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"Muccioli gay morto di AIDS". I figli querelano Netflix, "Fece fare i test HIV a S. Patrignano ma non avvertì i 150 contagiati"

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view post Posted on 1/12/2021, 11:46

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"Fece il test HIV a S. Patrignano ma non avvertì 1/3 dei contagiati della comunità"

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www.ilprimatonazionale.it/cronaca/...sualita-188594/

Muccioli, figli querelano Netflix per “SanPa”: “Allusioni su morte per Aids e omosessualità”
Di Adolfo Spezzaferro -7 Aprile 2021

Roma, 7 apr – I figli di Vincenzo Muccioli querelano Netflix per la serie “SanPa“: Andrea e Giacomo difenderanno la memoria del padre dalle allusioni in merito alla presunta morte per Aids e alla sua presunta omosessualità. La querela per diffamazione aggravata contro la società Netflix per la docuserie “SanPa. Luci e tenebre a San Patrignano” riapre la polemica sulla produzione che ha spaccato ancora una volta il Paese, a distanza di 26 anni dalla morte di Muccioli. Serie in cui il fondatore della più famosa comunità di recupero per tossicodipendenti d’Europa viene dipinto come violento e misogino. La ricostruzione dei fatti è distorta, parziale e tendenziosa, sostengono i figli di Muccioli assistiti dall’avvocato Alessandro Catrani. A riportare la notizia è il Corriere Romagna.



I figli di Muccioli querelano per diffamazione Netflix per le allusioni alla presunta morte per Aids e alla sua presunta omosessualità
Al centro della querela per diffamazione le allusioni e bugie come la presunta morte per Aids di Muccioli da ricondurre a una sua presunta omosessualità. La querela è stata presentata nei giorni scorsi ai carabinieri ed è appena arrivata in procura. Il legale dei figli di Muccioli fa presente inoltre che sono da valutare anche eventuali profili di responsabilità da parte della piattaforma di streaming relativi alla privacy.

Nella serie anche un’intervista ad Andrea Muccioli
La docuserie di Netflix riporta anche lunghi stralci di una intervista ad Andrea Muccioli, che ha preso il posto del padre alla guida di San Patrignano fino al 2011. La produzione gli aveva assicurato un punto di vista equidistante nell’affrontare la storia della comunità e del suo fondatore, in cui sarebbero emersi l’impegno e la figura di alto profilo del padre. Invece così non è stato e Andrea e suo fratello Giacomo ora intendono difendere in tribunale la memoria paterna.

All’uscita della serie la comunità di San Patrignano si è dissociata: “Ricostruzione unilaterale, basata su testimonianze di detrattori”
C’è da dire che all’uscita della docuserie, il 30 dicembre 2020, anche la comunità di San Patrignano si è “completamente” dissociata dalla produzione Netflix, definendo la ricostruzione dei fatti “unilaterale”, “sommaria e parziale”, con una narrazione basata “in prevalenza” su “testimonianze di detrattori”. La serie, in cinque puntate di circa un’ora l’una, lascia intendere la sua impostazione di parte fin dalle prime parole del “testimone chiave” Walter Delogu, ex tossicodipendente e autista di Muccioli a San Patrignano.

Adolfo Spezzaferro

https://torino.corriere.it/cronaca/21_nove...html?refresh_ce
Fabio Cantelli: «Io e l’Hiv viviamo dall’85 in una specie di simbiotica convivenza»
di Fabio Cantelli Anibaldi
«Sono un long term survivor. Feci il test insieme a tutti gli altri ospiti di San Patrignano. Il mio maestro è stata la malattia, io ho avuto solo il merito di ascoltarne la lezione. Questa è la mia storia»

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Da adolescente sognavo di «vivere ad altezza di morte», come esortava Georges Bataille. Vivere con una morte clemente e, di fatto, inoperante è ciò che il destino mi ha finora riservato. Sono stato molto fortunato, ma la fortuna si accompagna da sempre a un senso d’ingiustizia, d’immeritato privilegio: «perché non io?» mi capita ancora di chiedermi.

Sono positivo al virus Hiv almeno dal 1985, quando venni sottoposto a un esame insieme a tutti gli ospiti di San Patrignano. Allarmato dalle notizie che venivano dall’America, Vincenzo Muccioli aveva voluto capire come stessero le cose in comunità. Risultò positivo al virus circa un terzo degli ospiti, centocinquanta persone, ma Vincenzo decise di non rivelare l’esito di un esame spacciato come un normale controllo dello stato di salute, nonostante dopo il prelievo del sangue fossimo stati sottoposti a un’indagine per tutti inedita e un po’ imbarazzante: un tampone anale. Vincenzo aveva deciso di nasconderci il risultato dell’esame perché all’epoca dire a una persona che era sieropositiva era come dirle di prepararsi a una morte rapida e dolorosa. Avrebbe dunque deciso lui i modi e i tempi per comunicarlo a ciascuno di noi, a seconda della nostra capacità di reggere l’urto, nella speranza che il soggiorno in comunità ci avrebbe reso più forti e che, nel frattempo, la medicina trovasse un rimedio al terribile male. Me lo disse quattro anni dopo, una domenica della primavera del 1989.

A chi reputa inammissibile questo ritardo rispondo che fu causato da un eccesso di amorevole tutela, come quella di certe madri. Dal 1985 continuavo infatti a essere asintomatico e tutte le volte che capitava d’incontrarci quando tornavo i fine settimana da Bologna – dove vivevo nella casa affittata per gli studenti universitari – Vincenzo mi vedeva stare bene nel corpo e nell’anima: prendevo trenta e lode agli esami di filosofia e avevo persino ricominciato a giocare a basket. «Glielo dirò la prossima volta» avrà pensato vedendomi sereno, salvo che, di volta in volta, passarono i mesi e gli anni, e quando quella domenica dell’89 mi prese da parte per dirmi di aver deciso di esonerare gli ospiti sieropositivi dall’assistenza ai malati di Aids – sicché avrei potuto da quel giorno dedicarmi solo ai miei studi – mi parlò come se sa-pessi già di essere sieropositivo, e sospetto che in qualche modo si fosse convinto che davvero lo sapessi, in modo che non fosse più necessario dirmelo o, nel caso lo fosse, mascherarlo come in quel caso da tutela nei miei riguardi. L’autoinganno, nella mente umana, può arrivare a tali acrobatici, virtuosismi…

Quel giorno il mondo mi crollò addosso, ma più che per me stesso l’angoscia fu per una ragazza incontrata un anno prima durante una “licenza premio” a Milano, con la quale avevo avuto rapporti sessuali non protetti. L’ipotesi di essere stato, sia pur inconsapevolmente, un veicolo di contagio era per me molto più angosciante dell’essere ormai a un tempo supplementare di vita, e questo scivolare per forza di cose in secondo piano fu, credo, decisivo nell’impostare un giusto rapporto con la malattia. Saputo infatti di non aver contagiato la mia ragazza decisi di andare via da Sanpa per vivere con lei la vita residua e poi di non fare come i tanti ragazzi della comunità che avevo visto morire durante i quasi tre anni di assistenza al reparto “infettivi” dell’ospedale Maggiore di Bologna, assistenza che noi studenti avevamo deciso di garantire giorno e notte per farli sentire meno soli.

Quei ragazzi arrivavano infatti in «Aids conclamato» ma le loro condizioni generali non facevano pensare a una malattia mortale: si nutrivano e camminavano da soli, sia pure con sforzo, giocavano con noi a carte o discutevano di calcio, di basket, delle top model ritratte sulle riviste patinate. E soprattutto volevano la tv sempre accesa su «Videomusic», il primo canale in Italia a trasmettere solo videoclip. Tale “routine” poteva andare avanti per settimane e a volte mesi, finché non si manifestava una di quelle che i bravi ma impotenti medici del Maggiore chiamavano «infezioni opportunistiche». Mali che ricordavano bruscamente ai pazienti il motivo per cui erano lì e mutavano la loro relativa serenità in una serra-ta, angosciata resistenza, a cui il virus rispondeva passando dal fioretto al bazooka e portando a termini in pochi giorni l’opera.

L’ho ancora ben impressa quella spaventosa prova di efficienza: ai malati s’imbiancavano le ciglia e la pelle diventava trasparente. Nel contempo smettevano di parlare e, lo sguardo perso nel vuoto, ci facevano cenno di spegnere il televisore e abbassare un po’ le tapparelle. Luce e musica: segni troppo evidenti della vita che li stava lasciando. Sicché quando, nel luglio dell’89, decisi di andare via da Sanpa e vivere come desideravo la vita che mi restava, pensai: «Quando arriverà non fare l’errore di resisterle: la malattia è parte di te. Non volevi una vita ad altezza di morte? Eccoti accontentato: la malattia devi accettarla, ospitarla, viverla. Solo così avrai speranza non solo di vivere più a lungo ma di vivere bene anche in mezzo al male».

È stato un momento per me decisivo perché, da allora, ho cercato di rapportarmi così alla vita nel suo insieme, cercando in ogni evento difficile o avverso un’occasione di conoscenza e di consapevolezza, dunque di vita.

«Il mio maestro m’insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire» cantava Battiato in «Prospettiva Nevskij»: il mio maestro è stata la malattia, io ho avuto solo il merito di ascoltare la sua lezione. Beninteso, è stato un cammino lungo e ancora lungi dall’essere concluso. Un cammino compiuto attraversando regioni gelide e deserte.

Nei primi anni Novanta – mentre nella lista di milioni di morti comparivano nomi amati come quelli di Rudolf Nureyev, Bruce Chatwin, Freddy Mercury, Keith Haring, Robert Mapplethorpe – si officiavano a Sanpa anche due funerali alla settimana. E a ogni amico perduto la stessa domanda: «quando arriverà il mio turno?». Poi, il 9 aprile ’95, la perdita straziante di Cristina, la prima fidanzata, la fidanzata dell’adolescenza, età iniziatica in cui si manifesta la fame d’infinito che sta alla base dell’incontro con la droga. Ed ecco quel giorno l’altra domanda – «perché lei e non io?» – erompere lacerante. E infine Vincenzo Muccioli, il 19 settembre: anche lui morto di Aids, credo, nonostante il reticente silenzio che avvolse la sua morte. Morte che, lungi dall’essere ignominiosa, mi parve il nobile epilogo di una vita in trincea, la vita di un uomo che aveva vissuto per noi e con noi.

La svolta per tutti, e anche per me, fu la messa in commercio degli antiretrovirali, alla fine degli anni 90. Farmaci che potevano rallentare il virus, in certi casi arrestarlo. Quando cominciai a prenderli già vivevo a Torino da qualche anno, seguito dagli infettivologi dell’Amedeo di Savoia. Ne ho cambiati sei in venticinque anni: tutte donne. Ne voglio citare tre, straordinarie per competenza, umanità e grazia: Caterina Bramato, Letizia Marinaro e l’attuale, Laura Trentini. La sensibilità di un medico è parte integrante della cura.

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Concludo. Si direbbe che io e il virus siamo arrivati a una sorta di simbiotica convivenza. Da anni lui dorme in me: «carica virale» zero. Evidentemente si è trovato bene e ha cominciato a familiarizzare col mio organismo mentre io cercavo di familiarizzare con una vita appesa a un filo. Chissà se quello del Covid, arrivando nei paraggi, abbia trovato un cartello: «occupato, si prega di cercare altrove». Tecnicamente sono uno di quelli che gli americani chiamano: «long term survivors». Concretamente uno che ha capito che, malati o meno, se si riesce a «vivere ad altezza di morte» è possibile morire compiuti, dicendo le parole che pare abbia pronunciato un uomo tormentato come Wittgenstein prima di spirare: «Dite a tutti che ho avuto una vita meravigliosa».


www.donnemagazine.it/vincenzo-muccioli-omosessuale/
Vincenzo Muccioli omosessuale e morto di Aids: la verità
Vincenzo Muccioli, fondatore di San Patrignano, era omosessuale? La verità.
Vincenzo Muccioli, il cui nome è tornato in auge grazie alla docu-serie Netflix “SanPa”, è stato un imprenditore italiano, nonché fondatore della Comunità di San Patrignano. Negli anni, sulla sua figura sono state dette molte cose e, talvolta, anche la sua omosessualità è finita al centro del chiacchiericcio.

Pertanto, la domanda sorge spontanea: l’uomo, seppur sposato con una donna e padre di due figli, era gay?

Vincenzo Muccioli era omosessuale?
Fondatore della Comunità di recupero di San Patrignano, nata nel 1978, Vincenzo Muccioli è una figura che, negli anni, è stata molto discussa. Qualcuno lo ha visto e continua a vederlo come un salvatore, mentre altri come un grande truffatore. Al centro dell’attenzione mediatica, oltre che al suo lavoro, è finita anche la sua vita privata.


Sposato con Maria Antonietta Cappelli dal 1962 e padre di due figli, Vincenzo è stato talvolta descritto come omosessuale. A distanza di anni, pertanto, la domanda che molti si pongono è una: Muccioli era davvero gay? La risposta, stando a quanto dichiarato dalla famiglia, sembra negativa.

A San Patrignano, per lo meno ai tempi di Muccioli, “non c’era completa libertà sessuale“: questo è quanto riportano alcuni testimoni nella docu-serie Netflix. Vincenzo è descritto come un “gran misogino“, che vietava “storielline rosa” all’interno della sua comunità.


Detto ciò, non si può assolutamente affermare con certezza che fosse gay. Tra l’altro, è bene sottolineare che la famiglia del fondatore di SanPa ha sempre smentito le voci riguardanti una sua presunta omosessualità.

Vincenzo Muccioli aveva l’Aids?
Il fondatore di San Patrignano è morto il 19 settembre del 1995 nella sua villa di Rimini. Ad oggi, non si conoscono le cause del decesso, ma è probabile che sia legato all’aggravarsi dell’Epatite C. All’epoca della sua scomparsa, infatti, il Corriere della Sera aveva scritto che la morte poteva essere legata alla sua positività all’Aids, contratta per aver trascorso molto tempo con ragazzi malati o sieropositivi.

“Aggravamento dovuto a un’epatite C, non sono dissipati i dubbi che avesse contratto l’AIDS per contagio da malati accolti nella comunità”, questo scriveva nel 1995 il Corriere della Sera.

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