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Il vescovo di Alessandria e il peccato contro natura, Gli effetti nefasti del sesso anale: col figlio unico rimpiangerete i vostri figli morti. Sui preti e seminaristi invece nessun problema

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view post Posted on 19/11/2019, 17:57

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Gli effetti nefasti del sesso anale sui coniugi. Sui preti e seminaristi invece nessun problema

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Il fumetto Contro natura

Da una lettera ai fedeli scritta dal vescovo di Alessandria Nicolao Milone il 20 febbraio 1945.

Mentre nel nord Italia impazzava la guera civile e si consumavano le immani tragedie della II guerra mondiale e dello sterminio dei campi di concentramento, il vescovo si soffermava sui peccati di Adamo ed Eva, sull'arca di Noè e sui peggiori peccati che possa commetere l'uomo, tra i quali il peccato contro natura, usato dai coniugi per fini anticoncezionali. Questo per spiegarci l'origine del male.

Nel cumulo di cazzate sparate da questo vescovo (che ancora nel 1943 datava le sue lettere con l'era fascista), c'è quella che è la giusta punizione divina contro il peccato contro natura: la morte del figlio unico.


Tutto questo per spiegare ai cittadini di Alessandria che se la guerra si portava i loro figli era perché avevano la colpa di aver fatto sesso anale e che il suo Dio tanto buono non faceva che attuare una specie di legge del contrappasso.



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Lettera Pastorale

per la Quaresima 1945

di S. E. Mons. Nicolao Milone

Per grazia di Dio e della Santa Sede Apostolica

Vescovo di Alessandria e Conte

Abbate dei SS. Pietro e Dalmazzo






il perchè del dolore





Al Venerabile Clero

ed ai dilettissimi figli della città e della diocesi

salute e benedizione nel Signore




Il peccato di Adamo

Riconosciamo prima di tutto questa grande verità. Il dolore che tanto tormenta e tanto strazia la nostra vita qui su questa terra non ha propriamente fin dal suo principio Iddio per autore, il quale, avendo creato l’uomo, nella sua bontà infinita non ha avuto certamente l’intenzione di metterlo in questo mondo a soffrire.

Leggiamo infatti nelle prime pagine della Sacra Scrittura che quando Iddio creò il primo uomo, Adamo, e la prima donna, Eva, li collocò nel Paradiso terrestre, il luogo cioè di delizie, Paradisum voluptatis, come lo chiama il sacro testo, dove il dolore e le afflizioni non sarebbero mai venuti a tormentarli. Sono stati essi i nostri primi genitori che in castigo del loro peccato si meritarono di essere scacciati da questo posto di felicità.

Voi tutti conoscete quale sia stato questo peccato. “Mangia pure, aveva detto il Signore ad Adamo, di tutti i frutti del Paradiso terrestre, ma non toccare quelli dell’albero della scienza del bene e del male che si trova in mezzo del Paradiso: nel giorno in cui ne mangerai, morrai”. Cedendo alla istigazione del demonio, Adamo ed Eva, si sono cibati del frutto proibito contro l’espresso comando di Dio.

E qui notate, o Fratelli e Figliuoli, la gravità di quel loro peccato; non soltanto di un peccato di disubbidienza a Dio, ma un peccato di ribellione al suo comando; fu ancora un peccato di superbia, perché mangiando di quel frutto, aspiravano ad essere come Iddio, secondo quello che aveva loro detto il demonio: “Eritis sicut dii”: “Sarete come tanti dei”; un peccato di infedeltà, perché non cedettero a Dio, ma al demonio, un peccato di golosità, perché Eva spiccò il frutto vedendolo bello e giudicandolo gustoso, per cui ne mangiò essa e ne porse pure ad Adamo a mangiare.

S. Agostino aggiunge che questo peccato è anche stato un peccato di malignità verso Dio e lo deduce dalle parole con cui Adamo ha cercato di scusarsi. Come sapete, Eva si scusò sul serpente: “Serpens decepit me”: “Il serpente mi ha ingannata” (Gen 3, 15). Adamo si scusò su di Eva non solo, ma al giusto rimprovero del Signore rispose: “Mulier, quam dedisti mihi sociam, dedit mihi de ligno et comedi”: “Il frutto che ho mangiato me lo diede la donna che Voi stesso mi avete data per compagna” (Gen 3, 12): quasi dicesse: “Vedete, o Signore quale sorta di compagna mi avete messo al fianco a tentarmi: se me ne aveste data un’altra meno tentatrice, io non avrei prevaricato”. Invece di chiamare perdono del suo peccato, vorrebbe farne risalire la colpa a Dio stesso.

Ma Iddio, giustamente sdegnato di quel peccato cacciava i nostri primi genitori dal Paradiso terrestre, li condannava a guadagnarsi con il sudore della fronte, a lavorare la terra convertita per causa loro in triboli e spine e li assoggettava alla morte ed alle tante afflizioni e miserie che l’accompagnano.

Se adunque al presente noi sulla terra siamo provati dalle tribolazioni è perché siamo figli di un padre che da se stesso si è messo sulla strada del dolore; imperocché, come Adamo ci avrebbe trasmesso la sua vita beata e felice se non si fosse macchiato col peccato e così, commessa la colpa, ci ha trasmesso invece le miserie e le afflizioni a cui venne condannato, precisamente come il ricco signore, che ha dilapidato tutto il suo vistoso patrimonio, non lascia ai suoi figliuoli che povertà e miseria.

Il peccato di Adamo, ecco dunque la prima causa del dolore.

Tuttavia, o Fratelli e Figliuoli, non facciamo tanto presto a gettare su Adamo ed Eva, i nostri primi genitori, tutta la causa del dolore che affligge la nostra vita: il dolore ha un’altra causa a noi ben più vicina e che dal più al meno tutti quanti ci riguarda. Questa causa sono:

b) i nostri peccati

Si legge nella Sacra Scrittura che quando i figli del Patriarca Giacobbe, venuti in Egitto per comperare il grano, si videro trattati aspramente, considerati come spie e come tali rinchiusi in carcere, ripensando al fratello Giuseppe che essi avevano venduto e che era stato condotto schiavo in Egitto, andavano ripetendosi l’uno all’altro: “Merito haec patimur, quia peccavimus, in fratrem nostrum”: “Con ragione noi soffriamo tutto questo, perché peccammo contro il nostro fratello: è per questo motivo che venne sopra di noi questa tribolazione”: “Idcirco venit super nos ista tribulatio” (Gen 42, 21).

Sono queste parimenti le parole che ben soventi devono ripetere i peccatori fra le strette del dolore: “Merito haec patimur”, con ragione dobbiamo soffrire questo, perché abbiamo peccato contro il nostro fratello, Gesù: siamo noi stessi la causa del nostro dolore.

Sì, o Fratelli e Figliuoli, tanti mali che affliggono la vita dell’uomo sulla terra non è propriamente Iddio che li manda, ma è l’uomo che se li fabbrica da se stesso: coi suoi peccati, con le sue mancanze, colla negligenza dei suoi doveri, coi suoi sbagli a bella posta, coi suoi disordini è egli stesso la causa dei suoi dispiaceri, delle sue disgrazie, delle sue malattie, delle sue afflizioni: è egli medesimo che semina di spine il sentiero di sua vita. Perché dunque lagnarsi di Dio nelle sue afflizioni, o non piuttosto incolparsi da se stesso?

Così ad esempio, quella che adesso tanto piange e si lamenta di Dio è una giovane sposa, la quale alla corona di rose con cui è stata incoronata nel giorno del suo sposalizio, si è vista sostituire ben presto una corona di spine per opera del compagno stesso di sua vita, che non soltanto si mostra freddo ed indifferente con lei, ma l’insulta di continuo, la maltratta, le manca persino di fedeltà. Povera sposa, sei veramente da compiangere! Ma perché adesso pigliartela per questo contro Dio? Anzi Iddio nella sua bontà ti aveva avvisata per mezzo dei tuoi genitori, per mezzo di quella persona amante del tuo vero bene che quello sposo non faceva per te perché senza fede e senza cuore: ma tu, spinta dalla passione, hai fatto nessun caso di quegli avvisi e col pretesto di essere già maggiorenne, hai voluto fare da te, sei andata avanti nella relazione ed hai finito di sposarlo. Perché adunque adesso te la prendi con Dio, che non voleva il tuo matrimonio? Prendila invece con te stessa e dì pure: “Mea culpa”: “La colpa è tutta mia”.

Così pure questa che ora tanto piange in silenzio e vive in angoscia ognor crescente è una giovane disgraziata che, cedendo al suo seduttore e da lui abbandonata, vede avvicinarsi il giorno in cui non potrà più tenere nascosto il suo fallo e verrà da tutti conosciuta la perdita del suo onore. Sì, figliuola sei proprio da compiangere: ma qual colpa ne ha Iddio della tua disgrazia? Ti troveresti adesso in queste pene, se avessi ubbidita la tua mamma che ti voleva ritirata in casa e che ti aveva proibite certe cattive compagnie?

Ancora, quelli che ora cotanto si affliggono sono due vecchi genitori i quali dalla loro famiglia, invece di aiuto e di rispetto, non ricevono che noncuranza, abbandono, maltrattamenti, disprezzo. Sì anche voi siete molto da compiangere nella vostra età avanzata: ma, se quando i vostri figli erano ancora in tenera età aveste cercato di allevarli nel santo timor di Dio, se da voi, invece di una cristiana educazione non avessero avuto che cattivi esempi, vi trovereste forse in così dolorose condizioni? Proprio vero quel che dice il proverbio: “Chi semina vento, raccoglie tempesta”, e voi nel cuore dei vostri teneri figli non solo non avete sparsa la buona semente, ma lasciativi liberamente germogliare i rovi e le spine.

Da ultimo colui che adesso tanto soffre e si lamenta è un povero infelice che, fornito un giorno di mezzi più che sufficienti alla vita, si trova al presente nella più squallida miseria, perché tutto ha scialacquato nei divertimenti, nel gioco, nei bagordi, nei vizi. Sì, o miserabile, anche tu in questo momento sei da compiangere; ma perché prendertela contro Dio che ti aveva dato il necessario e non piuttosto contro di te stesso, che hai tutto dissipato?

Il dolore adunque è molte volte una conseguenza del peccato, per cui basterebbe schivare questo per andare esente da quello; ben soventi però è un giusto castigo di Dio.

Iddio, Giustizia Infinita, non può sempre restare impassibile all’offesa che gli vien fatta col peccato. Se tante volte dissimula coll’uomo peccatore per dargli tempo al pentimento, “dissimulas peccata hominum propter poenitentiam”, come vien detto a Dio nel libro della sapienza (Sap 11, 24): qualche volta però dà mano al castigo, e il castigo è sempre causa di dolore. La Sacra Scrittura ne contiene tanti esempi a conferma.

Ai tempi di Noè, Dio sommerse nelle acque del diluvio tutti gli abitanti della terra, perché “omnis caro corruperat viam suam”: “tutti si erano abbandonati ad una vita corrotta” (Gen 6, 12). Fece discendere il fuoco dal cielo ad incenerire Sodoma e Gomorra, città della Pentapoli, per le tante disonestà che in esse si commettevano. Colpì di una schifosa lebbra Maria, la sorella di Mosè, per aver mormorato contro suo fratello. Aprì una voragine nella terra da ingoiare Core, Datan e Abiron per la loro ribellione ed incenerì con un fuoco divoratore i duecento cinquanta loro seguaci. Fulminò di morte subitanea Oza per aver mancato del debito rispetto all’arca santa. Punì Davide per la sua vanagloria con una terribile pestilenza che in soli tre giorni fece ben settantamila vittime. Castigò terribilmente Gerusalemme colla sua totale distruzione e colla dispersione come schiavi dei suoi abitanti per l’orrendo deicidio commesso.

La stessa cosa dobbiamo dire nella Nuova Legge: Iddio punisce coi castighi dolorosi le offese che si fanno a Lui. Se molte volte il peccatore può ripetere: “Peccavi, et quid mihi accidit triste?”: “Ho peccato, e che cosa mi è accaduto di male?” (Eccli 5, 4), è perché una mano pietosa ha trattenuto il braccio della divina Giustizia già pronto pel castigo. Noi sappiamo quale sia questa mano pietosa: è la mano dei Santi, nostri intercessori presso Dio; è quella specialmente di Maria SS. Madre di misericordia e Rifugio dei peccatori, come Lei stessa ci ha fatto conoscere.

Comparendo infatti là sulle montagne della Salette a Melania e Massimo, diceva loro, che quando il popolo non si fosse convertito, Ella sarebbe stata costretta a lasciar libero il braccio al suo Divin Figlio, giustamente irritato per le tante offese che riceve. Per questo raccomandava la penitenza, come pure raccomandava la penitenza, comparendo tanto a Lourdes come a Fatima, quale preservazione dei giusti castighi in causa del peccato.

Parlando di questi castighi, debbo ancora accennare a quei peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio, e che Iddio il più delle volte punisce.

Questi peccati, come avete studiato nel Catechismo, sono quattro, di cui il primo è l’omicidio volontario. In un tempo in cui pur troppo! si moltiplicano le uccisioni e in molti va scomparendo quel ribrezzo naturale che giustamente si è sempre provato per i fatti di sangue, è necessario proclamarlo altamente che solo Iddio e la sua suprema autorità, come ministra di Dio, hanno diritto di morte sugli uomini. Nessun altro può arrogarsi questo diritto e chi lo facesse andrebbe incontro al giusto castigo di Dio, tra cui quello ben noto: “Qui gladio ferit, gladio perit”: “Chi di spada ferisce, di spada perisce”.

Il secondo è il peccato impuro contro natura, e, senza parlare di altre nefandezze disoneste, di questo peccato si rendono colpevoli non pochi coniugi, che vorrebbero raccogliere tutte le rose del loro stato di vita senza punto averne le spine, per cui nei loro vicendevoli rapporti non si regolano conforme alle leggi stabilite da Dio. Con deliberato proposito vogliono il figlio unico: ma questo figlio unico sarà loro tolto da Dio o per malattia o per causa di guerra o di altro accidente ed essi si troveranno soli nella loro vecchiaia con il focolare domestico deserto. Piangeranno allora, verseranno amare lacrime, ma tutto inutilmente, perché non vi potranno rimediare.

Il terzo è l’oppressione dei poveri. Anche questo peccato ha uno speciale castigo da parte di Dio, perché il povero rappresenta il Figlio stesso di Dio, Gesù, il quale ha espressamente dichiarato nel Vangelo che ritiene come fatto a sé ciò che si fa all’ultimo dei poveri. “Quamdiu fecistis uni ex his fratribus meis minimis, mihi fecistis » : « Ogni volta che avete fatto qualche cosa ad uno dei più piccoli di questi miei fratelli, l’avete fatto a me » (Mt 25, 40). E oppressione del povero è anche il vederne, come si suol dire, a borsa nera, perché, mentre con essa si favorisce il ricco, si mette il povero nella impossibilità di acquistare il necessario.

Il quarto e ultimo è il defraudare la mercede agli operai. Chi commette questo peccato si merita parimenti un castigo speciale, perché per l’operaio questa mercede rappresenta il frutto dei suoi sudori, coi quali secondo il comando di Dio deve procacciarsi il pane per la vita: “In sudore vultus tui vesceris pane”: “Mangerai il pane col sudore della tua fronte” (Gen 3, 15). Siano perciò le benvenute tutte le disposizioni legislative della pubblica autorità con cui viene assicurata all’operaio la mercede che gli spetta senza pericolo di essere defraudata.

Il dolore infine ha ancora una terza causa, la quale, invece della giustizia di Dio, ci fa conoscere tutta la sua bontà a nostro riguardo: questa causa è il nostro maggior bene


Alessandria, 20 Febbraio 1945

† Nicolao Milone, Vescovo

Sac. Alessandro Benzi, Segretario
 
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