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Il più grande massacro di cristiani lo fecero i fascisti italiani nel 1937, Il massacro dei fedeli cristiani a Debra Libanos in Etiopia, al comando del gen. Graziani

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view post Posted on 8/9/2017, 17:07

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Il massacro dei fedeli cristiani a Debra Libanos in Etiopia, al comando del gen. Graziani

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Un etiope decapitato


www.neldeliriononeromaisola.it/2016/02/191311/

Una strage compiuta dagli italiani in Etiopia. Un monumento a Rodolfo Graziani. Una storia finita in tribunale

Debrà Libanòs l’ultimo oltraggio a quei monaci massacrati

ALBERTO MELLONI





Debrà Libanòs è un nome difficile da fissare nella memoria del nostro paese. Questa città monastica, nel lembo nord dell’altipiano etiope dello Scioà, di fronte alle lande incontaminate del Mens, fu oggetto di una grande strage di cristiani fra il 21 e il 29 maggio 1937. Le fonti contano un minimo di quattrocento vittime fra i religiosi, che salgono a millecinquecento, contando i fedeli. Un eccidio, comunque: che si potrebbe presumere fissato nella memoria di tutti, come quelli delle Fosse Ardeatine, di Marzabotto, di Sant’Anna di Stazzema. Invece no. Debrà Libanòs — il più grande massacro di una comunità religiosa d’Africa — resta un nome sconosciuto a troppi.

Ma non è una “scoperta” recente, venuta a tacitare il negazionismo strisciante di chi proclama, forse per incoraggiare nuove avventure, la necessità di liberare l’Occidente da un senso di colpa che non ha e da quella diffidenza verso la guerra che si chiama (si chiamava?) Europa. Fin dal 1965 Angelo Del Boca aveva studiato anche questo frammento della “guerra di sterminio” dell’Italia fascista in Africa orientale, denunciato a suo tempo dagli etiopi. Negli ultimi trent’anni Michel Perret, Lucia Ceci, Degife Gabre-Tsadik hanno aggiunto fonti, che Ian Campbell ha ripreso in un volume del 2014, a cui Nicola Labanca ha dato un aiuto e che Del Boca ha prefato. Un letterato, Luciano Marrocu, ne ha fatto impudicamente lo sfondo di un romanzo giallo. Niente da fare. Debrà Libanòs resta il nome di un delitto invisibile.

La strage viene pianificata all’indomani dell’attentato del 19 febbraio a Rodolfo Graziani, viceré dell’Africa orientale italiana. Ad Addis Abeba, due resistenti di origine eritrea, si intrufolano alla festa per la nascita del primogenito di Umberto di Savoia: lanciano granate, fuggono. Sette morti, cinquanta feriti, fra cui Graziani.

In città si scatena una rappresaglia feroce. Il corrispondente del Corriere della sera, Ciro Poggiali, annota inorridito nel suo diario le uccisioni a sprangate, i roghi che bruciano gli occupanti dei tucul e le chiese, le fucilazioni di religiosi copti, gli sgozzamenti — il tutto ad opera di persone a lui note e “normali”.

Se l’Africa è il luogo di collaudo del razzismo italiano, questo si mostra lì in tutto il suo sanguinario vitalismo. Le vittime si contano a migliaia: 6 mila dicono i giornali inglesi, 30 mila gli etiopi. Ma a Graziani non basta: egli resta convinto che nella città monastica di Debrà Libanòs si debbano punire i mandanti con una strage esemplare.

La mattanza viene fissata a maggio, attorno alla grande festa di san Mikael. La gestirà il generale Pietro Maletti, che fa annunciare la visita al monastero della seconda autorità della chiesa copta, l’“ecceghiè” Tekle Ghiorghis, per attirare in trappola i monaci dei romitori e i pellegrini. Il generale ispeziona a poche ore dall’inizio delle operazioni un sito vicino: il precipizio che dalla piana di Laga Wolde scende nel letto d’un torrente, il Fincha Wenz, che sembra adatto a quel che ha in mente.

Il 18 maggio Maletti isola il monastero: chiude in chiesa i pellegrini e i monaci che trova rastrellando la città monastica. Il vicepriore (lo “tsabate”) Gabre Mariam mette in salvo i suoi discepoli e i bambini nella cripta di Maskel Beit. Un eremita, Abba Gebre Gyiorgis, riceve in sogno la visita di un angelo che gli dice di fuggire: e fugge. Gli altri monaci e fedeli — «circa mille» telegrafa Maletti — vengono imprigionati in parte nella chiesa maggiore in parte nella vicina località di Chagel. Per due volte viene la notte, e poi il giorno.

Il mattino del 20 maggio inizia la mattanza, senza che gli altri prigionieri se ne rendano conto. Vengono uccisi per primi i disabili e gli ammalati, i cui cadaveri sono buttati nel fiume Gonjit. Al mattino del 21 alcuni camion iniziano a trasferire i prigionieri a Laga Wolde. Lì vengono bendati e uccisi: gli ascari controllano che nessuno si avvicini e sparano all’orecchio dei martiri per finirli. Poi li si fa rotolare nel dirupo.

Chi sale sui camion dopo i primi viaggi qualcosa capisce. I monaci copti portano alla cinta un piccolo salterio, come simbolo e reliquia della millenaria preghiera di una chiesa dalle origini apostoliche. Trovarne alcuni sul fondo dei camion, insieme alle croci lascia intendere il peggio. Che arriva inesorabile per tutti. I camion fanno 39 volte la spola: se portano 30 persone, sono 1200 morti; se ne stipano 40, sono 1600 esecuzioni. Nel telegramma n. 25876 di quel giorno, Graziani si attribuisce il merito di aver «fatto passare per le armi» 296 monaci compreso il vicepriore e 23 complici: il resto non lo conta neppure.

Il sabato 22 i camion portano le ultime 430 persone verso Debrà Berhan, forse per dividere l’usura psicologica del massacro fra diversi reparti di ascari e diversi soldati o ufficiali italiani. Trenta giovanetti (dei novizi si direbbe nel lessico cattolico) vengono separati dal gruppo, ma non per un gesto di pietà: andranno a finire nel famigerato campo di concentramento di Danane, nella Somalia italiana, dove la metà dei detenuti vengono uccisi dalla denutrizione. Gli altri quattrocento deportati di Debrà Libanòs sono portati, mercoledì 26, a Guassa e lì ammazzati: di 129 diaconi si tiene il conto nello scrupoloso telegramma n. 27136 del viceré. Degli altri — insegnanti, fedeli, operai subalterni — nulla si dice: vite irrilevanti al censimento di una strage che vuol rasare via il monastero dalla storia. Per questo, per non lasciare nulla di incompiuto, il 29 maggio tre monaci di Debrà Libanòs imprigionati in precedenza ad Addis Abeba vengono fucilati, mentre coloro che lo “tsabate” aveva nascosto a Maskel Beit, sono morti di fame e di sete nel grande silenzio che avvolge il santuario.

A cose fatte Maletti si vanta di un’azione «opportuna e salutare »; e Graziani telegrafa a Roma: «Del convento di Debrà Libanòs non rimane più traccia». Ma non è così: e non perché il suo successore cerchi di recuperare credito lasciando riprendere la vita monastica di Debrà Libanòs.

Rimane l’indelebile orrore che si tramanda a partire da quello straziante di chi sei mesi dopo prova ad andare a cercare la salma dei propri morti del monastero e deve desistere: sono ancora troppi gli strati dei cadaveri, ammassati lì, in attesa che le iene e gli avvoltoi li smozzichino, così da farli poi scivolare, brandello dopo brandello, verso il fiume.

Rimane la vita semplice e pura di monaci pastori ed eremiti: che tornano, col salterio alla cintola e il senso della fraternità monastica (il priore di Bose Enzo Bianchi è stato loro ospite e TV2000 di Paolo Ruffini sta realizzando un documentario).

Rimane un delitto che non costituisce un’inattesa impennata della ferocia di Graziani, ma fa parte del terrore nel quale la chiesa etiopica ha pagato un prezzo altissimo, col martirio di migliaia di cristiani e fra loro della stessa guida della chiesa, l’Abuna Petròs, torturato e ucciso dai fascisti (è come se i nazisti avessero portato Pio XII a via Tasso).

Un successore di Abuna Petròs, l’Abuna Paulos, patriarca della Chiesa “Tewahedo” ortodossa etiope, venne a Roma nel 2009 come delegato fraterno al sinodo per l’Africa: ricordò anche il martirio del suo predecessore nell’aula sinodale. Mi pare che nessuno nella Chiesa colse l’occasione per dire la parola che il patriarca aspettava e che globalallianceforethiopia. org chiede al papa. Neppure l’Italia colse l’occasione per gesti che mostrassero l’intenzione di prendere atto del dolore di un popolo e del martirio d’una chiesa: d’altronde non ha saputo nemmeno fermare lo sfregio di un monumento dedicato nel 2012 dal comune di Affile a Graziani, con tanto di prete reazionario benedicente, sul cui finanziamento la magistratura si pronuncia domani, in un procedimento che è una vergogna nazionale ridotta ad affare di Tar.

Prendere atto di quella strage è difficile. Il pressapochismo e la sottocultura che non vuol sentirsi dire che l’Europa è esattamente il “no” a tutto questo resisterà agli sforzi per conoscere e riconoscere quel massacro nel grande massacro coloniale. Ma proprio perché è più difficile è più necessario.

Nel 2012 il comune di Affile ha dedicato un sacrario al viceré dell’Africa orientale. Fu la feroce rappresaglia per un attentato. Vennero uccise millecinquecento persone

http://frontierenews.it/2017/05/debra-liba...cismo-italiano/
LA PIÙ GRANDE STRAGE DI CRISTIANI NELLA STORIA AFRICANA È OPERA DEI FASCISTI ITALIANI
di Valerio Evangelista
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Ottant’anni fa le truppe dell’Impero fascista attuarono il maggiore eccidio di cristiani in terra africana: accusati di essere ostili all’occupazione imperialista, centinaia di residenti del monastero di Debrà Libanòs furono fucilati dalle truppe italiane per ordine del Maresciallo Rodolfo Graziani. Nessun italiano venne mai punito per questo e per altri massacri.

Quando nell’aprile 1935 componeva le prime bozze di “Faccetta Nera”, Renato Micheli volle decantare in maniera spiritosa lo spirito romantico del colonialismo italiano in Africa. Un’ode alla “missione civilizzatrice” di Roma in Abissinia, allo sforzo liberatore della gioventù italica impegnata a rimuovere le catene dal collo negro.

Un’esaltazione in romanesco dell’unione tra le razze, che però a Mussolini non piacque affatto (anzi, tentò pure di bandirla). Quel testo era troppo meticcio e troppo poco imperiale. Per giustificare il proprio espansionismo, l’Impero fascista avrebbe avuto bisogno di più solennità, di più rigore razziale; e fu così che dal Ministero “consigliarono” al poeta di trasformare la scherzosa canzonetta in un inno di conquista e di sottomissione degli abissini, privandola inoltre di ogni parola ed inflessione dialettale.

Se per Micheli il verso “Faccetta Nera, sarai romana” era una promessa che puntava all’elevazione di una presunta inferiorità del popolo etiope, una “concessione d’umanità” dei colonizzatori mediterranei, il regime l’intendeva come una minaccia dal potere distruttivo: sarai romana, oppure non sarai affatto.

Fu il Maresciallo Rodolfo Graziani ad essere nominato “ambasciatore” di tale ideale totalizzante. Ottenute fama e popolarità in seguito alle gesta di “pacificazione” (leggasi “riconquista”) in Libia, che gli valsero il soprannome di “Macellaio di Fezzan“, Graziani fu incaricato di reprimere ogni resistenza in Abissinia.

Graziani ordinò ai suoi bombardieri di sganciare ordigni all’iprite e al fosgene (vietati dalla convenzione di Ginevra del 1925) contro civili e resistenti africani. In un dispaccio telegrafico proclamò trionfante che “le ultime azioni compiute hanno dimostrato quanto sia efficace l’impiego dei gas”.

Ma il Macellaio (che l’ONU inserì nella lista dei criminali di guerra per l’uso di gas tossici e bombardamenti degli ospedali della Croce Rossa) fu responsabile anche di un altro atroce episodio: il maggiore eccidio di cristiani in terra africana, una strage ancora oggi poco raccontata.

Il 19 febbraio 1937, durante una cerimonia in onore della nascita di Vittorio Emanuele di Savoia (primogenito di Umberto), la resistenza anti-colonialista fece esplodere otto bombe.

Subito dopo l’attentato, un commando armato aprì il fuoco, attirandosi la reazione dei carabinieri italiani. Il bilancio dell’attacco fu di quattro carabinieri italiani e due zaptiè uccisi (carabinieri reclutati tra le popolazioni indigene) e una cinquantina di feriti.

In un telegramma del 21 febbraio, il Duce diede a Graziani indicazioni ben precise: “Nessuno dei fermi già effettuati e di quelli che si faranno deve essere rilasciato senza mio ordine. Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi“. Sentendosi il vero obiettivo dell’attentato, dall’ospedale della Consolata (dove rimase ricoverato per 68 giorni) il Maresciallo Graziani ordinò dunque rastrellamenti e pogrom. Nei tre giorni successivi la rappresaglia italiana portò a numerose vittime nella popolazione etiopica.

Il prof. Harold J. Marcus parla del clima post-attentato in questi termini:

“Poco dopo l’incidente, il comando italiano ordinò la chiusura di tutti i negozi, ai cittadini di tornare a casa e sospese le comunicazioni postali e telegrafiche. In un’ora, la capitale fu isolata dal mondo e le strade erano vuote. Nel pomeriggio il partito fascista di Addis Abeba votò un pogrom contro la popolazione cittadina.

Il massacro iniziò quella notte e continuò il giorno dopo. Gli etiopi furono uccisi indiscriminatamente, bruciati vivi nelle capanne o abbattuti dai fucili mentre cercavano di uscire. Gli autisti italiani rincorrevano le persone per investirle col camion o le legarono coi piedi al rimorchio trascinandole a morte. Donne vennero frustate e uomini evirati e bambini schiacciati sotto i piedi; gole vennero tagliate, alcuni vennero squartati e lasciati morire o appesi o bastonati a morte”.

Se fonti etiopiche hanno contato ben 30mila persone uccise, stime italiane hanno ridotto il numero a circa 300 vittime. Fonti britanniche parlano invece di almeno 3mila vittime. Ma a prescindere dal numero effettivo di caduti (non fu mai condotta una ricerca internazionale e indipendente che potesse verificarne la precisione), la vendetta italiana continuò implacabile anche a distanza di mesi dall’attentato.

Il medico ungherese Ladislav Shaska ricorda l’azione del Federale Guido Cortese subito dopo l’attacco:

“Il maggior massacro si è verificato dopo le sei di sera… In quella notte terribile, gli etiopi vennero ammucchiati nei camion, strettamente sorvegliati dalle camicie nere armate. Pistole, manganelli, fucili e pugnali furono usati per massacrare gli etiopi disarmati di tutti i sessi, di tutte le età. Ogni nero incontrato era arrestato e fatto salire a bordo di un camion e ucciso o sul camion o presso il piccolo Ghebi. Le case o le capanne degli etiopi erano saccheggiate e quindi bruciate con i loro abitanti. Per accelerare gli incendi vennero usate in grandi quantità benzina e petrolio.

I massacri non si fermarono durante la notte e la maggior parte degli omicidi furono commessi con armi bianche e colpendo le vittime con manganelli. Intere strade erano bruciate e se gli occupanti delle case in fiamme uscivano in strada erano pugnalati o mitragliati al grido “Duce! Duce Duce!”. Dai camion, in cui gruppi di prigionieri erano stati portati per essere massacrati vicino al Ghebbi, il sangue colava letteralmente per le strade, e da questi camion si sentiva gridare “Duce! Duce! Duce!”.

Non dimenticherò mai quello che ho visto quella notte degli ufficiali italiani che passano con le loro auto lussuose per le strade piene di cadaveri e sangue, fermandosi nei luoghi dove avrebbero avuto una migliore visione delle stragi e degli incendi, accompagnati dalle loro mogli, che mi rifiuto di definire donne!”

Non potendo contenere l’ardore di chi lottava per la propria libertà – con buona pace della propaganda “liberatrice” fascista – il contingente imperiale in terra d’Abissinia dovette trovare un responsabile morale di tali ondate di guerriglia.

Percorrendo il sentiero del “ripulisti” tracciato mesi prima da Mussolini in persona, il Maresciallo ordinò quindi una spedizione punitiva verso Debrà Libanòs – città santa della chiesa copta a 150 km da Addis Abeba – i cui residenti erano ritenuti colpevoli di fomentare le ribellioni e di nascondere gli insorti.

Nel tragitto, le truppe italiane e somale comandate da Pietro Maletti operarono una cieca rappresaglia in cui furono incendiati 115.422 tucul e tre chiese, mentre furono ben 2.523 i partigiani etiopi giustiziati.

Non sazia del sangue versato, la colonna imperiale proseguì il suo viaggio. Dopo aver incendiato il convento di Gulteniè Ghedem Micael ed averne fucilato tutti i monaci, il 19 maggio i soldati raggiunsero ed occuparono Debrà Libanòs.

Raggiunta la destinazione, le truppe ricevettero un telegramma di Graziani in cui ordinò di “passare per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vicepriore“.

Il grande monastero del XIII secolo, centro principale della spiritualità etiopica, era stato fondato dal santo cristiano Tecle Haymanot. Era formato da due grandi chiese e dei modesti tucul dove vivevano monaci, preti, diaconi, studenti di teologia e suore.

I residenti furono trucidati in circa una settimana; l’ultimo giorno del massacro vennero fucilati anche i 126 giovani diaconi che erano stati inizialmente risparmiati.

Graziani fece sapere a Benito Mussolini che furono 449 le vittime del massacro di Debrà Libanòs, ma ricerche portate avanti dall’inglese Ian L. Campbell e dall’etiopico Defige Gabre-Tsadik (studiosi dell’Università di Nairobi e di Addis Abeba) sostengono che il numero delle vittime del massacro si aggirerebbe addirittura tra le 1.423 e le 2.033.

Graziani, forte dell’approvazione di Mussolini, rivendicò “la completa responsabilità” di quella che definì trionfante la “tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia”, compiaciuto di “aver avuto la forza d’animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall’abuna all’ultimo prete o monaco, che da quel momento capirono la necessità di desistere dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti”.

Negli anni ’40 l’archeologo David Buxton confermò che i resti dell’eccidio erano ancora visibili: “Ci sono innumerevoli teschi e ossa, sacchi e scatole piene di ossa, mucchi sparsi di ossa che aspettavano ancora una sepoltura”.

Nel dopoguerra a nulla valsero le richieste etiopiche: nessun italiano venne mai punito per questi e per altri massacri. Rodolfo Graziani fu inserito dall’ONU nella lista dei criminali di guerra, ma non venne mai processato. Il Boia dell’Impero fu invece processato e condannato a 19 anni di carcere per collaborazionismo, ma scontati quattro mesi fu scarcerato.

Tv2000 ha prodotto un docu-film, girato tra Addis Abeba e Debre Libanos, che ricostruisce i fatti storici grazie al contributo di Ian Campbell, il maggiore studioso della strage, al monaco di Debre Libanos, Abba Hbte Gyorgis e ad un testimone ultranovantenne di quei tragici avvenimenti, Ato Zewede Geberu. A questi, si aggiungono il Patriarca della chiesa ortodossa di Etiopia, Abuna Matthias I e l’ Arcivescovo di Addis Abeba, il cardinale Berhaneyesus Demerew Souraphiel.

Edited by GalileoGalilei - 8/9/2017, 19:20
 
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