Rupnik indirizzata ai gesuiti e a diverse personalità della Chiesa, dal prefetto del Dicastero per la dottrina della fede Luis Ladaria al cardinale vicario di Roma Angelo De Donatis. Qualcuno le ha risposto?

Nessuno. E dire che molti di loro li conosco personalmente.

La conferenza espiscopale slovena il 21 dicembre ha detto che prova “dolore e costernazione” per gli abusi, “rimasti ignoti per tanti anni”. È così?

All’epoca tanti erano al corrente dei fatti, dal vescovo di Lubiana al provinciale dei gesuiti fino al fondatore del Centro Aletti, il teologo Tomáš Špidlík. Nemmeno oggi i vescovi sloveni possono dire che non sapevano: “Anna” ed io abbiamo spedito via pec le nostre lettere anche all’attuale arcivescovo di Lubiana Stanislav Zore, al provinciale sloveno padre Miran Žvanut e a padre Milan Žust, superiore della Residenza della Santissima Trinità al Centro Aletti di Roma, che è anche il superiore di padre Rupnik. Non credevano che saremmo andate tanto avanti nella denuncia pubblica e hanno detto mezze verità per cercare di cavarsela.

Sia i vescovi sloveni che il cardinale De Donatis ora condannano gli abusi ma invitano a distinguere fra i peccati di Rupnik e ciò che ha espresso con la sua arte. Che cosa ne pensa?

L’arte è espressione di quel che lui insegna, riflette la sua personalità. Non si può dire che l’arte e il ministero sono due cose separate, Rupnik stesso ha sempre sottolineato che sono due elementi intimamente connessi. Finché la Chiesa non capisce che l’essere abusatore di padre Rupnik è legato al suo essere artista, continuerà a minimizzare la gravità di quel che è successo.


Nuove accuse al gesuita Rupnik: si allarga lo scandalo che sta scuotendo la chiesa
Di Federica Tourn

Domani, 23 dicembre 2022

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Padre Marko Rupnik, il noto artista accusato di aver abusato di alcune suore negli anni ’90 e inchiodato dalla testimonianza di una ex religiosa (pubblicata su Domani il 18 dicembre), continua a causare lotte intestine fra i gesuiti e imbarazzo in Vaticano. Lo “tsunami Rupnik”, come l’ha definito su twitter l’ex provinciale gesuita Gianfranco Matarazzo, diventa sempre più imponente e minaccia di travolgere non soltanto la Compagnia ma la Chiesa tutta. Un’altra religiosa della Comunità Loyola ha detto alla Catholic News Agency di aver subito manipolazioni e umiliazioni spirituali da Rupnik: «era una persona egocentrica e violenta: voleva sempre essere al centro dell’attenzione e sottomettere gli altri al suo potere». «Le autorità ecclesiastiche hanno sempre coperto tutto – ha confermato la suora – ma gli abusi non si limitano certo soltanto alla Comunità Loyola».

Dopo le rivelazioni della stampa, i gesuiti sono stati però costretti ad ammettere che Rupnik aveva subìto ben due procedimenti ecclesiastici: uno da parte del Dicastero per la dottrina della fede, concluso lo scorso ottobre con la prescrizione dei fatti, e un altro nel 2020 sempre davanti allo stesso Dicastero (all’epoca Congregazione per la dottrina della fede) per “assoluzione del complice in confessione”. Un comportamento che aveva portato a una sentenza di scomunica latae sententiae, vale a dire immediata. Scomunica che, come è stato confermato dai gesuiti, era stata però revocata pochi giorni dopo dalla stessa Congregazione. Chi ha voluto cancellare le conseguenze di un reato considerato talmente grave da prevedere una condanna automatica? L’ordine è partito da papa Francesco? Difficile pensare che il pontefice non fosse a conoscenza dei fatti che coinvolgevano una persona in vista come Rupnik.

Certo è che, pur sotto indagine e nonostante le restrizioni che la Compagnia gli aveva imposto già nel 2019 (misure cautelari ancora in vigore, secondo quanto riportato dal preposito generale dei gesuiti Arturo Sosa Abascal), Rupnik non ha smesso di viaggiare, condurre esercizi spirituali ed esercitare incarichi importanti in diversi dicasteri vaticani. Fino al 2020 era direttore del Centro Aletti e in agenda aveva anche la direzione degli esercizi spirituali al Santuario della Santa Casa di Loreto per il febbraio 2023. Insomma, molti nella Chiesa erano a conoscenza dei suoi “problemi comportamentali” ma Rupnik, nonostante le denunce e le indagini interne, ha continuato a esercitare il suo ministero e a ottenere apprezzamenti come niente fosse. A fine novembre 2022 ha ricevuto anche una laurea honoris causa dalla Pontificia università cattolica del Paranà, in Brasile, e ad oggi risulta ancora consultore del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione.

Intanto qualcosa, almeno apparentemente, si muove. Sul sito della curia generalizia della Compagnia di Gesù è comparso il 18 dicembre un appello in cui si invita chiunque voglia denunciare nuovi fatti a rivolgersi direttamente ai gesuiti tramite una mail apposita. Lo stesso ha fatto pochi giorni dopo la conferenza episcopale slovena, che il 22 dicembre ha espresso «grande dolore e costernazione» e «vicinanza alle vittime». Una dichiarazione sottoscritta anche dal presidente dei vescovi sloveni, monsignor Andrej Saje, e dall’arcivescovo di Lubiana Stanislav Zore, che hanno auspicato maggiore trasparenza e tolleranza zero nei confronti di ogni abuso, fisico, sessuale, psichico e spirituale. Una parte dell’attuale chiesa slovena, cresciuta alla scuola di Rupnik e del Centro Aletti, è oggi infatti alle prese con un travaglio interno particolarmente acuto a causa dello scandalo. I vescovi sloveni si sono detti dalla parte delle vittime, «rattristati perché per decenni non sono state ascoltate», e hanno promesso di fare «del loro meglio per seguire con maggiore attenzione ciò che accade nelle comunità ecclesiali, affinché in futuro non avvengano più abusi di autorità da parte di chi ha incarichi di responsabilità».

Da parte sua, il vescovo ausiliare di Roma Daniele Libanori, commissario incaricato della comunità Loyola dove sono avvenuti gli abusi, ha confermato in una lettera ai sacerdoti che «le notizie riportate dai giornali corrispondono al vero». «Le persone ferite e offese, che hanno visto la loro vita rovinata dal male patito e dal silenzio complice – scrive Libanori – hanno diritto di essere risarcite anche pubblicamente nella loro dignità, ora che tutto è venuto alla luce». Se sul “caso Rupnik” sia davvero emerso tutto, è però ancora da vedere.

Foto di Žiga : la cattedrale di Lubiana



I baci nel nome dell’eucarestia e il sesso a tre per imitare la Trinità, parla la suora vittima di Rupnik
Di Federica Tourn

Domani, 18 dicembre 2022

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«La prima volta mi ha baciato sulla bocca dicendomi che così baciava l’altare dove celebrava l’eucaristia, perché con me poteva vivere il sesso come espressione dell’amore di Dio». Questo è l’inizio della particolareggiata testimonianza della violenza sessuale, psicologica e spirituale che Anna (nome di fantasia), una ex religiosa italiana della Comunità Loyola, ha subito per nove anni da parte del gesuita Marko Rupnik, non soltanto in Slovenia ma anche in Italia. Rupnik, teologo e artista noto in tutto il mondo, è oggi al centro di uno scandalo per l’accusa di abusi nei confronti di alcune suore, come abbiamo raccontato nei giorni scorsi su Domani. Anna, arrivata quasi al suicidio a causa delle sofferenze causate dal delirio di onnipotenza e dall’ossessione sessuale del gesuita, ha denunciato più volte il suo abusatore nel corso degli anni ma la Chiesa ha sempre coperto tutto.

Quando ha conosciuto Marko Rupnik?

Nel 1985, quando avevo 21 anni e frequentavo la facoltà di Medicina. Pensavo di partire missionaria dopo la laurea e sentivo il bisogno di una crescita nella fede. Ero anche appassionata di arte e una suora che conoscevo mi presentò questo pittore gesuita che aveva un piccolo atelier in piazza del Gesù a Roma. Rupnik aveva dieci anni più di me ed era al primo anno di sacerdozio; con lui mi sentivo a mio agio ed è diventato subito la mia guida spirituale».

Che tipo di persona era?

All’epoca, negli anni ’80, per i giovani gesuiti sloveni era già una star. Aveva un forte carisma personale nello spiegare il Vangelo e una spiccata sensibilità nell’individuare i punti deboli delle persone: non a caso, ha immediatamente capito le mie fragilità, le insicurezze e le paure che avevo».

Come è iniziato il vostro rapporto?

Ho cominciato a frequentare il suo atelier perché ero affascinata dalla pittura e in particolare dai colori di Chagall. Mi sentivo importante per lui: mi piacevano i suoi quadri e molto spesso parlavamo mentre dipingeva. Poi cominciò a sottolineare ogni contatto tra noi, dicendomi che ogni gesto aveva un significato preciso: anche una semplice stretta di mano o una carezza sul braccio diventavano un’occasione per sottolineare la mia femminilità. Non potevo certo immaginare che quella fosse già una strategia per arrivare ad avere ben altro tipo di rapporti fisici con me, come non potevo capire che quell’abbraccio dopo ogni confessione era un invito ad andare oltre. Allo stesso modo non potevo immaginare che allora, quando mi spiegava che i corpi disegnati sulle tavole del Kamasutra sono una forma d’arte, era già un assiduo frequentatore di cinema porno.

Non trovava niente di anomalo nel suo modo di fare?

A volte mi sembrava strano, ma me lo spiegavo con il suo essere artista. Voleva che gli facessi da modella e una volta mi ha chiesto di posare per un suo quadro perché doveva disegnare la clavicola di Gesù e non cercava delle ragazze “del mondo”, che esprimevano a suo dire solo sessualità, ma una persona in ricerca come me. Non è stato difficile accettare e sbottonare qualche bottone della camicetta. Per me, che ero ingenua e inesperta, significava soltanto aiutare un amico. In quell’occasione mi ha baciata lievemente sulla bocca dicendomi che così baciava l’altare dove celebrava l’eucarestia. Ero frastornata: da una parte sarei voluta scappare, dall’altra padre Marko mi incoraggiava dicendomi che potevo vivere quella realtà perché ero speciale ed era un dono che il Signore faceva solo a noi; che solo con me poteva vivere, anche nel fisico, l’appartenenza a Dio senza possesso, nella libertà, a immagine dell’amore trinitario.

E lei gli ha creduto?

Bisogna capire come funziona il discernimento ignaziano: sei chiamato a una totale disponibilità e apertura ed è il tuo padre spirituale a guidarti nella comprensione di cosa è bene e cosa è male. Se chi ti guida dice che Dio lo vuole e tu non obbedisci, ti metti contro Dio. È proprio lì che si può insinuare la manipolazione, come è successo con padre Rupnik. Io avevo paura di sbagliare, paura di perdere la sua approvazione, mi sentivo fortemente dipendente dal suo giudizio. Se non facevo come voleva lui, subito diceva che il mio cammino spirituale si arenava e mi presentava come “sbagliata” agli altri ragazzi e ragazze del gruppo che nel frattempo si andava formando intorno a lui. Soltanto padre Marko decideva chi andava bene e valeva la pena di essere supportato; chi invece era nell’errore veniva umiliato e messo in disparte.

Quando ha deciso di affidarsi totalmente alla guida spirituale di Rupnik?

Nell’estate del 1986, prima che lui partisse per un viaggio, ci siamo visti nel suo atelier. Abbiamo celebrato insieme l’eucarestia e poi lui si aspettava che mi spogliassi e mi lasciassi toccare come sempre. Quella volta però mi sono rifiutata e lui mi ha aggredita con parole molto dure e cattive, dicendo che non valevo niente, che non avrei mai fatto niente di buono; ha aggiunto che per lui ormai contavano solo altre due donne, di cui mi ha fatto il nome, e che voleva chiudere ogni rapporto con me. Io ero disperata perché ormai dipendevo totalmente dalla sua approvazione. Non era amore, solo paura di sbagliare. Da quella volta ho deciso di mettere da parte i miei dubbi e di affidarmi totalmente a lui. Ho creduto che quello che vivevamo insieme avrebbe fatto di me una persona migliore davanti a Dio; invece è stato solo l’inizio dello stravolgimento della mia identità e della perdita di me stessa.

Si è trattato quindi di un plagio?

È stato un vero e proprio abuso di coscienza. La sua ossessione sessuale non era estemporanea ma profondamente connessa alla sua concezione dell’arte e al suo pensiero teologico. Padre Marko all’inizio si è lentamente e dolcemente infiltrato nel mio mondo psicologico e spirituale facendo leva sulle mie incertezze e fragilità e usando al contempo il mio rapporto con Dio per spingermi a fare esperienze sessuali con lui. Così, il sentirmi amata come la Sapienza che gioca davanti a Dio, come è scritto nel libro dei Proverbi, si è trasformato nella richiesta di giochi erotici sempre più spinti nel suo atelier al Collegio del Gesù a Roma, mentre dipingeva o dopo la celebrazione dell’eucaristia o la confessione.

Come è entrata nella Comunità Loyola?

Sono stata fra le prime sorelle della Comunità Loyola di Mengeš, una località a quindici chilometri da Lubiana, e ne ho fatto parte dal 1° ottobre del 1987 al 31 marzo 1994. In un periodo così delicato e fragile come è quello in cui si sceglie quale strada prendere nella vita, padre Marko ha preteso da me una disponibilità e un’obbedienza assolute, caratteristiche che erano anche un tratto distintivo del carisma della Comunità, di cui lui era il garante davanti alla Chiesa su incarico dell’allora arcivescovo di Lubiana Alojzij Šuštar. Padre Marko mi ha chiesto quindi di lasciare medicina e di partire per la Slovenia con la superiora, Ivanka Hosta, e altre sei sorelle. Isolata dalla mia famiglia e dai miei amici, è stato facile per Marko manipolarmi a suo piacimento.

Che cosa è successo in Comunità?

Il primo gennaio 1988 ho professato nella cappella di Mengeš i primi voti religiosi davanti a monsignor Šuštar, voti che ho poi ripetuto nel 1991 nelle mani dello stesso arcivescovo. Gli abusi di padre Marko sono continuati e avvenivano in auto quando lo accompagnavo durante i suoi viaggi. È diventato più aggressivo: mi ricordo una masturbazione molto violenta che non sono riuscita a fermare e durante la quale ho perso la verginità, episodio che ha dato inizio a pressanti richieste di rapporti orali. La dinamica era sempre la stessa: se avevo dubbi o mi rifiutavo, Rupnik mi screditava davanti alla Comunità dicendo che non stavo crescendo spiritualmente. Non aveva freni, usava ogni mezzo per raggiungere il suo obiettivo, anche confidenze sentite in confessione. Lì è cominciato il mio crollo psichico.

Le violenze sono avvenute soltanto in Slovenia?

No, anche nella sua stanza del Centro Aletti a Roma. Qui padre Marko mi ha chiesto di avere rapporti a tre con un’altra sorella della Comunità, perché la sessualità doveva essere secondo lui libera dal possesso, ad immagine della Trinità dove, diceva, «il terzo raccoglieva il rapporto tra i due». In quei contesti mi chiedeva di vivere la mia femminilità in modo aggressivo e dominante e dato che non ci riuscivo mi umiliava profondamente con frasi che non posso ripetere. L’ultimo gradino di questa discesa all’inferno è stato il passare dalle giustificazioni teologiche del sesso ad un rapporto esclusivamente pornografico. Nel 1992, mentre frequentavo il quarto anno di filosofia alla Gregoriana, mi ha anche portato due volte a vedere dei film porno a Roma in via Tuscolana e nei pressi della stazione Termini. Ormai stavo malissimo.

Rupnik abusava soltanto di lei o anche di altre donne?

In quel periodo padre Marko aveva cominciato apertamente a plagiare altre sorelle della Comunità, con le solite strategie psico-spirituali che già aveva usato con me, con l’obiettivo di fare sesso con quante più donne possibile. All’inizio degli anni ’90 eravamo 41 sorelle e padre Rupnik da quel che so è riuscito ad abusare di quasi venti. A volte a caro prezzo: una di loro, nel tentativo di opporsi, è caduta e si è rotta il braccio. Lui era sfacciato e parlava apertamente delle sue tattiche per “ammorbidire” quelle che gli resistevano. Ho provato a fermarlo ma era inarrestabile nel suo delirio. L’ho anche minacciato di denuncia ma mi ha risposto: «chi vuoi che ti creda? È la tua parola contro la mia: se parli, ti faccio passare per matta».

Lei cosa ha fatto?

A quel punto volevo soltanto che tutto finisse. Sono scappata dalla Comunità per lasciarmi morire nei boschi: speravo che quel gesto estremo avrebbe ricondotto padre Marko alla ragione.

Per fortuna, invece, è sopravvissuta. Lui come ha reagito?

L’ho affrontato accusandolo di falsità ma la sua unica reazione è stata il silenzio. Volevo anche parlare con la mia superiora Ivanka Hosta di quel che era successo ma in quel momento non ne ho avuto la forza e ho cercato invece di concentrarmi sulla tesi in filosofia, che ho discusso a giugno del 1993. Nel frattempo, però, un’altra sorella si è rivolta a Hosta per raccontarle del devastante rapporto che padre Rupnik intratteneva sia con lei che con me.

Che cosa è successo a quel punto?

Padre Marko è stato provvisoriamente allontanato dalla Comunità per il periodo estivo. Ho chiesto allora di poter incontrare il consigliere spirituale di padre Rupnik, padre Tomáš Špidlík (poi creato cardinale diacono nel 2003 da Wojtyła, ndr), con la speranza di poter finalmente riuscire a dire a qualcuno quello che era successo in tutti quegli anni. L’ho raggiunto al santuario vicino a Livorno dove risiedeva durante l’estate e gli ho chiesto di confessarmi. Ho cominciato quindi a parlargli degli abusi e lui mi ha bloccata dicendo che quelle erano cose mie e che non voleva ascoltarmi. Ero sconvolta, per un sacerdote rifiutare una confessione è un peccato grave. Non solo: mi ha consigliato di scrivere una lettera di dimissioni, lettera che ha poi scritto lui stesso e che conservo ancora, nella quale specificava che non c’erano motivi precisi per la mia richiesta di dispensa dai voti, soltanto una generica “tensione” che non ero più in grado di reggere. A quel punto ho capito che era d’accordo con padre Rupnik e che non voleva essere coinvolto nello scandalo insieme al centro Aletti, di cui era ideatore e primo referente.

È stata aiutata da qualcuno in quel frangente?

Nessuno mi ha aiutata: né la superiora Ivanka Hosta, a cui alla fine mi ero rivolta, né le altre sorelle della Comunità. Nemmeno i gesuiti superiori di Rupnik e l’arcivescovo Šuštar. Padre Marko era protetto da tutti e io non ero altro che il capro espiatorio di una situazione imbarazzante, l’anello debole della catena che si poteva sacrificare per un bene “superiore”. Nel settembre del 1993 sono quindi rientrata a Mengeš con Ivanka come consigliera provvisoria, in attesa delle elezioni interne, previste per la Pasqua dell’anno successivo. Il clima di ostilità nei miei confronti era palpabile ma ricordo che una sorella, di cui ancora non sapevo nulla, è venuta in lacrime a confidarmi che padre Marko aveva abusato anche di lei: nessuna però osava parlare apertamente e vivevamo in un clima di omertà. Prima di Pasqua fu organizzato un incontro fra padre Marko, Ivanka Hosta e l’arcivescovo per affrontare finalmente la questione: avrei dovuto partecipare anche io ma all’ultimo momento la superiora me lo impedì. Io scrissi una lettera di denuncia che lei avrebbe dovuto consegnare all’arcivescovo ma non so neppure se monsignor Šuštar l’abbia mai ricevuta. Hosta comunque non disse nulla contro Rupnik, l’altra sorella abusata rifiutò di scrivere una testimonianza e finì tutto in un nulla di fatto. Quel che è certo è che proprio in quel periodo le costituzioni della Comunità erano in Vaticano pronte per l’approvazione.

Rupnik non è stato sanzionato in nessun modo?

È stato allontanato dalla Comunità ed è tornato a Roma e da allora ha continuato tranquillamente la sua carriera.

E lei?

Ivanka mi aveva destinata a lavorare in cucina a Mengeš per il resto della mia vita, senza nessuna prospettiva di cambiamento. Ho obbedito, anche se in cuor mio pensavo che sarei morta. Poco tempo dopo, alla vigilia delle elezioni interne, durante la condivisione comunitaria ho provato ancora a denunciare il malessere profondo che era alla base delle nostre relazioni ma la superiora mi ha estromessa dalle votazioni dicendo che ero pericolosa perché sotto l’influenza del diavolo. Il giorno seguente ho lasciato definitivamente la Comunità.

Dopo che cosa è accaduto?

Anni dopo Hosta mi ha scritto chiedendo perdono a me e alla mia famiglia, a cui era stato detto che ero schizofrenica. Dopo le dimissioni ho sofferto a lungo di depressione e anche in seguito non sono riuscita ad avere una relazione affettiva e a costruirmi una famiglia. L’abuso che ho subito ha sconvolto profondamente la mia psiche e lasciato segni indelebili nello spirito e nel corpo, che mi hanno impedito di fare scelte significative.

Arriviamo ad oggi. Da quando il caso è uscito sui giornali, i gesuiti si sono espressi in modo reticente e contraddittorio. In particolare il delegato della Compagnia di Gesù a Roma padre Johan Verschueren ha detto che Rupnik non è accusato di abusi sessuali ma di “comportamenti trasgressivi” durante la confessione. È possibile che i gesuiti non sapessero delle accuse?

No, non è possibile. La Chiesa e l’ordine dei gesuiti erano a conoscenza dei fatti sin dal 1994, quando ho portato personalmente la mia richiesta di dispensa dei voti all’arcivescovo di Lubiana, nella quale denunciavo gli abusi da parte di padre Rupnik. L’arcivescovo in quell’occasione mi disse soltanto che la Compagnia di Gesù lo aveva sanzionato severamente, cosa poco credibile visto che in quegli anni nasceva e si consolidava l’operato del Centro Aletti. Non solo: anche un’altra sorella, uscita dalla Comunità Loyola nel 1996, non direttamente coinvolta nella relazione con padre Marko ma informata dei fatti, parlò nel 1998 con padre Francisco J. Egaña, all’epoca delegato per le case internazionali della Compagnia di Gesù a Roma, che la ascoltò ma non fece nulla.

Il preposito della Compagnia di Gesù, padre Arturo Sosa Abascal, ha confermato che Rupnik è stato scomunicato, in seguito a una denuncia del 2019, per aver assolto in confessione una donna con cui aveva avuto un rapporto sessuale. Che effetto le fa questa ammissione?

Mi addolora profondamente, perché conferma la convinzione che ho sempre avuto, e cioè che padre Marko ha continuato ad abusare delle donne che ha incontrato durante tutto questo tempo. Andava fermato trent’anni fa. Sono sconcertata per il fatto che Rupnik ancora non avverta la responsabilità delle conseguenze che le sue azioni hanno avuto sulla mia vita e su quella di tante altre consorelle che potrebbero parlare.

Nonostante questo, il Dicastero per la Dottrina della fede ha chiuso ad ottobre 2022 un’indagine ecclesiastica su Rupnik perché ha ritenuto che i fatti erano da considerarsi prescritti. Lei è stata ascoltata in questa occasione?

Sì, ho testimoniato il 10 dicembre 2021 e ho raccontato tutto quello che ho subìto nei minimi dettagli.

Dopo la sua testimonianza al Dicastero, che cosa è successo?

Dato che per mesi non ho più saputo nulla dell’esito dell’indagine ecclesiastica, lo scorso giugno ho scritto una lettera aperta in cui ho ripetuto la mia denuncia contro padre Rupnik, indirizzata al generale dei gesuiti padre Sosa. In copia c’erano, tra gli altri, il cardinale Luis Ladaria, prefetto del Dicastero per la dottrina della fede, il cardinale vicario di Roma Angelo De Donatis, padre Johan Verschueren, padre Hans Zollner, la direttrice del Centro Aletti Maria Campatelli e altri membri della Compagnia di Gesù e del Centro Aletti. Non ho avuto risposta da nessuno di loro.

Pensa di chiedere un risarcimento in sede civile per i danni morali e materiali?

Sto valutando con il mio avvocato questa possibilità.
view post Posted: 30/4/2024, 07:36 Una chiesa a Capodistria per il gesuita stupratore protetto da papa Francesco: prima scomunicato e poi perdonato - La stanza del peccato
https://www.marcotosatti.com/2024/04/29/gl...amian-thompson/

Gli Scandali che Aleggiano sul Pontificato di Francesco, e il Conclave Prossimo Venturo, Damian Thompson.
29 Aprile 2024 Pubblicato da Marco Tosatti 6 Commenti



Marco Tosatti
Cari amici e nemici di Stilum Curiae, offriamo alla vostra attenzione su segnalazione di un’amica fedele del nostro sito, A.R., questo interessante articolo di Damian Thompson, apparso su UnHerd, che ringraziamo per la cortesia. Damian Thompson cita alcuni dei casi più recenti di scandali “coperti” dal pontefice regnante, ma dimentica un primo caso eclatante, pubblicato da Stilum Curiae, che riguardava il cardinale arcivescovo britannico Murphy O’Connor, uno dei grandi elettori di Bergoglio, e il cardinale Mueller, di cui il papa interruppe (!) la celebrazione di una messa per intimargli di lasciar cadere l’inchiesta sul suo amico. Buona lettura e condivisione.

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I cardinali si stanno già incontrando per discutere su chi dovrà essere il prossimo papa. Alcuni dei liberali, che si sentono al sicuro perché sono favorevoli al malato Papa Francesco, possono essere visti confrontarsi in un bar vicino alle porte del Vaticano. I cardinali conservatori sono più nervosi: si riuniscono a cena negli appartamenti degli altri o – se possono fidarsi che camerieri servili non li tradiscano – in un ristorante preferito.

Forse puoi vedere il lampo dell’anello di un vescovo mentre inserisce un pettegolezzo in WhatsApp; la Santa Sede impiega spie elettroniche di livello mondiale, quindi tutti usano un telefono privato anziché quello fornito dal Vaticano. Anche gli intercettatori telefonici sono impegnati a scambiarsi informazioni, perché come tutti a Roma sospettano che il dolorosamente fragile Francesco – che spesso ha il fiato troppo corto per leggere i propri sermoni – non abbia molto tempo da vivere.


Stanno solo provando a indovinare, ovviamente. Il Papa è riservato riguardo alla sua salute e due anni fa si è ripreso da un importante intervento chirurgico al colon che si pensava fosse un cancro in stadio avanzato. Anche così, ha 87 anni, è il papa più anziano da più di un secolo, e il conclave non può essere troppo lontano.

Ludwig Ring-Eifel dell’agenzia di stampa tedesca KNA ha detto a gennaio che vedere il Papa così senza fiato in una conferenza stampa in cui era troppo malato per rispondere alle domande preparate è stato “un momento difficile per me… e si può dire che questa situazione ha colpito anche emotivamente molti colleghi”. All’inizio di marzo, Andrew Napolitano, un giudice in pensione della Corte Superiore del New Jersey, soggiornava nella pensione papale dietro San Pietro. “Il Papa è in cattive condizioni di salute, riesce a malapena a parlare o camminare; e irradia tristezza”, ha riferito. “Non credo che resterà lì ancora per molto.”

I nervi vaticani sono sempre tesi negli ultimi anni di pontificato. Nel caso del conservatore Benedetto XVI, questi sono state oscurati da fughe di notizie – allegramente riportate da media ostili – che rivelavano una vistosa corruzione ai vertici della Curia Romana, il governo della Santa Sede. Benedetto era troppo spaventato per agire e si dimise disperato.

Ora il Vaticano è ancora una volta paralizzato dagli scandali, ma questa volta i corrispondenti che lavorano per testate laiche e cattoliche stanno cercando di proteggere Francesco, che deve affrontare domande più serie sulla sua condotta personale di qualsiasi altro papa a memoria d’uomo.

Per anni, le accuse che avrebbero silurato la carriera di qualsiasi leader laico occidentale sono state nascoste o minimizzate da una guardia pretoriana di giornalisti liberali che, nel 2013, hanno scommesso la loro reputazione sul “Grande Riformatore”. Di conseguenza, anche i cattolici devoti non sanno che il primo papa gesuita ha cercato di proteggere dalla giustizia diversi ripugnanti autori di abusi sessuali, per ragioni mai spiegate in modo soddisfacente.

Solo ora la verità viene fuori, con sollievo del personale vaticano che deve avere a che fare con un papa che somiglia poco alla figura spiritosa e avuncolare che vedono in televisione. Sono – o erano fino a poco tempo fa – terrorizzati da un capo il cui governo autocratico è modellato più dalla sua rabbia e dai suoi risentimenti latenti che da qualsiasi programma teologico. E non possono nascondere la loro soddisfazione per il fatto che uno scandalo particolarmente raccapricciante che coinvolge l’alleato papale padre Marko Rupnik stia smantellando la facciata del “pontificato di Squid Games”, come viene soprannominato, dopo la serie Netflix sudcoreana in cui i concorrenti devono vincere giochi per bambini per salvarsi dall’esecuzione.

Il caso Rupnik è lo scandalo più disgustoso che abbia mai incontrato in oltre 30 anni di reportage sulla Chiesa cattolica. Rupnik, un artista estremamente ben collegato per i cui mosaici di cattivo gusto la Chiesa ha speso centinaia di migliaia di sterline, è stato espulso dall’ordine dei gesuiti l’anno scorso dopo essere stato accusato in modo credibile di aver violentato suore religiose appartenenti a una comunità da lui fondata nella sua nativa Slovenia. Le donne si sono fatte avanti sostenendo che la comunità era un culto sessuale. Dicono che abbia cercato di costringerle a guardare film pornografici, a bere il suo sperma da un calice, a violentare la verginità di una sorella in macchina e a incoraggiare le giovani donne a impegnarsi in rapporti a tre sessuali che, secondo Rupnik, illustrerebbero il funzionamento di la Santa Trinità.

L’anno scorso, di fronte a un’esplosione di rabbia sui social media cattolici – i media mainstream erano stranamente silenziosi – Papa Francesco ha detto che avrebbe agito contro il suo amico Rupnik. Non lo ha fatto. Né ha spiegato perché, quando Rupnik stava rischiando la scomunica per aver abusato del confessionale per “assolvere” una delle sue vittime sessuali di sesso femminile, fu invitato a condurre un ritiro in Vaticano, o perché la sua successiva scomunica fu misteriosamente revocata nel giro di poche settimane con l’approvazione del Papa.

Questo mese padre Rupnik è stato inserito nell’elenco vaticano del 2024 come consulente sul culto divino, tra tutte le cose. Nel frattempo mons. Daniele Libanori, il gesuita che ha indagato sulle affermazioni delle donne e le ha trovate credibili, è stato rimosso dal suo incarico di vescovo ausiliare della diocesi di Roma.

Un altro scandalo tossico è ancora in corso in Argentina. Nel 2016, il vescovo Gustavo Zanchetta, il protetto più viziato dell’ex cardinale Bergoglio, ha dovuto dimettersi dalla diocesi di Orán dopo essere stato accusato di corruzione finanziaria e tentativi aggressivi di sedurre i seminaristi. La risposta del Papa? Trasporta Zanchetta in aereo a Roma e gli inventa un lavoro: “’assessore” dei fondi gestiti dall’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA), la tesoreria vaticana. Zanchetta fu poi condannato per aggressione ai seminaristi, anche se Roma si rifiutò di fornire i documenti richiesti dal tribunale argentino. Sta scontando la sua pena detentiva in una casa di ritiro e ci sono notizie secondo cui i suoi accusatori vengono molestati.

La storia sta tornando a perseguitare Francesco, i cui nemici – incoraggiati dall’allentamento della presa sul governo della Santa Sede – stanno facendo circolare documenti estremamente dannosi. Ciò suggerisce che il Papa è ancora più coinvolto nello scandalo di quanto si sospettasse in precedenza. E ci sono altri casi: da arcivescovo di Buenos Aires, Francesco ha tentato senza successo di far uscire di prigione il molestatore di bambini, don Julio Grassi, commissionando un rapporto che bollava le sue vittime come bugiarde.

Gli oscuri segreti di questo pontificato peseranno pesantemente sulle menti dei cardinali nelle discussioni pre-conclave prima di esprimere il loro voto nella Cappella Sistina. Parleranno in codice: nessuno vuole correre il rischio di distruggere apertamente la reputazione di un Sommo Pontefice recentemente scomparso (o in pensione). Ma i cardinali saranno costretti a parlare delle divisioni sempre più velenose tra cattolici liberali e conservatori, che risalgono al Concilio Vaticano II ma sono state ulteriormente aggravate sotto questo pontificato. E troveranno difficile tracciare un confine tra le politiche di Francesco e la sua personalità, dal momento che prova un piacere così visibile nell’usare i suoi poteri per riservare sorprese alla Chiesa universale.

***

Quando Francesco entrò in carica per la prima volta, la maggior parte dei cardinali condivise l’entusiasmo popolare per il suo stile informale: la sua preferenza per essere conosciuto come semplice “vescovo di Roma” e il suo abbandono di alcuni degli simboli più comici del suo ufficio, come le scarpe rosse. Ma scoprirono presto che questo papa “informale”, a differenza dei suoi predecessori, amava governare attraverso un decreto esecutivo.

Francesco ha emesso un torrente di sentenze papali note come motu proprio (letteralmente, “di propria iniziativa”) – più di 60 finora, sei volte più frequentemente di Giovanni Paolo II. Hanno apportato enormi cambiamenti alla liturgia, alla finanza, al governo e al diritto canonico. Spesso atterrano senza preavviso e possono essere brutali: il Papa ha utilizzato questo meccanismo per prendere il controllo dell’Ordine di Malta, ad esempio, e per togliere i privilegi all’organizzazione segreta ma ultra fedele dell’Opus Dei.

Due sentenze su tutte hanno traumatizzato i cattolici conservatori per i quali Francesco nutre un’avversione patologica, perdendo raramente occasione per sottolinearne la “rigidità” o per irridere i loro paramenti tradizionali, decorati con quello che lui chiama “merletto della nonna”.

La prima è la sua decisione, emessa via motu proprio, di sopprimere la celebrazione della messa in latino pre-1970 che Benedetto aveva accuratamente reintegrato nel culto della Chiesa. Nel 2021, con una decisione che sapeva avrebbe causato un terribile dolore al suo predecessore in pensione, Francesco ne ha di fatto vietato la celebrazione nelle parrocchie ordinarie.

Solo una piccola percentuale degli 1,3 miliardi di cattolici nel mondo partecipa alle messe di rito antico, quindi perché il divieto si è trasformato in un grosso problema? In parte è un riflesso del rigore cromwelliano con cui è stato applicato dal nuovo capo della liturgia di Francesco, il cardinale Arthur Roche, il più potente religioso inglese a Roma. Originario di Batley con i modi di un presuntuoso consigliere comunale dello Yorkshire, Roche si è evoluto in quella familiare bestia romana: un liberale autoritario con un naso per il più succoso Saltimbocca alla Romana e il più soffice tiramisù. Quest’anno ha costretto il suo vecchio rivale, il cardinale Vincent Nichols di Westminster, a vietare le cerimonie della Settimana Santa di vecchio rito nella sua diocesi.

Il coetaneo conservatore britannico Lord Moylan, cattolico tradizionalista, ha sfogato la sua furia in un post su X: “Questa sera ho ascoltato una meravigliosa messa tridentina. Non ti dirò dov’era nel caso Arthur mandasse i suoi scagnozzi. Dirò solo che il cattolicesimo inglese ha una tradizione secolare di messe clandestine. L’unica cosa che è cambiata è chi ci perseguita”.

Molti vescovi non amano le intricate coreografie delle cerimonie latine, ma ciò che detestano di più è farsi torcere le braccia da un papa che, mentre dice al mondo che sta conferendo potere ai vescovi incoraggiando la “sinodalità”, qualunque cosa significhi, sta minando la loro autorità pastorale sulle loro parrocchie.

Ma anche questa controversia impallidisce di fronte all’esplosione di rabbia dei vescovi di mezzo mondo quando, poco prima di Natale, senza preavviso né consultazione, il Papa ha firmato Fiducia Supplicans, un documento che consente ai sacerdoti di benedire le coppie gay. Questa volta lo strumento prescelto è stata una dichiarazione dell’ufficio dottrinale della Chiesa, il Dicastero per la Dottrina della Fede (DDF), secondo cui le coppie dello stesso sesso o persone in altre situazioni “irregolari” potevano ricevere benedizioni “non liturgiche” dai sacerdoti. Ciò è stato sorprendente perché, ancora nel 2021, lo stesso ufficio aveva condannato il concetto di coppie dello stesso sesso. Inoltre, nessuno aveva mai sentito parlare di una benedizione non liturgica. Non esisteva nel diritto canonico. Chi ha avuto questa idea?

Si faccia avanti il ​​nuovo Prefetto del DDF, il cardinale Victor “Tucho” Fernandez, il più eccentrico dei protetti argentini del Papa. È difficile esagerare la stranezza della nomina di Fernandez a capo del DDF. Era noto soprattutto per aver scritto un libro sulla teologia del bacio, finché non si scoprì che ne aveva scritto anche uno sulla teologia dell’orgasmo, contenente passaggi così inquietanti che Tucho stesso ci ripensava e apparentemente cercava di nascondere tutte le copie esistenti. .

Come ha potuto questo imbarazzante peso piuma arrivare a occupare una carica precedentemente ricoperta da Benedetto XVI, che come Joseph Ratzinger è stato senza dubbio il più grande teologo cattolico del XX secolo? Una teoria è che Fernandez non sia stata la prima scelta di Francis, ma il nome del suo candidato preferito, il vescovo progressista tedesco Heiner Wilmer, è trapelato e così ha scelto qualcun altro. Appena entrato in carica, Tucho scrisse Fiducia Supplicans e la fece scivolare sulla scrivania di Francesco senza mostrarla agli altri cardinali anziani.

La ricaduta è stata spettacolare. C’era già una crescente spaccatura tra i vescovi cattolici, guidati dai progressisti tedeschi e americani, che pensavano che fosse giusto benedire le coppie gay e coloro che pensavano che ciò costituisse una presa in giro degli insegnamenti di Cristo. Dopo Fiducia quella spaccatura sembra irreparabile.

L’11 gennaio i vescovi dell’Africa occidentale, orientale e centrale hanno annunciato congiuntamente che “non ritengono opportuno che l’Africa benedica le unioni omosessuali o le coppie dello stesso sesso”. Francis, imprevedibile come sempre, ha poi detto che andava bene perché erano africani, gettando così Tucho sotto l’autobus, esponendosi ad accuse di razzismo e offendendo la lobby LGBT. Gli attivisti per i diritti dei gay erano già mortificati dal “chiarimento” pieno di panico del Vaticano del 4 gennaio secondo il quale le benedizioni delle coppie dello stesso sesso dovrebbero durare al massimo 15 secondi e “non costituirebbero un’approvazione della vita che conducono”.

Nel frattempo la Chiesa greco-cattolica ucraina, ferita dalle aperture papali a Putin, ha affermato che la Fiducia non si applica neanche a loro. Allo stesso modo la Chiesa polacca. Recentemente la Chiesa copta ortodossa ha compiuto il passo drastico di sospendere il dialogo teologico con Roma.

“Hagan lio!” – “Fate casino!” – era il messaggio del nuovo papa ai giovani cattolici nel 2013. Cosa voleva dire? Tutte le sue parole sono intrise di ambiguità; forse si spiega con la sua affermazione che la Chiesa “fa sempre il bene che può, anche se nel farlo le sue scarpe si sporcano con il fango della strada”. Ma Fiducia Supplicans puzza di pasticcio accidentale, non di rischio calcolato. È qualcosa che ti gratti via dalla scarpa perché non stavi guardando dove stavi andando. Il Papa era impazzito?

“È uno degli uomini più complicati che abbia mai incontrato”, dice una fonte vaticana che osserva da vicino il Papa da un decennio. “Può essere terribilmente divertente e anche incredibilmente vendicativo. Se lo contrasti, ti prenderà a calci quando sarai al punto più basso.”

“Ma non credere che sia un maestro stratega. È un goffo tattico che passa il suo tempo ad accendere e spegnere gli incendi. La sua priorità numero uno, prevalendo su tutto il resto, è che dovrebbe essere imperscrutabile. Non vuole che nessuno sappia cosa ha intenzione di fare e, se lo scopri, farà il contrario, anche se ciò sconvolgerà i suoi piani.

La mia fonte non appartiene ad alcuna fazione clericale e le sue valutazioni sulle persone tendono ad essere evidentemente gentili. È stato interessante osservare come, durante i nostri incontri a Roma negli ultimi cinque anni, la sua opinione su Francesco si sia indurita al punto da descriverlo senza esitazione come un uomo cattivo.

Se Francesco cancella qualunque piano anticipato dai media, allora si spiega il disastro di Fiducia Supplicans: il vescovo Wilmer è probabilmente più eterodosso del cardinale Fernandez in tema di omosessualità, ma non avrebbe mai messo il suo nome sugli “scarabocchi amatoriali di Tucho”, come un critico descrive il documento.

Ma notate quanto velocemente il Papa ha invertito la marcia. Un libro appena pubblicato dal cattolico conservatore francese Jean-Pierre Moreau ritrae Jorge Bergoglio come un iconoclasta liberale ispirato dalla teologia della liberazione quasi marxista. Penso che sia sbagliato, e lui è quello che è sempre stato: un peronista. Come Juan Perón, il presidente populista dell’Argentina durante la sua infanzia, è più interessato al potere che alle idee. La mia fonte vaticana parla del “potente fascino di Francesco, del suo modo di farti credere che sei l’unica persona che conta”. Dissero la stessa cosa di Perón, un consumato opportunista che, all’apice del suo potere, ottenne il sostegno simultaneo di neonazisti e marxisti ma che si divertì anche a scagliarsi inaspettatamente contro alleati e oppositori.

“Può essere incredibilmente divertente e anche incredibilmente vendicativo. Se lo contrasti, ti prenderà a calci quando sarai al punto più basso.”

Ideologicamente, il peronismo è ovunque, ma è sempre stato impegnato a favore del benessere sociale e anche appassionatamente antiamericano: due filoni duraturi nel pensiero di Francesco. Durante il pontificato di Giovanni Paolo II Bergoglio ha sottolineato la sua ortodossia teologica, guadagnandosi l’odio di alcuni suoi confratelli gesuiti. Ma non gli sono mai piaciute le cerimonie meticolose – c’è un filmato di lui che lancia virtualmente il Santissimo Sacramento in mezzo alla folla a Buenos Aires – e quando lo guardi sbadigliare durante le cerimonie in San Pietro non puoi fare a meno di chiederti se trova noiosa la Messa. Non la celebra più in pubblico, e la scusa di essere sempre troppo malato per farlo non funziona: Giovanni Paolo II ha celebrato la messa anche se paralizzato dal Parkinson e quasi incapace di parlare.

La sera dell’elezione di Francesco, il sito tradizionalista Rorate Caeli ha pubblicato il grido di angoscia di Marcelo Gonzalez, giornalista di Buenos Aires. Il titolo era: “L’orrore!” e descriveva la figura schiva che aveva appena messo piede sul balcone di San Pietro come “il peggiore di tutti gli impensabili candidati”. Bergoglio era un “nemico giurato della Messa tradizionale” che aveva “perseguitato ogni singolo prete che si sforzava di indossare l’abito talare”.

Come la maggior parte degli osservatori, pensavo che l’articolo fosse esagerato e, come la maggior parte degli osservatori, mi sbagliavo. Gonzalez aveva ragione riguardo alla messa latina – e anche riguardo alle tonache. Al giorno d’oggi i preti ambiziosi di Roma sanno che il fruscio della tonaca potrebbe portarli in una miserabile curazia, così ora corrono per le piazze in squallidi clergymen.

Ma Francesco è davvero un liberale? Il fatto che detesti i conservatori non significa che sostenga l’ordinazione delle donne – non lo fa – e non si dovrebbe leggere troppo nelle foto occasionali con un cattolico LGBT: i pettegolezzi in Curia suggeriscono che, quando il Santo Il padre abbassa la guardia e scivola nello slang scatologico di Buenos Aires, non è particolarmente lusinghiero nei confronti dei “gay”. O qualche altra minoranza.

È difficile spiegare l’importanza del clero gay nel suo entourage, sia in Argentina che a Roma, dato che nessuno ha mai insinuato che Jorge Bergoglio, l’ex buttafuori di nightclub che aveva una ragazza prima di entrare in seminario, fosse omosessuale. Ma sa quali armadi contengono scheletri. Un prete a Roma mi ha detto: “Quando Bergoglio visitava Roma ai vecchi tempi, si parcheggiava tra gli altri visitatori nella Casa del Clero, assorbendo i pettegolezzi, molti dei quali riguardavano il clero gay. E non lo dimenticherebbe”. (La Casa è il luogo in cui Francesco è tornato per saldare il conto dopo la sua elezione e si è assicurato che ci fossero telecamere installate per registrare la sua umiltà).

Naturalmente il futuro papa non fu il solo a raccogliere informazioni in questo modo. La politica latinoamericana, sia clericale che secolare, è sempre stata oliata dallo scambio di segreti – e soprattutto in Argentina, dove due terzi dei cittadini hanno origini italiane e il mercanteggiamento politico ha un sapore decisamente italiano.

Forse è stato ingenuo da parte dei cardinali nel 2013 aspettarsi che l’ex cardinale Bergoglio ripulisse la corruzione che aveva portato Benedetto XVI allo stato di impotente disperazione in cui aveva rassegnato le dimissioni dal suo incarico. Ma questa è stata la ragione principale per cui lo hanno eletto. Aveva promesso il controllo della corruzione, ed era una promessa che non mantenne.

Forse il cardinale avrebbe dovuto dare un’occhiata più da vicino ai due cardinali in pensione che fungevano da gestori non ufficiali della sua campagna. L’americano Theodore McCarrick e il belga Godfried Danneels erano entrambi in disgrazia, essendo stati sorpresi mentre cercavano di mentire per sfuggire a scandali sessuali. Le aggressioni di McCarrick ai seminaristi erano state un segreto di Pulcinella nella Chiesa americana per decenni, mentre Danneels era già stato sorpreso mentre tentava di coprire abusi incestuosi sui minori da parte di uno dei suoi vescovi. Francis li riabilitò subito entrambi. McCarrick ha ripreso il suo ruolo di emissario e raccoglitore di fondi del Papa (anche se Francesco alla fine ha dovuto destituirlo quando è stato accusato di abusi sui minori). Danneels, incredibilmente, ha ricevuto un invito papale a un sinodo sulla famiglia.

Nel frattempo, le riforme finanziarie di Francesco iniziarono in modo promettente. Ha creato il nuovo incarico di Prefetto dell’Economia per il defunto cardinale George Pell, un conservatore australiano senza fronzoli. Pell si è imbattuto in gigantesche operazioni di riciclaggio di denaro che coinvolgevano alti funzionari della curia, dopo di che è stato opportunamente costretto a dimettersi per affrontare accuse inventate di abusi sui minori a Melbourne.

Durante la lunga battaglia di Pell, alla fine vittoriosa, per riabilitare il suo nome, Francesco ha inspiegabilmente dato libero sfogo all’arcivescovo Angelo Becciu, che era già sospettato di avere le sue mani in numerose casse. Becciu ha colto l’occasione per licenziare Libero Milone, il revisore dei conti nominato da Pell, minacciando di rinchiuderlo in una cella del carcere vaticano per il reato di ‘spionaggio’ (cioè di aver svolto il suo lavoro).

Alla fine lo stesso Becciu fu licenziato dopo la scoperta di miliardi di dollari investiti in investimenti loschi – a quel punto, molto stranamente, Francesco lo nominò cardinale. E lo rimane anche oggi, nonostante abbia perso la maggior parte dei suoi privilegi cardinalizi nel 2020 dopo essere stato accusato insieme ad altri nove di appropriazione indebita. È stato dichiarato colpevole e ora rischia cinque anni e mezzo di prigione, ma nessuno pensa che li sconterà: sa troppo.

Eppure non tutti coloro che hanno accesso a informazioni dannose sono stati promossi. Mons. Nunzio Galantino era presidente dell’APSA quando Zanchetta vi si nascondeva con il non mestiere di “assessore”. Si aspettava di essere nominato cardinale quando sarebbe andato in pensione. Non lo fu ed è, secondo quanto riferito, furioso.

Questo mese mi è stato inviato un dossier di 500 pagine su Zanchetta. Molti dei dettagli sconvolgenti delle accuse di abuso sessuale dei seminaristi non sono mai stati riportati. Mi è stata inviata anche la fotocopia di un documento secondo cui funzionari diocesani di Orán accusavano Zanchetta di nascondere la vendita dei beni che servivano a finanziare la costruzione del suo seminario. Mostra le firme e i timbri dei funzionari. Zanchetta avrebbe affermato che lo stesso Papa Francesco gli aveva consigliato di nascondere le transazioni. Un importante blog cattolico ha riportato questa affermazione nel 2022; i media mainstream no. Ho mostrato la fotocopia a un ex altissimo funzionario vaticano, che mi ha risposto via WhatsApp: “Avevo sentito parlare di questa faccenda come una voce ma ora la vedo nero su bianco!”

Per quanto orrendi siano gli scandali legati a questo pontificato, difficilmente influenzeranno il prossimo conclave tanto quanto il documento firmato da Francesco il 18 dicembre dello scorso anno. Fiducia Supplicans ha cambiato le dinamiche del collegio elettorale – non solo perché ha costretto i vescovi cattolici ad affrontare il tema radioattivo dell’omosessualità che ha dilaniato le Chiese protestanti, ma anche perché ha riassunto la catastrofica incompetenza di questo pontificato.

Almeno tre quarti dei futuri cardinali elettori saranno stati nominati da Francesco. Quindi si potrebbe pensare che il conclave, pur riconoscendo Fiducia come un errore, cercherà un papa che sostenga l’approccio relativamente non dogmatico di Francesco alle questioni della sessualità umana. E così potrebbe essere, se avesse creato abbastanza cardinali liberali. Ma non l’ha fatto.

Nei primi anni del suo regno Francesco adottò un approccio tribale, soprattutto negli Stati Uniti. Era come se stesse giocando a un gioco da tavolo peronista, spostando i cappelli rossi verso improbabili sedi occupate dai lealisti bergogliani. Newark, nel New Jersey, acquisì il suo primo cardinale: Joseph Tobin, che era stato vicino a Ted McCarrick. Los Angeles è stata punita per aver avuto un arcivescovo ortodosso, José Gomez, che aveva davvero il naso in faccia: invece di diventare il primo cardinale ispanico, ha dovuto guardare l’onore andare al suo suffraganeo ultra-liberale Robert McElroy di San Diego, accusato di ignorare gli avvertimenti sulle abitudini predatorie di Ted McCarrick. Chicago ha ricevuto un cappello rosso, come è consuetudine, ma è caduto sulla testa dell’aggressivo Blase Cupich, di sinistra, inutile dirlo nominato da Francis.

Altrove nel mondo, Francesco ha adottato la politica di nominare cardinali provenienti dalle “periferie”: i 1.450 cattolici della Mongolia ne hanno uno; I cinque milioni di cattolici australiani no. Tonga ne ha uno, l’Irlanda no. Ma, così facendo, ha dovuto abbandonare il suo gioco di sostenere i liberali e di torcere la coda ai suoi critici conservatori. Queste etichette faziose non significano molto nel mondo in via di sviluppo. Negli ultimi due concistori ha creato 33 cardinali, solo una manciata dei quali ha una visione radicale in stile occidentale sulla sessualità. Per citare un analista vaticano: “Francesco ha sprecato la sua occasione di preparare saldamente le carte in tavola per il prossimo conclave”. E adesso il college è pieno; anche se vivesse abbastanza da indire un altro concistoro, non avrà molti posti con cui giocare.

I nuovi cardinali rispondono a diversi requisiti bergogliani. Apprezzano gli attacchi del Papa al capitalismo del libero mercato e i suoi avvertimenti melodrammatici sul cambiamento climatico. Nessuno di loro è un tradizionalista di destra e fino a poco tempo fa nessuno prestava molta attenzione alle loro feroci opinioni sulla “sodomia”.

Ora quelle opinioni contano davvero. Per citare lo stesso analista, “quando fu pubblicata Fiducia Supplicans, i cardinali africani abbandonarono da un giorno all’altro il loro culto di Francesco. La stragrande maggioranza non voterà per chi ha sostenuto Fiducia”. Attualmente i cardinali elettori africani sono 17; quasi tutti appartengono al blocco anti-gay. A questi si aggiungono almeno 10 cardinali provenienti dall’Asia, dall’America Latina e dall’Occidente che condividono le loro opinioni, anche se usano una retorica più mite. Secondo le regole attuali, un papa deve essere eletto da una maggioranza di due terzi dei cardinali elettori. Ciò significa che i conservatori sociali, se uniscono le forze con il numero significativo di moderati allarmati da Fiducia, possono bloccare chiunque sia considerato progressista sull’omosessualità.

Questa è una brutta notizia per il cardinale Luis Tagle, l’ambizioso ex arcivescovo di Manila. Una volta fu soprannominato il “Francesco asiatico” per via della sua abilità nello spettacolo e delle sue opinioni socialmente liberali. Nel 2019 Francesco lo ha incaricato dell’evangelizzazione mondiale – un premio enorme che è stato portato via quando il Papa ha ristrutturato il suo dipartimento e lo ha licenziato dalla carica di capo della Caritas, l’agenzia umanitaria cattolica perseguitata dagli scandali degli abusi sessuali.

È complicato anche per il cardinale Matteo Zuppi, l’affabile ciclista che è arcivescovo di Bologna. La sua politica è socialista – nessun problema per i vescovi dei paesi in via di sviluppo – e durante il regno di Benedetto XVI ha sviluppato un entusiasmo per l’antica liturgia, imparando anche a celebrare la Messa tridentina. La sua posizione sull’omosessualità è cauta – ma ha permesso a una coppia gay di avere una benedizione in chiesa nella sua diocesi e poi, disastrosamente, il suo portavoce ha sostanzialmente mentito al riguardo, sostenendo che non si trattava di una benedizione per persone dello stesso sesso quando ovviamente lo era. Zuppi non è un fan di Fiducia Supplicans, ma in questo momento si scontrerebbe con il terzo di blocco.

I liberali intransigenti hanno ancora meno possibilità. Blase Cupich di Chicago non è papabile; né lo sono i “McCarrick boys” Tobin, McElroy, Gregory e Farrell, o i veterani della sinistra europea Hollerich, Marx e Czerny. Si è fatto il nome del cardinale maltese Mario Grech perché segretario generale del “sinodo sulla sinodalità”, un organo consultivo di vescovi e attivisti laici che il Papa non si è preso la briga di consultare sulle nuove benedizioni gay. Grech, soprannominato scortesemente “il Bozo di Gozo”, ha visto crollare la sua reputazione insieme a quella del sinodo sdentato. I suoi nemici lo descrivono come il più grande leccapiedi della Curia (ingiusto nei confronti di Arthur Roche, direbbero molti).

Quanto ai papabili conservatori intransigenti, in realtà non ce ne sono; Francis almeno si è assicurato di questo. Ma esiste una possibilità moderatamente conservatrice: il cardinale Péter Erdő, primate d’Ungheria. A differenza dell’esuberante e piagnucoloso Tagle, è uno studioso emotivamente riservato. Quando l’ho incontrato per un caffè a Londra anni fa, eravamo impegnati da mezz’ora nella laboriosa attività di utilizzare un traduttore quando improvvisamente è passato a un inglese fluente. Ha la reputazione di non amare le luci della ribalta e di avere la pelle sottile, ma in un sinodo sulla famiglia nel 2015, nonostante le pressioni degli apparatchik papali, ha usato la sua posizione di relatore generale per fornire una difesa magistrale dell’insegnamento tradizionale. . Un vaticanista lo descrive come “noiosamente conservatore, il che potrebbe essere esattamente ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento”.

Che dire dei cardinali moderati e difficilmente inquadrabili? Il nuovo papabile è Pierbattista Pizzaballa, il patriarca latino di Gerusalemme di origine italiana. Negli ultimi mesi gli orrori alle sue porte hanno rivelato un diplomatico di rara abilità. La sua condanna degli attacchi dell’IDF contro i civili a Gaza gli è valsa un rimprovero da parte del ministro degli Esteri israeliano – ma in precedenza aveva condannato Hamas per la sua “barbarie” e si era offerto come ostaggio al posto dei bambini israeliani. E anche se non è difficile credergli quando dice che non desidera assolutamente diventare papa, è possibile che sia costretto a ripensarci.

Ma qualunque osservatore del Vaticano vi dirà che nuovi papabili balenano nel cielo durante gli ultimi giorni di pontificato. Questa volta sono impegnati a memorizzare i nomi degli elettori asiatici. (Si ritiene generalmente che dopo Francesco potremo dimenticarci per qualche secolo di un altro latinoamericano o di un gesuita.) Tre nomi continuano a spuntare: William Goh di Singapore, ortodosso sulla sessualità, pacatamente critico nei confronti della resa a Pechino; Charles Maung Bo del Myanmar, anch’egli critico dell’accordo con la Cina; e You Heung-Sik, il nuovo prefetto del dicastero per il Clero della Corea del Sud. Il cardinale You è una figura affascinante: un adolescente convertito al cattolicesimo il cui padre era stato ucciso o aveva disertato al Nord – nessuno lo sa. Ha poi convertito il resto della sua stessa famiglia. La sua fede è gioiosa e la sua visione della formazione sacerdotale è molto più attraente delle amare invettive di Francesco contro il “clericalismo”.

Infine, dobbiamo considerare il più anziano di tutti i papabili, il cardinale Pietro Parolin, che come Segretario di Stato (un misto tra primo ministro e ministro degli Esteri) è tecnicamente il numero due in Vaticano. Il 69enne italiano è visibilmente in manovra e la sua candidatura viene presa sul serio. E questo di per sé è strano, perché Parolin era in carica quando il suo vice Becciu e altri si appropriavano indebitamente o giocavano d’azzardo con miliardi di dollari provenienti dai fondi della Chiesa. Inoltre, è stato l’artefice dell’accordo del Vaticano del 2018 con Pechino, che – come lo aveva avvertito l’ex vescovo di Hong Kong cardinale Joseph Zen – avrebbe trasformato la Chiesa cattolica cinese, compresi i credenti sotterranei perseguitati, in una filiale interamente controllata dal Partito Comunista.

Questo è esattamente quello che è successo. Zen, ora 92enne e considerato da molti cattolici ortodossi un santo vivente, ha usato un linguaggio straordinario nei confronti di Parolin: “È così ottimista. E’ pericoloso. Ho detto al Papa che lui [Parolin] ha una mente avvelenata. È molto dolce, ma non ho fiducia in questa persona. Crede nella diplomazia, non nella nostra fede.’”

A questo pensiero fa eco una fonte vaticana che ha lavorato con Parolin: «È gentile con tutti ma vuoto in mezzo. Inoltre, la sua salute è pessima. [Tutti a Roma parlano di voci di cancro e Parolin non lo ha negato.] L’ultima volta che l’ho visto era così fragile che avevo paura di stringergli la mano. Ma un’altra fonte dice (e questo ti dà un vero assaggio di gossip vaticano): “Non escluderei gli uomini di Parolin di esagerare sulla questione del cancro, perché pensano che i cardinali vogliano un pontificato breve”.

Nessuno mette in dubbio che Parolin sia un operatore intelligente specializzato nel garantire che le sue impronte digitali non siano neanche lontanamente vicine alle scene di vari crimini. Sfuma le sue dichiarazioni su Ucraina e Israele mentre il Papa ci mette i piedi dentro con i suoi commenti improvvisati. Adora bombardare potenziali nemici. Percependo una reazione contro Francis, sta virando a destra, ammettendo che le benedizioni gay di Tucho sono una sciocchezza.

Per i suoi critici, Parolin è il Francesco italiano: vuoto, subdolo e sprezzante nei confronti della Messa latina, una posizione idiota se si considera il fatto sorprendente che l’antica liturgia sta rapidamente acquisendo lo status di culto tra i giovani cattolici. Ma i suoi critici stanno trascurando una grande differenza? Dal momento in cui è diventato cardinale, Bergoglio ha avuto gli occhi puntati sul papato e il suo sguardo non ha mai vacillato. Parolin, d’altro canto, potrebbe riconoscere di essere troppo compromesso per sopravvivere ai successivi scrutini. Forse la sua vera ambizione è diventare un segretario di Stato davvero potente sotto il prossimo uomo.

E non abbiamo davvero la minima idea di chi sarà. Molto dipende da come voteranno i cardinali moderati e non allineati. Non rivelano nulla, soprattutto ora che il Vaticano e probabilmente la curia diocesana sono pieni di microfoni nascosti. Possiamo solo immaginare cosa stia pensando un elettore indeciso come il cardinale Vincent Nichols di Westminster. Fino a poco tempo fa invocava il nome di Papa Francesco con una frequenza imbarazzante. Ora, non così tanto. Deve essere stufo della retorica senza senso della sinodalità e delle pressioni di Arthur Roche. Evidentemente non è stato impressionato da Fiducia.

Si può facilmente immaginare che cardinali moderatamente liberali votino per un candidato moderatamente conservatore in grado di affrontare il danno strutturale degli ultimi 11 anni. «Francesco ha lasciato il diritto canonico con così tanti buchi che è come la superficie di Marte», dice un sacerdote che ha lavorato in Curia. Ciò fa infuriare i cardinali che, come Nichols, sono vescovi diocesani. Devono decidere se i cattolici divorziati e risposati possono ricevere la Comunione, un argomento estremamente delicato sul quale il Papa è deliberatamente evasivo. E come garantiscono che queste benedizioni di Fiducia siano “spontanee” e “non liturgiche”? Che cosa vuol dire, inoltre?

C’è da scommettere che, nelle conversazioni pre-conclave, la maggior parte dei cardinali concorderà sul fatto che il prossimo papa dovrà essere qualcuno in grado di supervisionare un lavoro di riparazione d’emergenza che chiarisca la dottrina, la portata dell’autorità ecclesiastica e metta fine alla jihad contro i cattolici tradizionalisti , molti dei quali sono una o due generazioni più giovani dei Boomers che parlano in slang che li molestano.

Inoltre, i cardinali sanno che devono scavare a fondo nel passato dei principali contendenti. Non hanno scelta. Il prossimo papa dovrà affrontare un controllo immediato e spietato da parte degli investigatori online. Un articolo del 2021 su The Tablet dello storico della chiesa Alberto Melloni descriveva una catastrofe fin troppo credibile: “Il neoeletto papa se ne va. E mentre sorride e si presenta umilmente alla folla in piazza, un solitario post sui social media lancia un’accusa sbalorditiva”. Il nuovo papa, quando era vescovo, non aveva agito contro un prete che aveva poi commesso altri crimini. «In piazza e nella sala stampa gli occhi cadono dal balcone verso gli smartphone… Il papa rientra e si dimette. La sede è di nuovo vacante”.

Il necessario esame sarà un compito complicato, ma per lo meno i cardinali non devono ripetere l’errore commesso dai loro predecessori nel 2013, ovvero accettare un candidato secondo la propria stima. La verità è che molti cattolici in Argentina di ogni spettro ideologico conoscevano i difetti caratteriali di Francesco: la sua segretezza compulsiva, i regolamenti di conti, le alleanze disturbanti e il governo basato sulla paura. Ma nessuno lo ha chiesto loro.

Si potrebbe sostenere che nessuno degli oltre 120 cardinali idonei sia così meschino come il Santo Padre. Abbastanza giusto; ma non si dovrebbe parlare di eleggere qualcuno che imiti il ​​modus operandi di Francesco. Niente camaleonti, insomma. Nessuno che fosse ortodosso sotto Benedetto, liberale sotto Francesco e che ora stia tornando al centro.

Il nuovo papa deve essere un sant’uomo che fa affidamento su luogotenenti che non possono ricattarlo e che lui non può ricattare – ed è un fatto scioccante che questo rappresenterebbe un allontanamento dai recenti precedenti. Il papa deve essere irreprensibile. Questo è molto più importante del fatto che sia “liberale” o “conservatore”.

I tradizionalisti non saranno d’accordo, ma non penso che sia un brutto collegio cardinalizio. I cinici potrebbero dire che ciò è dovuto al fatto che Francesco, avendo fatto nomine settarie subito, ha perso interesse e ha nominato per sbaglio uomini dalla mentalità indipendente. Ma non trascuriamo il ruolo dei social media: mentre la guardia pretoriana è impegnata a nascondere le cose, innumerevoli siti web rendono la vita difficile ai vecchi rospi velenosi che cercano di organizzare i conclavi da quasi 2000 anni.

Probabilmente ha ragione Melloni: mentre il nuovo Sommo Pontefice si affaccia al balcone ci sarà un momento snervante in cui i fedeli controlleranno i cellulari. Ma se i cardinali avranno fatto bene il loro lavoro gli applausi riprenderanno presto. E se ascolti attentamente, sentirai un altro rumore provenire da ogni ufficio del Vaticano: un sospiro di sollievo cheSquid Games sia finalmente finito.
view post Posted: 23/4/2024, 12:25 Urbino. Don Roberto Pellizzari indagato per abusi su minore e nascosto in Svizzera - La stanza del peccato
www.catt.ch/newsi/italia-perquisit...e-di-neuchatel/

Italia: perquisita la casa di un prete di Neuchâtel
La casa di un sacerdote di Neuchâtel, nell’Italia centrale, nei giorni scorsi è stata perquisita, come riportano i media di ArcInfo. La polizia italiana sospetta il prete, già oggetto di un’indagine canonica, di abusi sessuali su un minore.
Il 29 settembre 2023, l’episcopato di Losanna, Ginevra e Friburgo (LGF) aveva annunciato che un sacerdote operante nel cantone di Neuchâtel era stato sospeso per sospetto abuso sessuale e che era stato avviato un procedimento canonico nei suoi confronti. Il caso è arrivato a una svolta il 13 aprile 2024, quando un’importante retata della polizia ha avuto luogo nella casa di proprietà del sacerdote di origine italiana nella cittadina di Sant’Angelo in Vado (Marche).

Grossa perquisizione
Secondo ArcInfo, quasi una dozzina di agenti della polizia scientifica in tuta bianca con delle valigette in mano, sono scesi da tre auto ed entrati nella casa. Gli agenti hanno perquisito tutti e tre i piani e posto i sigilli. Gli investigatori erano particolarmente interessati ai locali del garage e del seminterrato. Secondo i media di Neuchâtel, la polizia italiana sospetta che il sacerdote abbia abusato della figlia minorenne dell’assistente medico che aveva assistito la madre.

Il caso è stato denunciato alle istituzioni ecclesiastiche e ai tribunali italiani. La segnalazione, fatta nel settembre 2023, è stata inoltrata anche a mons. Charles Morerod, vescovo di Losanna, Ginevra e Friburgo (LGF), poiché il religioso risiede attualmente nel cantone di Neuchâtel. Il 29 settembre, la diocesi ha annunciato che il sacerdote è stato sospeso e che è stato avviato un procedimento canonico. La diocesi ha aggiunto di aver informato la Procura di Neuchâtel.

Nessun procedimento a Neuchâtel
Il procuratore del Cantone di Neuchâtel, Pierre Aubert, ha dichiarato ad ArcInfo di non essere in grado di decidere se aprire un’indagine penale su questi fatti. Ha spiegato di aver chiesto ulteriori informazioni alle autorità ecclesiastiche italiane. Queste ultime hanno confermato l’apertura di un procedimento interno, aggiungendo che la presunta vittima e la sua famiglia non hanno ancora presentato una denuncia alle autorità civili. Non è stato quindi aperto alcun procedimento nel Cantone di Neuchâtel. La diocesi di LGF ha dichiarato che sta collaborando con le autorità giudiziarie ed è consapevole che chiunque sia indagato non deve lasciare la zona. Si noti che il prete in questione nel Canton Vaud era già stato condannato per appropriazione indebita nei confronti di parrocchie.
23 aprile 2024

Edited by pincopallino1 - 28/4/2024, 06:53
view post Posted: 23/4/2024, 09:01 Torture in carcere. Il cappellano: "in mezzo secolo non mi sono accorto di niente" - Diritti civili
https://milano.corriere.it/notizie/cronaca...538ce0xlk.shtml
Torture al Beccaria, il cappellano don Claudio Burgio: «Sono addolorato, i ragazzi non si sono confidati neppure con me»

di Elisabetta Andreis e Gianni Santucci
Il fondatore della comunità Kayros: «Il rapporto educativo non può essere impostato sulla coercizione, perché questa viene vissuta dai ragazzi come prevaricazione e ingiustizia. Scatena rabbia»

«Sempre più spesso i ragazzi che arrivano hanno un disagio psichiatrico, o legato all’uso di sostanze o di farmaci. Al Beccaria capita che abbiano comportamenti molto aggressivi o violenti, tra loro e nei confronti degli adulti. Ci sono casi di agenti finiti in ospedale; conflitti scaturiti dal niente, magari per una telefonata o una sigaretta negate. Detto questo, i fatti emersi dalle indagini sono di una gravità inaudita. E una cosa soprattutto mi preoccupa».

Cosa?
«Che i ragazzi non abbiano parlato di quel che accadeva nemmeno a me. Mi dispiace. Prendo atto ancora una volta che, persino davanti a episodi così gravi, noi adulti non siamo riusciti a colmare la distanza e creare confidenza».
Don Claudio Burgio, fondatore della comunità Kayros di Vimodrone, cappellano dell’istituto minorile Beccaria, ha da poco pubblicato un libro (Non vi guardo perché rischio di fidarmi, edizioni San Paolo). Le sue esperienze e il suo impegno, le sue speranze e il suo pensiero, ruotano intorno a quel concetto: fiducia. È in base a questo che sempre afferma: «Le responsabilità sono anche e soprattutto nostre, non solo dei ragazzi».

Qualcuno potrebbe interpretare questa frase come sottovalutazione di certe condotte devianti. È così?
«La difficoltà, per i ragazzi di oggi, è trovare adulti di cui fidarsi. Intorno alla fiducia ruota la relazione educativa efficace, che manca in molti contesti: da quello estremo carcerario, a quelli di routine. L’origine di tanti mali nasce da qui, ed è trasversale a tutti gli ambienti, anche quelli lontanissimi da carceri e tribunali».

Che ruolo ha la fiducia?
«I ragazzi non trovano adulti che considerano credibili e degni di stima, di cui fidarsi. Gli adulti paiono assenti, lontani, non riescono a intercettare il linguaggio e i pensieri dei ragazzi, a mettersi in dialogo. Approcciare un ragazzo in modo avaro, avendo paura, è già esprimere un giudizio che mina la base di quel rapporto tutto da costruire. Per i ragazzi c’è tanta incoerenza tra quello che gli adulti dicono e quello che fanno. Risultano poco trasparenti, al limite poco corretti. Infatti gli adulti non sono più contestati: sono irrilevanti».

L’indagine che ha riguardato 21 agenti del Beccaria (su 50 totali) parla di «pratiche sistematiche» per «imporre le regole di civile convivenza» e per «educare» i detenuti.
«Il carcere è la punta estrema di quello che c’è fuori, le dinamiche sono esasperate, ma analoghe. Nella detenzione, così come negli altri ambienti, l’azione disciplinare da sola non paga. Il rapporto educativo non può essere impostato sul contenimento e sulla coercizione, perché questa viene vissuta dai ragazzi come prevaricazione e ingiustizia. Scatena rabbia. La forza muscolare della legge applicata a un sistema come quello carcerario, che già è totale, nel senso di chiuso rispetto alla realtà esterna, rischia di sfociare in un totalitarismo».

L’istituto minorile dovrebbe essere l’extrema ratio, ma non è sempre così.
«Sul territorio le comunità spesso non hanno educatori esperti da dedicare ai casi più complicati e le famiglie non sono supportate adeguatamente. La lista dei bisogni si allunga, il numero crescente di minori stranieri non accompagnati aggrava la situazione».

Di fronte alla devianza, cosa dovrebbe fare l’adulto?
«La tendenza è patologizzare e criminalizzare il ragazzo, connotandolo per le sue azioni. Le azioni commesse sono sbagliate, ma far sentire sbagliato il ragazzo aggrava la situazione. C’è tanto in comune. Siamo umani. Abbiamo luci e ombre. La tristezza, ad esempio, appartiene tanto a loro quanto a noi».

Qualcuno pensa che le condotte adolescenziali sempre più aggressive richiedano politiche più repressive.
«Non è certo una legge più dura e severa a fare da deterrente per contrastare la criminalità e il disagio giovanile. Non è la paura dell’arresto, il terrore del carcere a scoraggiare un ragazzo dal commettere reati; un adolescente cambia se si sente investito di fiducia e responsabilità. Se incontra un adulto di riferimento affidabile, capace di offrire reali opportunità di crescita».

Al Beccaria è mancato per anni un direttore dedicato. Ora come va?
«Da qualche mese ne è arrivato uno finalmente presente full time (Claudio Ferrari, ndr), qualcosa sta cambiando. Gli educatori sono stati aumentati e la ristrutturazione, tanto attesa, ha migliorato la fruibilità degli spazi. Manca ancora il comandante e talvolta gli agenti, giovani e senza preparazione specifica e adeguata, finiscono per andare in crisi in un ambiente sicuramente stressante e molto difficile, dove i ragazzi, più di tutto, avrebbero bisogno di padri».

Lei nel libro cita anche casi di rapper diventati famosi e passati dall’istituto minorile, e poi dalla sua comunità, come Sacky e Baby Gang…
«Sono ragazzi di cui mi piace parlare e scrivere, perché per me sono e sono stati fonte di grande insegnamento».

In generale, i casi sono sempre più difficili, dentro e fuori dal carcere…
«Purtroppo, per loro siamo irrilevanti».
view post Posted: 23/4/2024, 08:46 Bolivia. Perquisito vescovo milionario: 15 immobili e un giro da oltre un milione di dollari - Attualità
Rimosso dal Vaticano nel 2016: "mi accusano di traffico di droga"

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www.adista.it/articolo/71795

Bolivia. Perquisita l'abitazione di un vescovo: troppo ricco, sospettato di favoreggiamento di attività di illegali
Redazione 22/04/2024, 13:00
Perquisita l'abitazione di mons. Carlos Stetter, vescovo emerito di San Ignacio de Velasco (dipartimento di Santa Cruz, in Bolivia), a seguito di una denuncia per presunta “legittimazione di profitti illeciti”, ovvero occultamento o dissimulazione riguardanti beni o fondi derivanti da attività illegali. La notizia è stata diffusa dal giornale locale El Deber.

L’irruzione, avvenuta il 19 aprile è, stata condotta dal procuratore Gustavo Ríos che, insieme alla polizia, ha sequestrato documenti, denaro e un furgone appartenente al vescovo. Ríos è stato incaricato dell’operazione dal giudice Primo Flores Rodríguez che aveva emesso il mandato di perquisizione il giorno prima. «La persona indagata ha più di 15 proprietà registrate a suo nome», ha detto il procuratore. Si suppone che si tratti di immobili e un flusso finanziario oltre il milione di dollari. «Si sta indagando sull'origine dei beni del monsignore. L'indagine è iniziata due mesi fa per parte del Pubblico Ministero», ha aggiunto, precisamente dall’ufficio anticorruzione che, oltre a mons. Stesser, ha messo sotto inchiesta Juan Miguel Zarza Álvarez e la diocesi, attualmente retta da mons. Robert Herman Flock.

Monsignor Stetter, tedesco ma da 45 anni in Bolivia, ha parlato dell’accaduto come abuso: «Hanno sequestrato dei documenti, è un'indagine per legittimazione di profitti illeciti, ma ancora non so perché», ha detto, aggiungendo tuttavia di presumere che dietro l’indagine ci sia una precedente denuncia per vincoli con il traffico di droga, cosa totalmente falsa, ha concluso il religioso.

L’episcopato boliviano ha subito fatto quadrato intorno e mons. Stetter, emettendo il seguente comunicato: «La Segreteria generale della Conferenza episcopale boliviana, avendo appreso attraverso la stampa dell'irruzione nella casa del vescovo emerito della diocesi di San Ignacio de Velasco, mons. Carlos Stetter, per il sospetto di legittimazione di guadagni illeciti, esprime in questo momento vicinanza alla sua persona. In nessun momento dubitiamo che il suo operato in tutte le questioni amministrative della diocesi sia sempre stato condotto con totale trasparenza e onestà. D'altra parte, come Chiesa cattolica, chiediamo che qualsiasi indagine della Procura si svolga nel quadro del dovuto rispetto delle leggi e dei processi giudiziari, e secondo criteri etici di verità e trasparenza. La Paz, 19 aprile 2024».

Mons. Stetter, nato nel 1941, è stato nominato vescovo di San Inacio del Velasco nel 1995. Ha presentato a papa Francesco le sue dimissioni nel 2016 a 72 anni, con largo anticipo sull’età pensionabile dei vescovi (75 anni).

www.agensir.it/quotidiano/2024/4/2...erso-la-chiesa/
INDAGINI SU RICICLAGGIO
Bolivia: preoccupazione dei vescovi per irruzione nell’abitazione del vescovo Stetter. Mons. Pesoa (presidente), “speriamo non si tratti di intimidazione verso la Chiesa”

22 Aprile 2024 @ 10:44
Forte preoccupazione vicinanza all’interessato. La Conferenza episcopale boliviana, attraverso la segreteria generale, ha diffuso un comunicato dopo l’irruzione ordinata dalla Procura nell’abitazione del vescovo emerito della diocesi di San Ignacio de Velasco, mons. Carlos Stetter. “In nessun momento abbiamo dubitato che il suo operato in tutti gli atti amministrativi della diocesi sia sempre stato svolto in totale trasparenza e onestà”, scrivono i vescovi, che chiedono alla Procura di svolgere le proprie indagini, sul presunto reato di riciclaggio di proventi illeciti, nel “quadro del dovuto rispetto delle leggi e dei processi giudiziari, e secondo criteri etici di verità e trasparenza”.
La stessa notizia è stata confermata dallo stesso mons. Stetter, che ha dichiarato che venerdì 19 aprile la Procura ha effettuato un’irruzione nella sua abitazione. Più in dettaglio, il pubblico ministero Gustavo Adolfo Ríos Guaygua e i membri del Dipartimento specializzato anticorruzione (Delcc) hanno fatto irruzione nell’abitazione del vescovo e hanno sequestrato un furgone, denaro e documenti personali. Ieri, durante la messa domenicale, il presidente dell’episcopato, mons. Aurelio Pesoa, vescovo del vicariato apostolico di Beni, ha espresso solidarietà a mons. Stetter per l’irruzione nella sua casa, “che rasenta l’abuso di potere”, esprimendo il desiderio che l’indagine sia condotta nell’ambito della legge, secondo criteri etici e con trasparenza. “E speriamo che non si tratti di un’intimidazione nei confronti dei pastori della Chiesa boliviana”, ha concluso.
view post Posted: 23/4/2024, 07:43 Torture in carcere. Il cappellano: "in mezzo secolo non mi sono accorto di niente" - Diritti civili
Invocano il segreto confessionale per i crimini dei colleghi ma non raccolgono le confidenze di minori terrorizzati

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https://www.ilgiorno.it/milano/cronaca/tor...igoldi-0b8ea0a2

22 apr 2024
MARIANNA VAZZANA

Torture al Beccaria, lo storico cappellano don Gino Rigoldi: “Non sapevo niente, mancano gli educatori”

Don Rigoldi, in prima linea per mezzo secolo: “Vanno riempite le giornate di questi ragazzi”. “Più tutele per i reclusi. Faccio mea culpa: non mi sono accorto delle violenze”

ARTICOLO: Violenze e torture sui detenuti nel carcere Beccaria di Milano: arrestati 13 agenti della polizia penitenziaria, altri 8 sospesi
«La premessa è che i reati che ci sono stati e che sono dimostrabili vanno chiamati con il loro nome e hanno dei colpevoli. Detto questo, io insisto nel dire che nel carcere ci sono dei tempi morti che vanno riempiti, che i poliziotti penitenziari devono avere una formazione che li renda sensibili a temi educativi e spazi adeguati ed essere in numero sufficiente. Bisogna lavorare perché gli agenti non siano percepiti come ’avversari’ dai ragazzi. Per far questo, servono anche più educatori".

È il commento di don Gino Rigoldi a poche ore dallo scoppio del ’caso Beccaria’ con 13 agenti arrestati per presunte "sistematiche torture" nei confronti di giovani detenuti e altri 8 sospesi dall’esercizio di pubblici uffici. Proprio un mese fa, don Gino, 84 anni, per mezzo secolo cappellano del carcere minorile milanese, ha passato il testimone al suo ’erede’ don Claudio Burgio, restando però sempre presente nell’istituto penitenziario come emerito.

Il suo primo pensiero, dopo gli arresti?

"Che siamo rimasti senza agenti (l’organico si è dimezzato, ndr). E non per modo di dire, considerando che al Beccaria ne mancano da anni almeno 20 per avere un numero adeguato. Coloro che sono in servizio sono mediamente giovani e non hanno nessuna formazione dal punto di vista educativo. Questo è un male. Non me la sento di gettare la croce su di loro, come categoria, perché i turni sono spesso massacranti e si trovano davanti ragazzi impegnativi. Dal tardo pomeriggio fino alla mattina successiva sono soli, non ci sono più attività né educatori (e di queste figure ne mancherebbero almeno dieci). I tempi morti sono micidiali per i ragazzi. Molti dei problemi nascono da lì".

In passato era diverso?

"Mi ricordo che, vent’anni fa circa, dalle 19 alle 21 c’erano diversi club di lettura, di arte, di pittura, di musica che consentivano ai ragazzi dopo cena di avere momenti di aggregazione culturale, artistica e di tempo libero organizzato. Bisognerebbe ripristinare questa esperienza con la presenza di educatori e di animatori culturali".


Voi educatori vi eravate accorti delle violenze?

"Faccio un ’mea culpa’ perché non ce n’eravamo accorti, se non di qualche caso, e non così grave come quelli emersi adesso dall’indagine. Non abbiamo mai fatto finta di niente, ne abbiamo parlato e ci sono stati dei trasferimenti. I ragazzi dovrebbero essere maggiormente tutelati, questo è certo. Da un paio d’anni sono aumentati i giovani con sofferenza psichica".

In passato ha anche puntato il dito contro la mancanza di “una direzione stabile”. Ora com’è la situazione?

"Finalmente c’è un nuovo direttore (Claudio Ferrari, ndr ) e abbiamo da alcuni mesi una ’comandante vera’ (Manuela Federico, ndr ) che da circa un mese gestisce gli agenti, dopo decenni di comandanti precari: c’è bisogno che questa figura sia presente in forma stabile. Vorrei anche che la caserma che ospita gli agenti sia trasformata. Oggi gli spazi sono inadeguati, anche per il tempo libero. Io vorrei fare un progetto, a spese mie, per renderla migliore".


E per aiutare i ragazzi?

"Moltiplicare le attività, proporre attività che ai loro occhi siano sempre utili, aumentando quelle per imparare un mestiere. E pure incentivare gli ’articoli 21’ (la legge sull’ordinamento penitenziario prevede, all’articolo 21, la possibilità di uscire dal carcere per svolgere un’attività lavorativa, ndr ). Le ore ’impegnate’ riducono le tensioni".
view post Posted: 19/4/2024, 08:27 Urbino. Don Roberto Pellizzari indagato per abusi su minore e nascosto in Svizzera - La stanza del peccato
www.ilrestodelcarlino.it/pesaro/cr...occhia-31f62168
Il prete e i misteri in villa: prima dei sospetti abusi don Roberto fu sospeso per un crac in parrocchia
Più di dieci anni fa denuncia e condanna per appropriazione indebita. Dalle due chiese di cui era responsabile sparirono parecchi soldi

Pesaro, 19 aprile 2024 – Un giallo nel giallo. Nel caso della villa dei misteri di Sant’Angelo in Vado sequestrata sabato scorso dagli inquirenti le risposte, seppur parziali, aprono le porte a nuove domande. Perché se l’indagine sul presunto abuso su minore era aperta già dal 2023 la perquisizione alla ricerca di tracce biologiche, con un maxi dispiegamento di forze da parte della scientifica di Ancona, è stata fatta solo sabato scorso, sei mesi dopo la segnalazione che ha dato il via all’inchiesta? I poliziotti hanno passato al setaccio un appartamento in vendita, di proprietà di don Roberto Pellizzari, sacerdote 63enne tutt’ora sospeso in via cautelare dalla curia svizzera a seguito della segnalazione fatta partire dal Vescovo Salvucci al suo omologo elvetico e al Dicastero ecclesiastico.

Tra l’altro la carriera di don Pellizzari aveva già attraversato dei momenti difficili: nel dicembre 2012 era già stato sospeso da monsignor Morerod per aver danneggiato finanziariamente, come riportava la stampa svizzera, le due parrocchie di cui era responsabile. Era stata presentata una denuncia penale per appropriazione indebita di fondi, diverse migliaia di franchi. Il tribunale del cantone di Vaud lo aveva condannato a 150 giorni di multa sospesa e gli aveva imposto di pagare quasi 8mila franchi svizzeri di spese. Nel dicembre 2013, tuttavia, la sua sospensione era stata revocata dalla diocesi dopo che aveva restituito il denaro.

Ma torniamo all’inchiesta recente. L’appartamento sequestrato è stato svuotato del mobilio a inizio 2023 dopo che, almeno dal febbraio 2022 il sacerdote aveva deciso di rimettere in vendita l’immobile a seguito della sua decisione di tornare in Svizzera. Aveva trascorso in Italia i 3 anni precedenti per accudire l’anziana madre malata, deceduta nel 2022, e che dal 2020 si trovava in una casa di riposo del paese. Appartamento vuoto, pure riverniciato, disponibile alla visita di potenziali clienti e di proprietà di qualcuno che già allora era oggetto di indagine. Perché sequestrarlo ora e non allora?

Andiamo con ordine e rimettiamo in fila i pezzi della storia in ordine cronologico. Venerdì 29 settembre, il procuratore di Neuchâtel Pierre Aubert ha comunicato alla stampa svizzera di aver "recentemente ricevuto informazioni relative ad atti di natura sessuale che sarebbero stati commessi all’estero da un sacerdote domiciliato nel cantone di Neuchâtel". Questo è ciò che si legge nell’articolo su "Le nouvelliste", la diocesi è quella di Urbino e i presunti fatti sono, appunto, quelli di Sant’Angelo in Vado. Da cosa è scaturita ora la necessità di non inquinare eventuali prove che potrebbero essere racchiuse tra le mura di quella casa? Del resto si sta procedendo verosimilmente d’ufficio, ossia in assenza di un esposto di natura penale da parte di una presunta vittima ma sulla base, come ha comunicato in una nota ufficiale la diocesi di Urbino, da una segnalazione di un caso di abuso su minore effettuata tramite lo sportello di ascolto nell’ambito del servizio di tutela dei minori e delle persone adulte vulnerabili.
view post Posted: 19/4/2024, 08:22 Taranto. Minore abusata in oratorio. Prete 56enne a processo: "sapeva e non intervenne" - La stanza del peccato
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Condannato per le molestie a una minore. ll prete non parlò, va a giudizio

Giovedì 18 Aprile 2024, 23:04 - Ultimo aggiornamento: 19 Aprile, 07:56

Si è concluso con la condanna a sette anni di reclusione il procedimento con il rito abbreviato che ha visto alla sbarra un 47enne originario della provincia di Taranto, finito nei guai con la pesantissima accusa di aver abusato sessualmente di una minore. La vittima, all’epoca dei fatti contestati, era ospite di una casa alloggio situata nel territorio jonico. Una vicenda per la quale sotto processo è finito anche un sacerdote accusato di non aver riferito al pm quello che sapeva di questa brutta storia, opponendo il segreto confessionale. Con queste decisioni, quindi, il gup ha definito lo sconcertante vicenda sulla quale si sono accese le luci della procura.

La sentenza di condanna è stata pronunciata dal giudice Fulvia Misserini al termine del giudizio abbreviato che ha visto imputato il 47enne. Lo stesso magistrato ha decretato il rinvio a giudizio per il secondo imputato del procedimento, un sacerdote della stessa comunità alloggio che è finito sotto accusa con la contestazione di false informazioni. Accuse formulate dal pubblico ministero, Vittoria Petronella, titolare dell’inchiesta che aveva definito la sua indagine con la richiesta di processo per entrambi gli imputati. La pm Petronella, al termine della sua requisitoria in camera di consiglio, aveva chiesto nove anni di reclusione per il presunto pedofilo che grazie al rito alternativo si è assicurato la riduzione di un terzo della pena. L’inchiesta è partita da una querela presentata dai genitori della minore, all’epoca dei fatti tredicenne, che denunciavano le attenzioni morbose di un adulto anche lui ospite dello stesso centro.


I fatti raccontati e confermati da altri volontari e dagli stessi dirigenti della comunità che avevano chiesto l’allontanamento dell’inquisito, si sarebbero verificati nel dicembre del 2021.
Le accuse
Gli episodi per i quali il pubblico ministero aveva chiesto il rinvio a giudizio, consistevano nell’insistenza dell’uomo il quale, abusando dell’inferiorità fisica della ragazzina, l’avrebbe costretta «a subire atti sessuali – si legge nei capi d’imputazione a suo carico -, consistenti in palpeggiamenti sul sedere». In un’occasione, durante una visita di gruppo nel centro di Taranto, era accusato di aver fotografato e toccato il sedere della vittima. Questi ed altri atteggiamenti espliciti avevano convinto il magistrato inquirente a chiedere il processo per il 47enne difeso dall’avvocato Rita Ciccarese e per il sacerdote rinviato poi a giudizio. Quest’ultimo che ha affidato la sua difesa all’avvocato Martino Rosato, si sarebbe rifiutato di fornire informazioni opponendo il segreto confessionale riconosciuto ai ministri del culto cattolico. Secondo l’accusa, però, le informazioni apprese dall’uomo di chiesa che nell’organizzazione ricopriva il compito di assistente spirituale, non li avrebbe appresi in qualità di confessore del sospettato, ma nell’esercizio di un’attività di volontariato durante la quale sarebbe stato più volte messo al corrente degli atteggiamenti dell’indagato. Per l’avvocato Rosato che aveva chiesto il proscioglimento, il suo assistito avrebbe invece esercitato il suo ministero secondo precise regole del diritto canonico.
view post Posted: 18/4/2024, 09:19 Droghe e festini hard coi soldi dei fedeli. Patteggia e si spreta don Spagnesi - La stanza del peccato
www.iltirreno.it/prato/cronaca/202...hia-1.100508050

Prato, l’ex sacerdote diventato spacciatore dovrà restituire 123.180 euro alla parrocchia

Don Francesco Spagnesi

La sentenza civile, dopo la condanna penale, chiude il delicato caso di cui è stato protagonista don Francesco Spagnesi
18 aprile 2024

PRATO. A oltre due anni dalla sentenza del dicembre 2021 con la quale l’ex parroco della Castellina, don Francesco Spagnesi, è stato condannato a tre anni e otto mesi di reclusione per spaccio di sostanze stupefacenti, arriva un’altra sentenza, in questo caso civile, che lo condanna a restituire alla parrocchia dell’Annunciazione la somma di 123.180 euro. L’ha deciso alla metà di gennaio il giudice Elena Moretti nella causa intentata dalla parrocchia contro l’ex sacerdote, ridotto allo stato laicale nell’ottobre 2023 da papa Francesco. La somma è riferita al denaro sottratto alle casse della chiesa nelle annualità 2020 e 2021. Quei soldi, secondo quanto emerso nel processo penale, furono usati per acquistare sostanza stupefacente (la droga liquida Ghb) di cui Spagnesi era diventato dipendente insieme al suo compagno.
view post Posted: 18/4/2024, 09:12 Urbino. Don Roberto Pellizzari indagato per abusi su minore e nascosto in Svizzera - La stanza del peccato
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7 apr 2024
ANTONELLA MARCHIONNI

Prete indagato per abusi su minore, il vescovo di Pesaro: “La prima denuncia a noi"

Sant’Angelo in Vado, la villa del sacerdote perquisita dalla polizia. Inchiesta tra Italia e Svizzera per violenza sessuale su minore. L’Arcidiocesi: "Segnalazione fatta al nostro sportello di ascolto"

ARTICOLO: Villa sequestrata al sacerdote, spunta inchiesta su abusi sessuali: "A segnalarla fu il vescovo di Pesaro"

Pesaro, 18 aprile 2024 – I pezzi del puzzle sul giallo della villa dei misteri a Sant’Angelo in Vado si stanno lentamente componendo formando l’immagine che nessuno vorrebbe vedere: abuso sessuale su minore. E’ arrivata ieri mattina, infatti, la conferma da parte dell’arcidiocesi di Urbino, Urbania e Sant’Angelo in Vado, che fa capo, come quella di Pesaro, a monsignor Sandro Salvucci, riguardo il caso di presunta violenza sessuale che si sarebbe consumato nella piccola comunità vadese, anticipata ieri dal Carlino.

E’ la clamorosa svolta sul giallo della villa di via Piobbichese, di proprietà del sacerdote 63enne Roberto Pellizzari, attualmente residente in Svizzera a Le Locle, nel cantone Neuchatel.

Il sacerdote era tornato in Svizzera da un paio d’anni dopo averne trascorsi circa tre al fianco della mamma malata che accudiva nella villa insieme a una badante. Sabato scorso la Procura aveva disposto il sequestro della villa e gli agenti di polizia della scientifica di Ancona sono stati impegnati per molte ore ad effettuare rilievi nell’abitazione, alla ricerca di eventuali tracce biologiche.

La diocesi ha affidato ieri mattina alcuni chiarimenti sulla vicenda legata a doppio filo a quanto riportato nell’ottobre scorso dalla stampa elvetica. "L’arcidiocesi è stata raggiunta nei mesi scorsi, tramite lo sportello di ascolto nell’ambito del servizio di tutela dei minori e delle persone adulte vulnerabili, da una segnalazione di un caso di abuso su minore da parte di un sacerdote svizzero temporaneamente residente per motivi personali a Sant’Angelo in Vado".

E’ stato lo stesso arcivescovo ad avviare le procedure canoniche previste in questi casi e l’ha fatto immediatamente, senza temporeggiare. "L’Arcivescovo – si legge nella nota – ha subito segnalato la situazione al Dicastero per la Dottrina della Fede e ha contattato il Vescovo svizzero di Losanna, Ginevra, Friburgo".

L’arrivo di otto agenti della scientifica di Ancona, in tuta bianca e con gli strumenti tecnici per i rilievi, aveva gettato non poco scompiglio tra gli abitanti di Sant’Angelo in Vado che, da sabato, si chiedevano quale fosse il motivo di un simile sforzo investigativo. Da parte della procura di Urbino che ha avviato l’indagine e da parte del Commissariato le bocche erano più che cucite, meglio dire serrate.

L’arcidiocesi, tuttavia, ha deciso di far luce almeno in parte sul giallo rivendicando la propria ferma condanna di "ogni forma di abuso, specie se ne sono protagonisti uomini di chiesa". La diocesi ribadisce il proprio impegno a lavorare affinché possa essere fatta luce al più presto sui fatti "e si giunga a stabilire la verità e la giustizia per il bene delle persone coinvolte, con particolare attenzione alla presunta vittima. La nostra diocesi ha compiuto e compirà tutti gli atti previsti dalla legislazione vigente, in piena sintonia con il Dicastero per la Dottrina della Fede e con l’Autorità Giudiziaria civile. Si ribadisce che tali atti sono coperti dal segreto d’ufficio in considerazione della tutela del buon nome di tutte le persone coinvolte e della vigenza del principio giuridico di presunzione di innocenza fino a prova contraria".

E le conferme riguardo la vicenda arrivano anche dal procuratore generale svizzero del cantone di Neuchatel Pierre Aubert, contattato ieri dal giornalista svizzero Nicolas Willemin della testata "Le nouvelliste". La Procura svizzera, infatti, aveva ricevuto un messaggio dall’episcopato di Losanna, Ginevra e Friburgo, trasmesso dall’arcivescovado di Urbino, che la informava del sospetto che un sacerdote attualmente residente nel Cantone di Neuchâtel avesse commesso reati sessuali in Italia.

Il procuratore ha chiesto ulteriori informazioni alle autorità ecclesiastiche italiane, che gli hanno risposto di aver aperto un procedimento ecclesiastico interno. Aubert ha quindi comunicato alle autorità giudiziarie italiane che la Procura di Neuchâtel è a disposizione per eseguire eventuali richieste di assistenza reciproca.
view post Posted: 13/4/2024, 08:36 Don Giuseppe Bacchion, quasi 90 anni, a processo per abusi su 14enne - La stanza del peccato

Don Giuseppe Bacchion

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Il vescovo di treviso

www.ilgazzettino.it/nordest/padova...so-8052723.html

Molestie sessuali ad un ragazzino: sacerdote a processo
PADOVA
Sabato 13 Aprile 2024 di Marco Aldighieri
Il sacerdote è finito a giudizio. Qui il Tribunale di Padova
TREBASELEGHE (PADOVA) - L’accusa è pesante: violenza sessuale ai danni di un ragazzino di 14 anni. E il colpevole sarebbe un prete, don Giuseppe Bacchion, 89 anni nativo di Mirano e residente a Noale. Entrambi comuni veneziani e inseriti nella Diocesi di Treviso. Le indagini sono state condotte dai carabinieri coordinati dal pubblico ministero Sergio Dini. Il prelato, difeso dall’avvocato Niccolò Zampaolo del foro di Padova, l’altro giorno è finito davanti al Gup Laura Alcaro, e il giudice ha deciso di rinviarlo a giudizio. Le prove a suo carico sarebbero schiaccianti e come prevede la riforma Cartabia, è stato deciso di mandarlo a processo perchè le probabilità di una condanna solo alte.

I FATTI
L’episodio risale al 30 gennaio del 2023. Un pomeriggio due ragazzini si sono dati appuntamento sul sagrato della chiesa per giocare con gli skate. E mentre si divertivano accanto a loro si è fermata un’automobile, da dove è sceso l’anziano prete. I due adolescenti, senza minimamente sospettare quello che sarebbe accaduto di lì a poco, si sono fermati pensando che il conducente avesse bisogno di un’informazione. Invece nel giro di pochi minuti si è consumata la violenza sessuale. Il sacerdote avrebbe rivolto al ragazzino più piccolo, quello di soli 14 anni, alcuni apprezzamenti inequivocabili, allungando una mano e toccandolo nelle parti intime.
Lo studente ha immediatamente reagito scacciando la mano del religioso e, insieme all’amico, lo ha preso a male parole intimandogli di andarsene immediatamente e di lasciarli in pace. Cosa che il don avrebbe fatto, risalendo in auto e allontanandosi.

LA VENDETTA
La vicenda però non è finita lì. Poco dopo i due ragazzi hanno riconosciuto, parcheggiata lungo la strada in paese, l’auto del prete e hanno colpito con dei calci una portiera. Il sacerdote, che era poco distante, li avrebbe quindi raggiunti chiedendo di smettere e tentando di giustificare e minimizzare quanto accaduto poco prima. Questo secondo il racconto, poi fornito dallo studente agli uomini dell’Arma.

LE INDAGINI
Dopo una nuova breve discussione i due ragazzini sono rientrati a casa e il 14enne, ancora molto scosso, ha raccontato tutto ai genitori. Poco dopo, accompagnato dal padre, si è presentato nella caserma dei carabinieri per la denuncia. Il racconto dello studente è stato subito ritenuto credibile dagli inquirenti. E così sono scattate le indagini. Ma a incastrare don Bacchion, secondo l’accusa, sono state alcune immagini registrate dalle telecamere della videosorveglianza della parrocchia dove era ospitato.
Gli occhi elettronici lo avrebbero immortalato proprio mentre toccava nelle parti intime il ragazzino. Secondo la ricostruzione dei fatti, sarebbe arrivato a Trebaseleghe per fare visita ad alcuni amici, ma in paese non è conosciuto.
Bacchion è stato ordinato parroco il 24 giugno del 1960. Attualmente dimora in una casa di riposo e il prossimo 13 di agosto spegnerà 90 candeline. Il 5 ottobre di quattro anni fa nella parrocchia di Zeminiana e San Dono di Massanzago era stata celebrata una messa per festeggiare i sessant’anni di sacerdozio proprio di don Giuseppe Bacchion.

Ultimo aggiornamento: 08:39

https://nuovavenezia.gelocal.it/venezia/cr...adova-14220852/

Violenza sessuale a un 16enne. Parroco rinviato a giudizio
Le telecamere davanti alla chiesa hanno ripreso le immagini del palpeggiamento al ragazzino

CARLO BELLOTTO
13 Aprile 2024 alle 07:35

Edited by GalileoGalilei - 13/4/2024, 10:23
view post Posted: 11/4/2024, 12:30 Diocesi di Sorrento e Ischia. Parrocchiani e Comune difendono diritto di patronato - Attualità
www.ilgiornaledivicenza.it/territo...aesi-1.10673847

Asiago, i capifamiglia eleggeranno il parroco. È lo "Jus Patronatus"
Gli asiaghesi sceglieranno l’arciprete in una lista di candidati fatta dal vescovo. Unico caso nella diocesi di Padova e sull'Altopiano
10 aprile 2024

Don Roberto col vescovo Cipolla. Il parroco lascia Asiago dopo 18 anni
Non ci saranno solo le elezioni amministrative ed europee nei prossimi mesi per gli asiaghesi. I cittadini di Asiago sono infatti chiamati alle urne anche il 26 maggio per eleggere il nuovo parroco. L’attuale arciprete don Roberto Bonomo si ritira per sopraggiunti limiti d’età e dopo 18 anni alla guida della comunità cristiana locale e quindi, come vuole la procedura dello “Jus Patronatus”, i capifamiglia del capoluogo altopianese e gli aventi di uso civico saranno chiamati a eleggere il nuovo parroco.

Il nuovo parroco di Asiago votato dai capifamiglia
La votazione viene preceduta dalla presentazione in consiglio comunale dei candidati ad arciprete di Asiago da parte del vescovo, o di un suo delegato. Successivamente il Consiglio comunale, attraverso il prefetto, indice delle consultazioni cui vengono invitati tutti i capifamiglia, voto a scrutinio segreto. L’elezione sarà valida solamente se il candidato scelto dal vescovo di Padova, mons. Claudio Cipolla, raggiungerà la maggioranza assoluta dei voti favorevoli.

Una volta che i capifamiglia raggiungeranno la maggioranza, la procedura del diritto patronale prevede che il sacerdote scelto si presenti alla comunità e in quel momento firmi il contratto stilato dal Comune, divenendo difatti un dipendente comunale. Il contratto prevede, tra le altre cose, il dovere del prelato a visitare i malati, benedire le case, eseguire le rogazioni e dire messa almeno due volte al giorno. Il Comune, dal canto suo, dovrà provvedere ai bisogni del sacerdote fornendogli una casa, viveri, un salario ed eventualmente anche un mezzo per raggiungere i bisognosi di conforto spirituale.

Asiago è l’unica parrocchia dell'Altopiano in cui vige lo "Jus Patronatus"
Asiago è l’unica parrocchia della diocesi di Padova, e tra le poche in Italia, in cui vige ancora il giuspatronato comunitativo, istituto che perdura dal 1580, data in cui vene concesso ad Asiago dal pontefice Gregorio XIII. L’avvicendamento del parroco alla guida della comunità prevede questa particolare procedura oggi inconsueta ma presente in molte realtà nel passato. Tutti i Comuni altopianesi avevano questo diritto ma poi negli anni ’40 e ‘50 i capifamiglia hanno deciso di rinunciarvi e solo Asiago ha mantenuto il diritto.

Una procedura che risale al XIV secolo
«Le sue radici risalgono al XIV secolo e si legano ai concetti di proprietà delle chiese e al loro mantenimento comprensivo del sostentamento del parroco da parte della comunità che doveva persino fornirgli il cavallo per poter raggiungere gli angoli più remoti della parrocchia - spiega lo storico Emanuele Cunico -. A tutt’oggi il mantenimento e la gestione di spesa ordinaria e straordinaria del duomo dedicato a San Matteo è a carico delle casse comunale; così come il parroco risulta “dipendente” del Comune in quanto stipendiato dalla comunità».
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