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Sui crimini italiani in Etiopia la Chiesa non ha chiesto mai scusa, Il massacro di Debrà Libanòs, la benedizione del cardinale di Milano all'impresa coloniale e la linea filo islamica ed anti copta di Graziani

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view post Posted on 26/10/2017, 09:34

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Il massacro di Debrà Libanòs, il sostegno cattolico all'impresa coloniale e la linea filo islamica ed anti copta di Graziani

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Impiccagioni in Etiopia

http://www.corriere.it/cultura/17_febbraio...574795707.shtml

FASCISMO
E Graziani massacrò i monaci etiopi
Ottant’anni fa la feroce strage di Debrà Libanòs che seguì l’attentato contro il viceré
italiano ad Addis Abeba. I responsabili di quelle atrocità non hanno mai pagato
di GIAN ANTONIO STELLA


«Feci tremare le viscere di tutto il clero, dall’Abuna all’ultimo prete o monaco», ringhiava quel macellaio di Rodolfo Graziani. Rimorsi? Zero: rivendicava anzi la strage di Debrà Libanòs, dove aveva affidato agli ascari islamici lo sterminio di tutti i preti e i diaconi del cuore della Chiesa etiope, come «titolo di giusto orgoglio». E giurava: «Mai dormito tanto tranquillo».

Sono passati ottant’anni, da quei giorni di orrore. Tutto inizia la mattina del 19 febbraio 1937. Ad Addis Abeba il viceré Graziani e le autorità italiane che da nove mesi governano un terzo del Paese e son decise a prendere il controllo del resto con ogni mezzo (compreso l’uso di 552 bombe caricate a iprite e fosgene autorizzate dal Duce, documenterà lo storico Angelo Del Boca), celebrano la nascita del primo figlio maschio di Umberto di Savoia. Improvvisamente, da un balcone raggiunto superando i controlli, piovono ed esplodono una dopo l’altra otto bombe a mano. Sette morti, decine di feriti. Tra cui Graziani, colpito da decine e decine di schegge.

La rappresaglia è immediata. E non avendo sottomano gli attentatori, fuggiti, si abbatte violentissima su chi capita. Coinvolgendo tutti i fascisti della città. «Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada», scrive nel diario il giornalista Ciro Poggiali. «Vedo un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente». Una carneficina. Racconterà il vercellese Alfredo Godio: «Fra le macerie c’erano cumuli di cadaveri bruciacchiati. Più tardi, sulla strada per Ambò, vidi passare molti autocarri “634” sui quali erano stati accatastati, in un orribile groviglio, decine di corpi di abissini uccisi». «Per ogni abissino in vista non ci fu scampo in quei terribili tre giorni», ricorderà l’attore Dante Galeazzi: «In Addis Abeba, città di africani, per un pezzo non si vide più un africano».
Deciso a farla finita coi ribelli a dispetto di ogni trattato, il Duce dà ordine che «tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi». Tutti. Compreso Destà Damtù, il genero di Hailé Selassié. Che importa dello sdegno internazionale? «E nello scroscio del plotone di esecuzione echeggiò la più strafottente risata fascista in faccia al mondo», esulta la «Gazzetta del Popolo». «Schiaffone magistrale (…) sulle guance imbellettate della baldracca ginevrina». Bilancio complessivo? Migliaia di morti. Compresi «cantastorie, indovini e stregoni», rei di auspicare il ritorno del Negus: «Ho ordinato che fossero arrestati e passati per le armi. A tutt’oggi ne sono stati rastrellati ed eliminati settanta» Il peggio, però, arriva a maggio. Quando Graziani decide di inviare il generale Pietro Maletti, di cui apprezza la cieca obbedienza, a spazzare via preti, diaconi, fedeli di Debrà Libanòs, l’amatissimo monastero fondato nel XIII secolo che considera «un covo di assassini, briganti e monaci assolutamente a noi avversi»: è convinto che i due bombaroli di Addis Abeba siano passati nella fuga proprio di lì.
Se sono veri i rapporti firmati da Maletti stesso, scrive Del Boca in Italiani brava gente? (Neri Pozza), in due settimane le sue truppe «incendiavano 115.422 tucul, tre chiese, il convento di Gulteniè Ghedem Micael (dopo averne fucilato i monaci), e sterminavano 2523 arbegnuoc». Patrioti nemici dell’occupazione italiana. «Era tale il terrore che diffondeva che l’intera popolazione si dava alla macchia».
Terrore comprensibile. Per garantirsi la ferocia belluina senza crisi di coscienza tra i soldati cattolici chiamati a massacrare i cristiani di una Chiesa etiope che aveva 17 secoli, spiega Angelo del Boca, il generale rinunciò «a servirsi dei battaglioni eritrei, composti in gran parte da cristiani, e utilizzava ascari libici e somali, di fede musulmana, e soprattutto — parole sue — “i feroci eviratori della banda Mohamed Sultan”».
Il generale e i suoi macellai di fiducia circondarono il complesso la sera del 19 maggio, festa di San Michele, presero prigionieri tutti e, ricevuto l’ordine del viceré Graziani di passare per le armi «tutti i monaci indistintamente compreso il vice priore», cercarono il posto giusto per la mattanza. La scelta cadde sulla piana di Laga Wolde, ai cui limiti si inabissava un burrone. Due giorni dopo cominciò, sistematica, la decimazione. Allineati i condannati lungo il baratro, scrivono gli storici Ian L. Campbell e Degife Gabre-Tsadik, gli ascari presero un lungo telone «e lo stesero sui prigionieri come una stretta tenda, formando un cappuccio sopra la testa di ognuno di loro». Poi, la fucilazione. «E mentre un ufficiale italiano provvedeva a sparare il colpo di grazia alla testa, vicino all’orecchio, gli ascari toglievano il telone nero dai cadaveri per utilizzarlo per il successivo gruppo». Ordine eseguito, comunicò Maletti nel pomeriggio: giustiziati 297 monaci incluso il vice-priore e 23 laici. «Sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale». «Fucilate anche loro», cambiò idea tre giorni dopo Graziani. E Maletti, ligio agli ordini più infami, eseguì.
Conta finale: 449 assassinati. Numero che Campbell e Gabre-Tsadik contestano: furono tra i 1423 e i 2033. Il doppio o il triplo di quanti saranno trucidati dai nazisti a Marzabotto. Berhaneyesus Souraphiel, l’arcivescovo cattolico etiope, sospira nel docu-film di Antonello Carvigiani e Andrea Tramontano Debre Libanos, prodotto e trasmesso da TV2000, che ancor oggi certe ferite non sono ancora del tutto rimarginate. Racconta però lo storico Alberto Elli, profondo studioso della Chiesa etiope e dell’Etiopia, che il mausoleo in ricordo dell’eccidio, a novembre, non c’era più: «Dicono d’averlo tolto come gesto di riconciliazione». Un passo importante. Come fu l’anno scorso, ad Addis Abeba, la stretta di mano di Sergio Mattarella a vecchi patrioti etiopi. Era stato questo, del resto, l’appello al popolo di Hailé Selassié al suo ritorno in patria il 5 maggio 1941, a guerra ancora in corso: «Vi raccomando di accogliere in modo conveniente e di prendere in custodia tutti gli italiani che si arrenderanno con o senza le armi. Non rimproverate loro le atrocità che hanno fatto subire al nostro popolo. Mostrate loro che siete soldati che possiedono il senso dell’onore e un cuore umano». La richiesta del Negus di estradare almeno i due generali della mattanza, però, non venne mai accolta. E qualche strada italiana li onora ancora come eroi di guerra…
17 febbraio 2017 (modifica il 19 febbraio 2017 | 21:13)

http://www.corriere.it/sette/mano-libera/1...d9adf1594.shtml
Sui crimini in Etiopia la Chiesa tace da 80 anni
Ottant’anni fa il generale Rodolfo Graziani massacrò tutti i preti e i diaconi cristiani del monastero di Debrà Libanòs



«Senta qua: “Il differenziale serve per rendere indipendenti le ruote motrici posteriori. Internamente abbiamo satelliti planetari. Fuori della scatola abbiamo pignone corona…” Posso continuare citando parola per parola. Del camion so tutto: dal muso al culo». Hailù Tekle, detto “Oliviero”, ha passato i novanta ma ha la schiena diritta come una stecca di biliardo e una memoria di ferro, di cui si fa vanto recitando senza incertezze le risposte alle domande che gli fecero sette decenni fa per consegnargli, ad Asmara, la patente da camionista: «Ho guidato fino a dieci anni fa. Con i rimorchi. Soprattutto sulla strada Asmara-Addis Abeba. Quattro giorni l’andata, quattro giorni il ritorno. Mai un incidente. Non so se mi spiego: mai uno». Figuratevi, perciò, se un figlio dell’Etiopia sveglio e combattivo come lui poteva dimenticare il giorno in cui suo padre Tesem, quel 19 febbraio 1937, dopo l’attentato a Rodolfo Graziani, piombò a casa col fiatone per recuperare la moglie Muru e i due figlioletti: via, bisognava subito scappare nella boscaglia perché gli italiani avevano scatenato una rappresaglia: «Papà ci portò in salvo poi andò a prendere lo schioppo. Io ero solo un ragazzino e lo schioppo non l’avevo sennò sarei andato anch’io coi partigiani».
Il suo amico Orlando Maroli, metà italiano e metà etiope, anche lui camionista in pensione, fa ampi cenni di assenso. Più giovane di qualche anno, non può ricordare la feroce repressione seguita al lancio di alcune bombe a mano contro l’allora viceré d’Etiopia. Ricorda bene, però, mentre beve un caffè nella sede di Addis Abeba del Cuamm, i Medici con l’Africa presenti in Etiopia dal 1980, il clima in cui scoprì crescendo cosa voleva dire essere italiano o etiope: «C’è un grande mercato che ancora oggi ha il nome di “mercato degli indigeni”. Tutto era separato. Di qua il mercato degli italiani, di là degli etiopi». «Sugli autobus noi ci ammucchiavamo dietro, in piedi», racconta Hailù, «Tutti appiccicati. Anche se magari davanti c’era un solo italiano con sedici sedie a disposizione. Vuote». Eppure, giurano, i rapporti con gli italiani arrivati sugli altopiani etiopi senza i mitragliatori e i gas asfissianti documentati da Angelo Del Boca ma con la vanga, la zappa, i giratubi da idraulico o i morsetti da meccanico, «sono sempre rimasti buoni». Nonostante la durezza criminale della rappresaglia, che costò la vita, anche se il numero è contestato, a «trentamila uomini, donne, bambini». Nonostante i casi d’insensata ferocia: «Persuaso della necessità di stroncare radicalmente questa mala pianta», scrisse di suo pugno Graziani, «ho ordinato che tutti i cantastorie, indovini e stregoni della città e dintorni fossero arrestati e passati per le armi». Nonostante la mattanza di Debrà Libanòs, dove per ordine di Graziani furono decimati dagli ascari islamici in divisa italiana tutti ma proprio tutti i preti e i diaconi cristiani etiopi del monastero.

Sono passati ottant’anni. Ma Hailù e Orlando, pur riconoscendo che l’Italia ha chiesto scusa per i suoi crimini, aspettano ancora. «La Chiesa cattolica no, non ha mai chiesto perdono». Eppure, come ha ricordato Andrea Riccardi, «benedì l’impresa come “apertura dell’Etiopia alla fede cattolica e alla civiltà romana”». E poi, per decenni, ha taciuto. Ma i vecchi tengono duro… Sarà rotto, finalmente, questo assordante silenzio?
31 agosto 2017 (modifica il 31 agosto 2017 | 11:26)

http://www.corriere.it/cultura/17_ottobre_...d05763311.shtml

Rodolfo Graziani (1882-1955)
Rodolfo Graziani (1882-1955)
Una storia affascinante, dall’incontro della regina di Saba con Salomone alle guerre del negùs Amda Seyon I («schiavo della croce») contro gli islamici, dalla venuta del pittore veneziano Nicolò Brancaleon, che a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento introdusse nell’iconografia locale san Giorgio e il drago, fino al ritorno di Hailé Selassié, che ordinò agli etiopi di non vendicarsi sugli italiani per le atrocità subite: «In modo particolare vi raccomando di rispettare la vita dei bambini, delle donne e dei vecchi. Non saccheggiate i beni altrui, anche se appartengono al nemico. Non bruciate case…». Su tutto però spicca dolorosamente, per noi, quella scellerata scelta contro i cristiani etiopi.
Già durante la guerra 1935-36, spiega Elli, «la politica italiana aveva favorito i musulmani, che videro nell’invasione fascista un’occasione di riscatto dal giogo degli Amhara cristiani. Interi battaglioni di musulmani Oromo diedero un notevole contributo alla vittoria italiana». E anche se le nostre autorità insistevano nel dire «che tutte le religioni erano trattate in maniera imparziale, in effetti questa pretesa eguaglianza giuridica delle varie fedi rimase sulla carta e le diverse comunità religiose furono trattate in base all’appoggio che avevano offerto o negato alla conquista italiana».
Avete presenti le barricate di questi ultimi anni alla voce di una nuova moschea? I maiali portati a far la pipì sul posto, le ruspe pronte a entrare in azione, le piazze gonfie di odio, gli striscioni «no minareti»? «L’11 ottobre 1936 Graziani incontrò una folta adunanza di musulmani, comunicando che presto si sarebbe dato inizio alla costruzione di una nuova moschea e di scuole e centri culturali islamici, non solo in Addis Abeba, ma anche in tutti i territori dell’Impero con forte densità di popolazione musulmana».
«Nonostante il suo triste passato in Libia, dove si era guadagnato la reputazione di comandante militare duro e crudele, Graziani giunse a dichiarare di aver imparato a conoscere e apprezzare la “razza” araba durante i quattordici anni trascorsi in Libia» e destinò Harar, «città sacra dei musulmani d’Etiopia, a divenire un grande centro per lo sviluppo degli studi sulla civiltà islamica e sul Corano».
Dice tutto la raccomandazione emanata dopo una visita ad Hararge, a est di Addis Abeba: «Perseguire sempre più decisamente politica musulmana mettendo gradatamente fuori causa et nelle condizioni di andarsene spontaneamente tutti elementi abissini ancora rimasti nel territorio». Una sorta di pulizia etnica. «Spontanea». Magari affidata ai guerrieri Galla, lanciati «alla distruzione dei loro atavici nemici». Non meno chiara è la lettera al generale Pietro Maletti dei primi d’aprile 1937. Dove, liquidati i cristiani copti come «infidi», il viceré assicura: «Altra cosa sono i mussulmani che debbono considerarsi di sicura fede in tutto Impero». Insomma: «I mussulmani in tutto Impero debbono rappresentare nostra riserva di fronte qualsiasi movimento insurrezionale dello elemento copto. (…) Occorre perciò fin da ora curare l’elemento mussulmano et poi, se proprio occorra, impiegarlo anche in situazione attuale costituendo bande et battaglioni di sicuro rendimento».
Si sentiva le spalle coperte, quel macellaio che ordinò («Feci tremare le viscere di tutto il clero») la mattanza di tutti i preti e tutti i diaconi e perfino diversi ragazzini seminaristi di dieci o undici anni del convento di Debra Libanos. Uno dei cuori pulsanti della Chiesa ortodossa. Mattanza affidata agli ascari islamici e su tutti, parole sue, ai «feroci eviratori della banda Mohamed Sultan».
Se le sentiva coperte dal Duce, che nel marzo 1937, nei dintorni di Tripoli, sollevò al cielo «la spada dell’Islam» intarsiata d’oro che gli era stata data dal capo di un contingente berbero (anche se in realtà era fatta in Toscana, come raccontano Gian Marco Walch e Giancarlo Mazzuca in Mussolini e i musulmani) e tuonò: «L’Italia fascista intende assicurare alle popolazioni musulmane della Libia e dell’Etiopia la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta e vuole inoltre dimostrare la sua simpatia all’Islam e ai Musulmani del mondo intero».
E se le sentiva coperte addirittura dalla Chiesa italiana, se è vero, come ricorda Elli, che «Gaetano Salvemini elencò puntigliosamente i nomi e gli atti di ottantasette vescovi e arcivescovi che, “affetti da epizooica fascista”, avevano esaltato la guerra d’Africa». Fino a parlare, come il cardinale Alfredo Ildefonso Schuster il 26 febbraio 1937, di legioni italiane che «rivendicano l’Etiopia alla civiltà, e bandendone la schiavitù e la barbarie vogliono assicurare a quei popoli e all’intiero civile consorzio il duplice vantaggio della cultura imperiale e della Fede cattolica, nella comune cittadinanza romana». Per non dire del vescovo di Oristano Giorgio Maria Del Rio, che straparlava di portare tra le «infime» popolazioni abissine «la croce di Gesù Cristo...»
Una brutta storia. Che davanti alle stupende chiese rupestri etiopi traboccanti di Madonne e Annunciazioni, Gesù in croce e Arcangeli, non dobbiamo dimenticare. Mai.
25 ottobre 2017 (modifica il 25 ottobre 2017 | 20:27)
 
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view post Posted on 29/11/2017, 09:06

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https://italiacoloniale.com/2017/11/28/il-...l-colonialismo/

Il clero italiano e il colonialismo
DI ALBERTO ALPOZZI FOTOGIORNALISTA 28 NOVEMBRE 2017 CAN. F. OTTINO CHIESA CLERO COLONIALISMO COLONIE LA RIVISTA BIELLESE MONS. GARIGLIANO OROPA
Quale era lo spirito del clero italiano rivolto al colonialismo? Pubblichiamo il necrologio di Mons. Garigliano, Vescovo di Biella dal 1918 al 1936, scritto dal can. F. Ottino e pubblicato su “La Rivista Biellese” del novembre 1936.

coloniali_chiesa“Oropa, 4 novembre 1935 – Nè sole nel cielo nè gioia nell’anima. La nostra Patria attraversava l’ora più tragica della sua storia. Aveva chiesto un po’ di spazio alla crescente famiglia dei figli e gli stati straricchi glielo avevano negato. Aveva il dovere di difendere le sue colonie dalle bande dei razziatori, e gli arbitri delle sorti del mondo si opponevano. Anzi fecero di più. Si unirono in infame congiura e, afferrata l’Italia per la gola,le dissero:”O vivi negli stracci come sei sempre vissuta o ti strozziamo”. Era un linguaggio di briganti. E l’Italia allora balzò fremente in piedi. E i soldati partirono.
E in Vescovo dal grande cuore indisse l’adunata del popolo. Dove? Ad Oropa, dove nelle vicende più gravi della Patria i nostri padri erano sempre saliti. Una moltitudine innumerevole accorse al suo appello. E inquadrati in mezzo alla moltitudine scintillavano di decorazioni i più cospicui rappresentanti della Nazione. Il cielo versava su tutta quella gente in preghiera le sue lacrime; ma la gente rimaneva là, all’aperto, immobilmente fissa nella Madonna della sua fede e della sua speranza. Come tremavano le labbra! Come battevano i cuori! E tutti attendevano una parola che confortasse i presenti, che rassicurasse i partiti. E la parola venne. Da chi? Dal Vescovo. E quale parola! Come egli esaltò nella sua calda eloquenza la giustizia della nostra causa! Come bollò a sangue chi attentava alla nostra vita! Come pregò la dolce Madonna perché sventasse le trame degli iniqui e desse la vittoria alle nostre armi!
Tutti trepidavano. Lui no. Aveva una fede incrollabile nell’aiuto del Cielo e giunse a ringraziare in anticipazione la Celeste Patrona della protezione che non sarebbe mancata. Quelle espressioni produssero un effetto portentoso. Nelle anime era entrata una luce che non si sarebbe estinta più.
E venne la vittoria rapida, strepitosa, travolgente. E fra le Nazioni, fatte piccole dall’avvilimento, grandeggiò coronata di lauri l’Italia…”
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Grazie a Maurizio Bocca per il testo
 
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