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"Nessuno dovrà saperlo" (come fui violentato dal prete in seminario), Romanzo autobiografico di Bruno Zanin, accusatore di don Pierino Gelmini

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view post Posted on 25/3/2007, 15:09
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Qualcuno ricorda forse il viso di Bruno Zanin, ragazzino protagonista del capolavoro di Fellini Amarcord (1973). Zanin interpretava il ragazzino Titta Biondi alle prese con le prime esperienze sessuali, quella dell'araccio alla tabaccaia maggiorata. Interpretò, successivamente, anche la parte di un compagno di viaggio di Marco Polo in uno sceneggiato televisivo

brunozaninF1

Esce un suo romanzo autobiografico in cui, raccontando la sua bisessualità, spiega racconta come fu violentato da ragazzino da un prete in seminario.


E' il ragazzino dai capelli rossi:
Amarcord-Aurelio

jpg


www.ilgiornale.it/a.pic1?ID=166301


di Stefano Lorenzetto - domenica 25 marzo 2007, 07:00
Nel marasma immoto della baita, all’improvviso qualcosa si muove, laggiù in fondo, sotto il fornello sovrastato dal ritratto di Santa Teresa di Lisieux. È un puntolino che compare, scompare e subito ricompare alle spalle di Bruno Zanin. Il Titta Biondi di Amarcord nota la mia distrazione. Si volta a guardare. Poi torna a fissarmi: «Ha visto un condannato a morte». Il topo rosicchia le esche avvelenate. «Sono obbligato a farlo. I ratti combinano disastri, mi bucano le coperte». Si gira di nuovo. «Però adesso mi dispiace, poverino. Non dovevo mettere il topicida».

A 56 anni il biondino che diede corpo sullo schermo alle fantasie oniriche di Federico Fellini è schiacciato dai sensi di colpa. Per la violenza sessuale che subì in seminario a opera di un sacerdote. Per l’omosessualità borderline che ne derivò. Per i tre cicli di psicoanalisi junghiana affrontati nella speranza di uscirne. Per aver tentato il suicidio quando scoprì che la ragazza di cui s’era invaghito lo dileggiava offrendo in pasto agli amici le poesie d’amore scritte per lei. Per il ricovero in manicomio che ne seguì. Per Monique, la moglie da cui s’è separato «mai e sempre», una fotografa conosciuta al Théâtre de la Ville di Parigi dove lui recitava Ionesco, sposata nel ’78 spinto dal bisogno di dimostrare a se stesso che sapeva fare il suo dovere di uomo. Per i due figli di 28 e 23 anni, uno insegnante in Lussemburgo, l’altro operaio in Normandia, messi al mondo al solo scopo d’inondarli dell’affetto e della tenerezza che non ha avuto da bambino.

Ora Zanin è tormentato anche dal rimorso per aver svelato tutto questo nel romanzo autobiografico Nessuno dovrà saperlo (Tullio Pironti editore), «un libro di espiazione e di redenzione, il libro di un’anima ferita e di una coscienza incapace di perdonarsi», come ha scritto Raffaele La Capria, soprattutto per aver dedicato questo volume alla memoria della madre Adele, del padre Anselmo e di Edward Melcarth, riservando però la riprovazione al sangue del suo sangue e il rimpianto all’artista che considera il suo vero genitore, «morto povero in un ospedale pubblico di Venezia, il primo adulto che mi ha rispettato, che non mi ha mai messo le mani addosso, che mi ha presentato alla sua amica Peggy Guggenheim, sfamato, consigliato, portato in giro per l’Italia senza pretendere nulla in cambio».

Ero salito fino a Vanzone, alle pendici del monte Rosa, per un amarcord e invece mi tocca raccogliere una confessione. «Questa baita è la mia prigione. Mi ci sono recluso da solo. Dieci anni fa ho venduto anche l’auto, così non posso più scendere a valle. Altrimenti, appena calano le tenebre, il demone che ho dentro mi porterebbe a cercare emozioni proibite giù in città». Per scappare da se stesso ha abbandonato il cinema (dopo Amarcord aveva girato Il buon soldato, Il caso Moro, L’Agnese va a morire, una dozzina di film, «ma non mi chieda qual è stato l’ultimo, non me lo ricordo», rovista nel baule alla ricerca di una foto con Fellini, «per me è come scavare in una tomba»), ha abbandonato la televisione (Marco Polo, Il Mercante di Venezia), ha abbandonato il palcoscenico («quando Giorgio Strehler mi prese al Piccolo di Milano, nel ’75, non avevo mai messo piede in un teatro in vita mia, neanche come spettatore») ed è andato per conto dell’Abbé Pierre a portare aiuti umanitari durante la guerra in Bosnia, da dove mandava corrispondenze alla Radio Vaticana.

Zanin dimostra ancora la prestanza fisica che in Amarcord gli consentiva di caricarsi sulle spalle Antonietta Belluzzi, la tabaccaia di Amarcord con due aerostati al posto delle tette. Ma non potrebbe più infilare le mani sotto la gonna bianca di Magali Noël, la Gradisca, nemmeno nel buio di un cinematografo, tanto sono oggi irruvidite e scorticate («faccio il muratore e il manovale, taglio la legna dei boschi, le bollette a volte vanno in mora, ma chissenefrega»). Del Titta Biondi che fu gli sono rimasti solo gli occhi, di un azzurro polinesiano, e il sorriso malandrino.

Sarà pur vero che diversi si nasce, ma Zanin ha provato nelle proprie carni che lo si può anche diventare per quello che lui chiama, rifacendosi a Konrad Lorenz, «l’imprinting». Le oche selvatiche, private della madre in tenera età, scambiavano l’etologo austriaco per il loro genitore e, una volta adulte, per il loro partner. Il piccolo Bruno, un selvàdego cresciuto libero a Vigonovo nell’entroterra veneziano, confinato dai genitori a 400 chilometri da casa ha finito per scambiare per amore le attenzioni di un pedofilo e, passati più di 40 anni, è ancora qui a farci i conti tutti i giorni.

Mi parli della sua infanzia.

«Splendida e solitaria. Il paradiso in terra. Un bambino all’inizio vive lo stato edenico primordiale, crede a ciò che gli raccontano i genitori, gli insegnanti, i preti. Nei campi mi sentivo re, mago, parón de tuto. Ero molto pio, pregavo, portavo i fiori davanti ai capitelli della Madonna. Mi accadevano fenomeni paranormali».

Per esempio?

«Ripetevo fino all’estenuazione “Gesù e Maria ve vogio tanto ben”, una giaculatoria che mi aveva insegnato mia nonna Teresina, e mi assentavo. Dopo una di queste estasi, dissi ai miei: g’ho visto ’na femena in canale co’ do putele. Il giorno dopo fu trovata nella roggia una mamma morta suicida: s’era annegata con le due figliolette».

Terribile.

«In terza elementare arrivò a casa nostra il sergente reclutatore. Aveva la talare e una giardinetta grigia targata Treviso. Estrasse da una borsa nera un tema che avevo scritto in classe per un concorso missionario. “Dimmi la verità: è tutta farina del tuo sacco o ti ha aiutato il parroco?”, m’interrogò. Credette alla mia sincerità e mi consegnò in premio un mappamondo luminoso. Prima di sera l’avevo già rotto. Mentre mi mettevano a letto mezzo addormentato, sentivo i miei che confabulavano di un collegio gratuito in Piemonte, dalle parti di Alessandria. Ero il penultimo di sette figli, nessuno dei quali aveva studiato. “Ma non si può mandarlo più vicino, a Padova o a Vicenza?”, resisteva mia madre. “Il prete mi ha detto che solo là hanno i benefattori che li aiutano”, tagliò corto mio padre».

Ci finì.

«Aspirantato per il seminario, lo chiamavano. “Un posto bellissimo, con campi di calcio, alberi, cinema, teatro e biliardini”, me lo aveva descritto papà. La prima cosa che notai di quel casermone è che non aveva i comignoli. Fu un trauma. Una casa senza camino? Non capivo: è il focolare la casa. I cessi stavano all’estremità di un loggiato. Sulla porta un cartello liso: “L’occhio di Dio ti vede anche in fondo ai portici”. Nella camerata rischiarata dalla luce azzurrognola passavo notti intere a rimuginare con gli occhi sbarrati: ma perché mi hanno messo in questo posto così lontano? voglio la mamma, voglio tornare a casa, che cosa ho fatto di male per finire qui? Domande senza risposta, come le lettere che mandavo ai miei. L’unica missiva me la spedirono per informarmi, a funerali avvenuti, che un mio fratello era morto. Avevo un unico amico venuto dal mio stesso paese, in quel collegio. Morì annegato nel tentativo di salvare un cane».

Fu il direttore ad abusare di lei?

«No, un missionario tornato dal Brasile per curarsi da una malattia tropicale. Io stavo lì già da cinque anni. Terza media, pieno sviluppo, i pantaloni sempre più stretti, scoppiavo fuori da ogni parte. Per tutti ero sempre stato Zanin. Lui fu l’unico a chiamarmi per nome, Bruno. Mi fece sentire importante. Un giorno portò tutta la classe in escursione sull’Argentera. A 2.700 metri ci sorprese una tormenta di neve. Fummo costretti a passare la notte in un pagliaio. Il prete ci diede da bere un goccio di grappa portata nella malga dai montanari. Mentre tutti dormivano, sentii il suo fiato vicino alla mia bocca. Poi un bacio caldo. Forse era ubriaco. Fece tutto lui, con l’attenzione di un adulto pratico. Io subii passivo come un cadavere».



Non poteva ribellarsi?

«Io non avevo esperienze, non sapevo nulla di donne. Era la prima volta che mi accadeva. È difficile da spiegare. C’era la violenza ma anche la scoperta del piacere: è questo l’imprinting che ti marchia per tutta la vita. Lo spiega bene San Paolo: io sono di carne, venduto come schiavo del peccato, io non riesco a capire neppure ciò che faccio; infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. La lotta per sentirsi puliti cede a una sessualità assurda, sporca, deviata. A 7 anni la stessa esperienza era capitata in collegio anche al mio violentatore. È una catena».

E l’indomani?

«Dolore, vomito, vertigini, febbre. Alla sera il missionario, tutto sudato, pretese di confessarmi. Mi spiegò che il diavolo, invidioso della nostra vocazione, ci aveva fatti cadere in un maleficio. Piangeva: “Scusami, Bruno, non puoi capire quanto Satana sia potente nel tentare noi preti che abbiamo in affidamento anime cristalline come la tua”. Poi il tono di voce si fece impersonale: “Non ripensare mai più a questo episodio, quel che è successo è successo. Nessuno dovrà saperlo”. Mi diede l’assoluzione per un peccato commesso da lui».


Lei non chiese aiuto ai suoi?

«Tornato a casa per l’estate, riferii l’accaduto a mio padre. La prese come una scusa per non tornare in collegio e mi mandò, Dio solo sa perché, a bottega da un barbiere che era notoriamente gay. Non glielo perdono neanche oggi che è morto, a papà».

Altre violenze.

«Mi confidai col parroco in confessione. “Va in cartoleria, compra un foglio protocollo e mettimi per iscritto ciò che mi hai raccontato”, mi ordinò. L’indomani il parrucchiere era in galera e io sulla bocca di tutti. Scappai di casa. Lavoravo in circhi e luna park, fra sradicati come me. C’intendevamo senza parlare. Fino a quando i carabinieri non mi acciuffavano. L’ultima volta mio padre disse ai militari: “Basta, tegnìvelo!”. Fui rinchiuso prima alle Zattere a Venezia e poi a Udine. In riformatorio tiri fuori tutto ciò che in seminario viene represso. È una casa di corruzione, non di correzione».

E all’uscita dal riformatorio?

«Dormivo per strada col mio cane Whisky. Fui raccattato in una calle veneziana da Melcarth. Posai per lui come modello. Era l’artista prediletto del miliardario Forbes, aveva affrescato la Rotunda dell’hotel Pierre di New York e disegnato i celebri occhiali surrealisti di Peggy Guggenheim. Mi portava a colazione da lei. Ogni tanto si mettevano a parlare fra loro in yiddish. L’anziana collezionista faceva rimanere Whisky sull’uscio perché aveva paura che attaccasse le pulci ai suoi cagnolini».

Come fu scritturato da Fellini?

«Per caso. Mi ospitava a Roma una madre di quattro figli. Uno di loro, Pino, che poi sarebbe andato a morire come fotografo in Pakistan, faceva la comparsa nei western. Lo accompagnai a Cinecittà. Vidi tanti ragazzi in fila per le selezioni di Amarcord e m’intruppai. A un certo punto Fellini urlò ai suoi assistenti: “Cazzo, ma siete proprio delle grandi patacche, voi
della produzione, ciechi del tutto! Non vedete che è uno come quello lì vicino al termosifone che ci serve? Su, portatelo qui!”. Ero io. Mi fece biondo e dopo una settimana cominciò le riprese. Federico e Cristo sono quelli che mi hanno cambiato e complicato di più la vita».

Curiosa gerarchia.

«Be’, ma fu Fellini a stravolgermela, a mettermi in mano un milione di lire a settimana. Era il ’73. Oggi sarebbero quasi 7.000 euro. E che sono soldi guadagnati, quelli? Li spendevo prima d’averli. Ero sempre indebitato. Federico è stato troppo buono con me. Era un eterno adolescente. Con la scusa di mostrarmi come andava girata la scena, infilava la sua testa una, due, tre volte fra le tettone della tabaccaia, che in realtà era una camiciaia di Bologna che lo adorava, povera Antonietta, è morta dieci anni fa cadendo da un balcone. A me lasciava il compito di sollevarla fino a 40 volte, un quintale abbondante, alla fine mi ci voleva una bottiglia di Vov per riprendermi».

E dunque?

«È che l’attore non ha il senso né della realtà né di niente. Il bel mondo ti corteggia. La gente ti vuole ospite a tavola e anche a letto. Ti sbronzi, tiri cocaina. Io sono nato contadino. Dovevo sentirmi sempre un impostore per fare quel mestiere. Ho chiuso. Oggi sono attratto dal cinema quanto dalla salma di una prostituta strangolata e lasciata nuda ai bordi della tangenziale. È tutto lontano, dentro una nuvola. È come se avessi vissuto un sogno».

Di che campa?

«Non chiedere mai a un artista di che campa. Scrivo, ma non mi sento scrittore. Scrivo quando sto male. Siccome non so parlare, metto sulla carta quello che la voce non riesce a esprimere. Poi rileggo e mi domando: ma l’ho scritto io? Ho fatto il Cammino di Santiago de Compostela, 40 giorni a piedi con mio figlio, per scacciare la bestiaccia, la depressione che viene a visitarmi e mi spegne la luce, mi toglie la voglia di vivere, mi lascia nel mondo senza farmici stare».

Della Chiesa che cosa pensa?

«Non ce l’ho con i preti. Gli rimprovero solo d’essere diventati impiegati, con i loro orari e i loro stipendi. Non si vede neanche il riverbero di Cristo nel clero. Andai a trovare per anni fratel Carlo Carretto nel suo eremo di Spello, dove s’era ritirato al ritorno dal Sahara. “Bruno, devi avere misericordia”, mi esortava. Ma Cristo si prese come apostoli dodici uomini adulti, alcuni anche sposati, non dei bambini. Non ne ho conosciuto uno, di coloro che hanno patito ciò che ho patito io, che sia diventato normale: sono finiti tutti o pervertiti, o eroinomani, o suicidi. È una malattia da cui esci solo con la lobotomia. Ho passato i miei giorni a chiedermi se dovevo attaccarmi una macina di mulino al collo o se c’era una clemenza, un’attenuante, una possibile Corte d’appello che m’avrebbe reso giustizia per la storpiatura ricevuta».


Ora ha ritrovato un suo equilibrio?

«L’equilibrio si ritrova dopo morti».

Stefano Lorenzetto

(368. Continua)

Edited by GalileoGalilei - 10/9/2016, 22:59
 
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view post Posted on 5/6/2007, 11:16
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Il libro è servito di spunto a deui genitori per denunciare un monsignore pedofilo nascosto in Vaticano:

https://laici.forumcommunity.net/?t=6969842...stpost#lastpost
 
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ulisse62
view post Posted on 5/6/2007, 16:41




Anche Diego dalla Palma, in un'intervista confessa di essere stato molestato in collegio e dice pure che un suo compagno si è addirittura suicidato per le conseguenze psico-fisiche che la violenza gli ha provocato. Ovviamente il tutto è passato sotto silenzio. Anzi secondo il noto visagista fecero passare il suicidio come un attacco di epilessia. Se fossimo in un paese normale un magistrato, con dichiarazioni simili, avrebbe cominciato ad indagare però siamo in Italia ed ovviamente tutto è passato in sordina.

Se volete leggervi l'intervista (solo la parte in essere) potete farvi un viaggetto sul mio blog
 
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spigasso
view post Posted on 5/6/2007, 21:43




Io sono riuscito a leggere solo due capitoli- sono nuovo del forum, capitato qui navigando con Google, e dunque un caro saluto a tutti - sono riuscito vi dicevo a leggere solo due capitoli del libro dello Zanin in questione, entrando nel suo disordinato blog www.brunozanin.it e ho ordinato il libro attraverso IBS perchè in libreria qui a Arezzo manco lo conoscono. Se persone come Bruno Zanin Luca Barbareschi cominciano a dire cosa è stata la loro esperienza con i preti pedofili, il caro Razzingher non potrà più fare orecchio da mercante e...chiudere bottega, mandare i preti a lavorare in fabbrica o al massimo... a fare i rappresentanti di polizze vita (eterna) Abasso la Chiesa -potere la Chiesa dei furbi- Spiga
 
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view post Posted on 5/6/2007, 22:35
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Di queste storie di Diego dalla Palma e Luca Barbareschi da voi raccontate non ne sapevo nulla.

Potete ragguagliarci?
 
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view post Posted on 30/7/2007, 08:20
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http://www.bispensiero.it/index.php?option...=309&Itemid=109


Strascichi psicologici
Scritto da Bispensiero
giovedì 26 luglio 2007
Leggendo la esperienza di Bruno Zanin, ci è sorta spontanea una domanda che abbiamo rivolto a lui stesso. Lo ringraziamo per la sua risposta che pubblichiamo per intero, senza censurare le molti espressioni forti delle quali lo stesso Zanin si assume la piena responsabilità.

Chi è stato abusato si porta dietro, tra le tante conseguenze, anche quella di una certa inclinazione all'omosessualità? Se non siamo troppo indiscreti, potresti spiegarci un pò questo fenomeno, cioé come viene condizionata la psicologia dell'abusato?

"La santa madre chiesa è diventata un merdaio, lo sapete bene, con qua e là delle perle rare e preziose che fanno il loro dovere con abnegazione senza tamburo battente (e se questo tamburo batte non sono loro a farlo ma le loro opere).
Rispondo alle vostre domande con una premessa: ho un occhio volpino e so cogliere e leggere con uno sguardo ferite segrete e segreti inconfessabili nelle persone con cui ho a che fare o che vedo per la prima volta. Perché? Perché ho una esperienza di ragazzo prostituto in Roma negli anni 1967 '68, '69 e so riconoscere dallo sguardo l’orientamento sessuale di una persona, preti compresi, un po’ come i drogati che si riconoscono con un semplice colpo d’occhio: tra i miei ammiratori e postulanti di quel tempo molti erano preti monsignori di curia e qualche vescovo Nunzio Apostolico a Roma in missione.

Posso dire senza timore che il 50 per cento e forse ancora più del clero ha un orientamento omosessule per le ragioni che in seminario -solo maschi, la sola donna , la Vergine Maria, Immacolata e Vergine- hanno vissuto sin da bambini in un ambiente innaturale e sessuofobo, hanno avuto seduzioni, abusi dai superiori e ora è il turno loro, cose che si sanno.

Tra i ragazzi che si prostituivano come me a quel tempo, per tornare alla mia esperienza, ho fatto amicizie che sono durate il tempo che si stava assieme sui viali del Pincio, alla stazione Termini, quella era una vita precaria fuori casa in balia del destino e degli incontri. Potevi la mattina essere a Roma, il pomeriggio in una villa a Positano con cameriere in livrea e il giorno dopo nuovamente alla stazione Termini o al Pincio, miserabile come prima, più di prima perché le forbite chiacchiere del tizio erano servite solo per ingannare lusingare ed avere più abbandono nell'atto sessuale... Detto questo tra i prostituti non più giovani c'era chi senza millantare raccontava di essere stato il ragazzino di qualche pezzo grosso del Vaticano, scaricato perché non più fanciullo in fiore con un po di soldi e un lavoro da commesso o garzone presso qualche sartoria clericale o in una bottega di oggettistica religiosa, stipendio da fame, meglio il marciapiede. TUTTI questi ragazzi avevano problematiche famigliari, famiglie sfasciate, erano cresciuti tra istituti, orfanotrofi, collegi dove erano stati abusati da preti, frati, inservienti e avevano una sessualità polimorfa con turbe sessuali e una forte predisposizione ad attività autolesioniste tipo alcol e droga.
Detto questo, il mio primo orgasmo intensissimo e sconvolgente l'ho avuto con un prete..., vi allego un brano tratta da uno scritto autobiografico che presto pubblicherò:
"Tornò nella memoria di Alessandro ciò che era stata la sua vita di adolescente collegiale. Rivide la mattina nebbiosa di fine settembre nel piazzale della stazione di Padova quando era salito sulla corriera che l'avrebbe portato in collegio e fu preso dalla stessa tristezza di allora.
Che brutto posto il collegio! Tutto ciò che si svolgeva tra le sue mura gli aveva fatto orrore. La cappella era sempre ghiacciata ed ogni mattino, dopo l'alzata alle sei e un quarto, dovere scendere per forza in quella tomba di marmo, costi quel che costi, doveva stare lì a gelare tre quarti d'ora, gli occhi che si chiudevano dal sonno, e nascondere la bocca dietro il libro della messa per nascondere gli sbadigli, la messa era di una noia spaventosa, in latino, come anche il mattutino e i salmi e le funzioni religiose, e lo stesso con lo studio, si era dedicato ad entrambe con lo stesso disgusto con lo stesso senso di disciplina volontariamente accettata come veniva inculcata alle reclute dal primo momento dell'arrivo. Tutto questo per diventare un giorno prete e servire Dio.

Ma dov'era mai Dio in quella faccenda? Per tutta la vita si era portato dietro il macigno di quella educazione religiosa imposta e una sessualità che si esprimeva sotto una sola forma: da predatore, da saccheggiatore, da furfante seduttore. Come aveva subito ora lui perpetuava.
Cose da pazzi. Eppure si, era così la faccenda. Doveva attaccarsi la macina al collo o c'era una clemenza, un'attenuante, un possibile ipotetico tribunale di appello, una corte di Strasburgo che gli avrebbe fatto giustizia per la storpiatura ricevuta?
E quanti di quei disgraziati fattispecie di maniaci v'erano in giro - e si potevano vedere, incontrare nei posti frequentati abitualmente dai ragazzi molto giovani: parco giochi, campi di calcio, piscine, luna park - che con l'occhio torvo di tanti Capitan Uncino li guardavano, li desideravano, li circuivano con navigate tattiche, quanti di quei disgraziati fattispecie di maniaci che v'erano in giro avevano subito loro stessi a loro volta da bambini uno stupro, erano stati violentati, sedotti, circuiti da adulti che li avevano in custodia, che potevano disporre della loro ubbidienza e omertà com'era successo a lui ?
Quando pensava a questo gli si apriva dinanzi una landa desolata di domande senza risposta, risposte senza senso, assurde. La vita, il mondo, la morale: non tutto era logico, comprensibile e meno ancora accettabile.
Come andava messa la faccenda della sua omosessualità, per esempio? Fatto aquisito, ereditario? Fatalità, destino, predestinazione o niente di tutto ciò?

Non serve farsi domande. Era frocio ? Facesse il frocio, gli piaceva andare con i ragazzi ? Andasse con i ragazzi !

“ Si riesce ad avere tutto quello che si vuole, giovanotto, basta allungare la mano e prendere, su, coraggio! Non hanno fatto così anche con te ? Quel prete del collegio s’è fatto qualche scrupolo prima di schiaffartelo nel sedere ? E gli altri come si sono comportati ?
…………………………………………………………………….

E un ragazzo ferito dentro, nell’intimo, si prende più facilmente, se è confuso nei suoi passi, ancora meglio, e si può avere anche di più. E lui era stato un ragazzo ferito, confuso sui suoi passi.
…………………………………………………………………….

Per tutta la vita in conseguenza di ciò, una sessualità da pescecani, una sessualità che si riproponeva nelle stesse modalità, stesso copione per liberarsi, restituire ad altri, innocenti, inconsapevoli, lo schiaffo ricevuto. Che fine avrà fatto don Giustino?
Che gli altri passavano la loro vita a tormentarsi così? Bisogna avere qualche illusione, no? E perché non lui …
Padre Natale, l' eremita francescano che viveva a Lacrimone negli appennini parmensi glielo aveva detto un sacco di volte:
“No, non sei peggiore di altri, non disperare Alessandro, conosco preti e frati e pure qualche vescovo e cardinale che fanno cose peggiori, mille volte peggiori le tue senza farsi pensiero, figurati se Dio non ti ama.."
"Ma io non credo più in Dio, padre Natale! "
" Non importa, Lui crede in te! "

Che razza di discorsi, che me ne faccio della fede di Dio in me, non mi aiuta per niente a sopportare questa palla al piede!

I preti, il Vaticano hanno tanta buona volontà che queste cose non si sappiano in giro, che non se ne parli...

Io non avevo orientamenti sessuali prima di quella seduzione, poi mi sono sentito attratto in maniera sporca libidinosa incontrollabile di fare sesso nella stessa modalità subita. Sufficiente per capire. Certo non a tutti sarà stato così, a me sì"...


 
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view post Posted on 28/8/2007, 08:12
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Da rileggere con attenzione.
 
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view post Posted on 28/8/2007, 08:44
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liberiatei
view post Posted on 5/1/2008, 10:04




Con tutto il rispetto per chi da bambino ha subito abusi, cosa orribile, il suo considerare l'omosessualità una perversione sinceramente non fa che diminuire il rispetto che la sua terribile esperienza possa suscitare. Sia perché se ha finito per prostituirsi non è certo per le molestie subite, ma per la povertà in cui viveva e per la famiglia sfasciata che si ritrovava, sia perché il suo "prima della violenza non avevo orientamenti sessuali" è un po' dubbio, visto che l'orientamento sessuale inizia a formarsi (secondo le ultime ricerche) intorno ai 5 anni.
E' vero che spesso si tende a ricercare ciò che ci ha danneggiato, nel senso che molte volte, chi ha subito violenze (non necessariamente sessuali) tende a ricercare nei suoi approcci (sessuali o sentimentali) lo stesso tipo di persona che ha disprezzato (vedasi ad esempio le figlie di padri violenti o casi analoghi), ma il mischiaticcio che Zanin fa di omosessualità e violenza subita, come se le due cose fossero la stessa, sinceramente mi fa pensare, da un lato che la terapia a cui si è sottoposto non sia servita ad un granché, dall'altro che ancora cerchi qualcuno o qualcosa su cui sfogare la sua rabbia.
 
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Nessunodovràsaperlo
view post Posted on 10/1/2008, 00:54




Si credo tu abbia in parte ragione, io vivo una insopprimibile rabbia di ritovarmi omosessuale senza piacere di esserlo, senza il piacer di viverlo serenamente, senza la gioa di un amore duraturo, e la rabbia va sempre piu' contro me stesso. Sei intelligente e umano, grazie Bruno :shifty:
 
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Kulkulcan
view post Posted on 12/1/2008, 09:20




Ci sono cicatrici che nessuno può vedere, a volte crediamo che la salute mentale passa attraverso le emozioni o apparenza della gente. No non ce l'ho con te liberiatei.

Tipo: "Guarda, lui si che se la passa bene"... Balle
 
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view post Posted on 3/3/2014, 06:53
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http://csaarcadia.org/blog/2014/notizie/in...-dovra-saperlo/

APPROFONDIMENTI, NOTIZIE
Intervista con Bruno Zanin, autore di “NESSUNO DOVRA’ SAPERLO”
by redaz • 2 marzo 2014

copINTERVISTA CON BRUNO ZANIN,

AUTORE DI “NESSUNO DOVRA’ SAPERLO”
(Gianni Sartori)
Poco più che sessantenne, Bruno Zanin era già ben noto come attore.
Iniziò interpretando Titta Biondi nell’”Amarcord” di Federico Fellini, per lavorare in seguito con altri registi come Montaldo, Giordana, Ronconi, Brusati, Ferrara. E poi con Strehler al “Piccolo”, con Lucien Piutilie al Théatre de la Ville a Parigi…
Qualche anno fa, dal suo rifugio in una baita sul Monte Rosa, ha intrapreso una nuova carriera, quella di scrittore. Il suo libro “Nessuno dovrà saperlo”, pubblicato da Tullio Pironti, è stato positivamente recensito dai principali giornali italiani.
Nel romanzo, in gran parte autobiografico, un sacerdote si rende responsabile di un delitto da “macina al collo”.

D. Scrivere questo libro ha rappresentato, mi sembra di capire, anche una catarsi, una liberazione…Naturalmente è anche un libro di denuncia.

R. Io fin da ragazzo ho sempre letto, ho letto senza metodo e senza guida. Ho letto di tutto e molto disordinatamente e mi sono fatto una bastarda cultura; ma se non fosse per il mio istinto per così dir primigenio, ignorerei un sacco di cose…Leggere è la prima regola, leggere viene prima di ogni altra cosa per chi vuole dedicarsi alla scrittura, seconda regola è avere storie vere e originali da raccontare. Detto questo, personalmente alla scrittura io ci sono arrivato
per un bisogno tutto mio di tirare fuori un mondo segreto e doloroso che mi portavo dentro e premeva per uscire, un peso di cui dovevo per forza liberarmi per poter tornare a vivere. Avevo degli amici- parlo di quando ero ragazzo- a cui scrivevo delle lettere dove raccontavo ciò che mi accadeva in giro per il mondo dove, da quando ero uscito dal correzionale, me ne andavo zaino e sacco a pelo in spalla. Ad un certo punto qualcuno di loro ha cominciato a dire che non scrivevo poi così male e che non erano tutte stupidaggini quelle che raccontavo. Fellini, col quale ebbi una significativa corrispondenza durante e dopo Amarcord, fu uno di questi, ma non il primo. Elsa Morante con la quale dopo aver letto l’Isola di Arturo entrai in contatto sommergendola di lettere, me lo disse che avrei dovuto cominciare a farlo con applicazione e costanza, e me lo ridisse anche Giovanni Comisso quando lesse le sgrammaticate poesie il giorno che lo conobbi, tantissimi anni fa, ma io, io non ho mai creduto a costoro, non davo peso a questi complimenti. E poi ero troppo intento nella mia fuga ad oltranza a scorribandare per il mondo, a barcamenarmi e sopravvivere per fermarmi, sedermi davanti a una macchina da scrivere e farlo. Per me valeva il detto o si vive o si scrive. Se prima ero un sradicato saltafossi senza fissa dimora, in seguito, passato a una vita totalmente diversa dentro il vortice del cinema, vita che non era mia, vita senza tempi morti per poter esistere e restare a galla nella fiera delle vanità chiamata cinema, non avevo nè tempo nè voglia di farlo.
Finchè anni fa, un grande scrittore, Raffaele La Capria, mio vicino di casa a Roma, mi obbligò a farlo il giorno che gli raccontai un fatto accadutomi in Bosnia durante la guerra. Obbedii e la cosa portò dei risultati lusinganti, ebbi una pagina intera sul Corriere della Sera, fu la conferma che potevo scrivere, La Capria mi esortò a continuare e di fare della scrittura un metodo, una disciplina, una ricerca introspettiva. Gli ho dato retta e ho scritto”Nessuno dovrà sapelo”
Il libro racconta l’infanzia di un bambino prodigio in una povera famiglia di contadini veneti negli anni 60 destinato da tutti a diventare prete, ma che prete non diventerà; c’ è un intoppo tragico insanabile lì nel collegio dove studia che interrompe quel percorso e vocazione, invece che prete il ragazzino diventerà un piccolo delinquente, un alcolista, un emarginato. Il libro racconta una realtà scabrosa in seno alla chiesa, realtà che se in tempi andati rimaneva sotto traccia, da come sta venendo fuori in questi ultimi anni, pare non abbia riguardato solo il protagonista del mio libro, ma tante altre persone che non avevano allora voce e coraggio per farlo sapere, per chiedere aiuto, per denunciarlo. Mi riferisco alla pedofilia dei preti e alle loro vittime. Il mio libro racconta il percorso doloroso che quel ragazzino uscito dal seminario dovrà fare in un paese di campagna dove, senza alcuna delicatezza, nella totale incomprensione e indifferenza, verrà chiamato “Prete falso “; racconta cosa può essere il dopo per un adolescente che ha subito un abuso da parte di un prete , un ragazzino che trovato il coraggio di raccontarlo al padre non viene creduto ma bastonato perché per l’uomo gli è impossibile credere a una cosa del genere..

D.Spesso nella storia sono state le vittime a doversi “sentire in colpa”, mentre chi usa violenza trova il modo di autoassolversi. Gli oppressi diventano “colpevoli” di ribellarsi, le donne “colpevoli” di essere state violentate. Un meccanismo ben consolidato per perpetuare il dominio, il controllo.
Una tua considerazione in proposito…

R. Non è semplice capire questo perverso meccanismo che fa sì che chi usa violenza si auto assolve e chi la riceve si sente in colpa. Quello che so è che chi usa violenza lo fa in forza a un potere che detiene e gli viene riconosciuto. Chi la subisce è sempre una persona debole, subordinata o sottomessa a quel potere. Perché succede questo, come mai la vittima non si ribella a volte, potrebbe spiegarlo con termini più appropriati un psicologo, un psicanalista. Io so solo che ero un ragazzino tredicenne totalmente ingenuo e timido, se posso fare riferimento al mio caso personale, il prete che abusò di me era un uomo sapiente, rappresentante di Cristo, un suo ministro, verso il quale andava la mia fiducia e totale obbedienza. Chi e cosa ero io ai suoi occhi e agli occhi del mondo? Nessuno, uno dei tanti; lui invece era un bravo prete, un prete che aveva avuto un momento di debolezza, forse anche due o tre momenti di debolezza, ma era comunque un bravo prete, un ottimo professore ed infatti in seguito ha fatto carriera e io che non valevo niente divenni uno sbandato e poi un delinquente.
A chi avrebbero creduto se avessi denunciato la cosa allora? A me o al bravo prete professore? Ed infatti mio padre non mi credette e mi picchiò. Ora ho potuto farlo perché la cosa è sotto gli occhi di tutti e la Chiesa stessa ai massimi vertici lo ammette e sta facendo mea-culpa.
D. Il libro evoca una campagna veneta degli anni cinquanta-sessanta. Arretrata, economicamente e culturalmente, ipocrita, talvolta crudele, soprattutto nei confronti di chi sta “fuori dal coro”. Ti sembra che quel mondo oggi sia cambiato? Oppure ha soltanto fatto “i schei”?

R. Sono nato a Vigonovo, provincia di Venezia, un paese tagliato in due dal Brenta, che allora aveva una sola strada asfaltata; partiva da un fondale di pioppi, rasentava l’argine per perdersi più avanti allo sguardo e sboccare nel respiro della pianura infinita. E ovunque casolari, campi lavorati, vigneti, stalle, pagliai e odore di fiume e letame. D’inverno la nebbia chiudeva tutto dentro un sacco che si riapriva solo in primavera. Dentro questo paesaggio da favola, di tradizioni, di vita semplice da provare a volte una struggente nostalgia perché non esiste più, c’era anche un mondo di chiusura di diffidenza e pregiudizio, di ignoranza verso il nuovo, il forestiero, il diverso. Oggi il mio paese è tra i più ricchi del nord est industriale, patinato paesaggio dove le ville palladiane si alternano a quelle in stile Hollywood dei nuovi ricchi. Giardini impeccabili, muri di recinzione alti come campanili e dietro questi, cani di razza ariana che ringhiano a chiunque passi accanto. E non vedo quanto sia cambiato e diverso da allora, c’è una apertura solo apparente, una mentalità liberale solo nella forma, ma vai a vedere nel concreto, lo straniero, l’emigrante, il diverso, è accolto ed accettato solo se porta un profitto, se sta tranquillo, se non da troppo nell’occhio e così via. Il mondo di adesso è pervaso da una allegria isterica, una felicità che illumina la vita per qualche ora nei fine settimana e che fa credere che stia accadendo chissà cosa, ma per fortuna né allora ne adesso tutti sono così.
Ci sono stati e ci sono ancora anime belle e generose, tolleranti e accoglienti, solo che non appaiono in tv, non ci tengono ad apparire, farsi applaudire. Qualcosa forse di buono c’è oggi in confronto di allora: hanno chiuso per esempio i manicomi, ora i matti sono tutti fuori e si mescolano ai cosiddetti sani e non si sa più chi lo sia e chi no. Se riaprissero non ci sarebbe posto dove metterli tutti, io sarei tra quelli che rinchiuderebbero per primo.
D.Negli anni novanta sei stato per tre anni in Bosnia, prima come corrispondente e in seguito come volontario per una Ong francese, trasportando viveri e medicinali ai profughi. Hai definito la Bosnia “una patria ideale, da difendere”…Ce ne puoi parlare?

R. Preciso che sono stato volontario in un primo tempo, in seguito entrai a far parte dall’ Ong francese Emmaus Internazionale, fondata dall’Abbè Pierre, come responsabile stipendiato, ma non credo che rifarei ancora una scelta del genere.

D. Perche?

R. Perché ho visto e capito laggiù cose che mi hanno cambiato molti punti di vista, in primis l’ opinione che avevo sulla guerra, sulle guerre in genere e anche sugli aiuti umanitari e le organizzazioni umanitarie di cui ho fatto parte. Lo stesso vale per la politica messa in atto dai responsabili delle parti coinvolte nel conflitto e così per i governi che hanno preso parte alle trattative per risolvere la spinosa questione. In poche parole, per usare un eufemismo, la guerra è comunque e sempre un gran merdaio, dove tutti hanno una buona dose di torto e responsabilità, nessuno ha sufficiente ragione per dire: sono totalmente dalla parte della ragione, sono stato aggredito ingiustamente. Ci saranno anche delle eccezioni, e come tutte le esperienze sono soggettive, se sono arrivato a certe conclusioni non è detto che altri la pensino in modo del tutto opposto.
Cosa è stata per me l’avventura bosniaca? Un giorno, anni fa, sentii alla radio e poi vidi in Tv sequenze tremende di guerra, si parlava di un paese vicino all’ l’Italia dove accadevano cose inimmaginabili. Passavano al Tg scene raccapriccianti che solitamente si vedono solo nei film: bombardamenti, violenze, villaggi bruciati, gente cacciata dalla propria terra, esodi strazianti di donne e bambini terrorizzati, piangenti. E decisi così su due piedi, senza tanto pensarci, di andare a vedere. Erano l’infelicità o forse la voglia di evadere, l’attrattiva del rischio, che mi spinsero laggiù a cercare un valore e una ragione di vita? Ancora non mi è chiaro. L’ infelicità ha questo di straordinario, che ci fa uscire a volte da noi stessi e frantuma ogni struttura protettiva, ci stana dalla nostra appagante mediocrità per scaraventarci in mare aperto in balia degli eventi e del destino. Ed ecco che partii, in testa una quantità di propositi incantevoli, una chiarezza di coscienza così acuta da esserne eccitato come da uno stimolo fisico, quasi affrontassi una avventura estrema; ma oggi so che forse era più per arrestare la caduta e attutire l’impatto con il fondo del baratro dove stavo precipitando che per portare aiuto a gente che non conoscevo. Poco dopo il mio arrivo incontrai per caso un altro italiano che s’era mosso per una ragione più che nobile, quella di andare laggiù a cercare e portare in salvo la famigliola di un giovane bosniaco musulmano conosciuto a un semaforo di Lecco, rimasta bloccata in un villaggio non lontano da Sarajevo. E mi accodai a quella impresa romantica e sgangherata senza una carta geografica, senza sapere una parola di quella lingua, senza sapere chi combatteva contro chi, senza sapere cos’era una guerra. E quanto più ci inoltravamo nel territorio dove uno spettacolo maestoso si andava presentando ai nostri occhi, un esodo biblico in tutta la sua grandiosità e caos, ovvero migliaia e migliaia di civili in fuga con ogni mezzo, carichi oltre il credibile di masserizie, avvolti da una inverosimile nuvola di polvere, trasfigurati dalla stanchezza, tanto più la mia mente lavorava, tesseva instancabile progetti di protezione e salvezza per quella gente di cui da subito m’ero invaghito, a cui ciecamente mi votai. E quanto più in fretta andava la nostra macchina in direzione opposta a quel flusso senza fine, tanto più ero esaltato dall’immaginazione, avevo come la certezza di essere stato chiamato a una missione dove serviva solo il mio sì, la mia adesione a tempo pieno, la mia furbizia e quanto di meglio o di peggio avevo imparato nella mia strampalata vita. Non tutto mi era chiaro, né razionalmente comprensibile, ma sapevo, sentivo che tutto mi sarebbe stato rivelato, chiarito in seguito. Non ero io a creare le circostanze, queste mi attendevano, erano misteriosamente lì in attesa di me. Si era risvegliato l’idealismo e tutto il romanticismo che da bambino aveva animato il mio cuore, l’ideale cioè di fare il samaritano. Avevo la sensazione di aver ritrovato un cammino perduto, perduto per una colpevole distrazione, e di essere lì lì per rimpossessarmi della mia parte più autentica e genuina. A tal punto ne ero convinto che, una volta che fummo catturati e poi rilasciati dai serbi, mi sono proiettato a capofitto a servire la causa dei musulmani che a buona ragione ritenevo gli aggrediti, le vittime per eccellenza di quella barbarie. E’ stata questa la dinamica e il ragionamento, oppure, oppure ero precipitato senza rendermene conto in un delirio mistico?
Per tutta la durata della guerra fui compenetrato da idealismo astratto ovvero dall’emozione, come si fa a spiegare una cosa del genere?
La mia ignoranza della lingua poi mi ha impedito ogni ragionamento e approfondimento sulle questioni che riguardava da vicino quella gente, la mentalità che avevano dacché si erano liberati, dopo decenni di regime comunista, in un paese dove più popoli, più etnie e religioni erano vissute (o erano state costrette a vivere?) insieme. Dominato e affascinato da questa insolita irripetibile avventura mi crogiolavo e mi beavo a essere il buon samaritano giunto al momento giusto nel posto giusto.

D. In un articolo apparso sul Corriere della sera ricordavi la figura di un mercenario tedesco che combatteva per i bosniaci e che aveva tentato di andarsene, forse disgustato dalla brutalità della guerra. In seguito “Heinz il mercenario” si è tirato un colpo alla testa…Cosa puoi dirci delle “mutazioni” che la guerra produce nelle persone, sia nelle vittime che nei carnefici?
Al tempo della Guerra Civile Spagnola, Buenaventura Durruti diceva che “alla guerra si diventa tutti sciacalli”…

R. Guarda, ho scritto un altro libro dove questi mutamenti e alchimie che la guerra produce sulle persone sono osservati e raccontati, naturalmente dal mio punto di vista in quanto ero lì presente. La guerra non solo tira fuori ciò che in peggio o in meglio sta nell’uomo e alla massima potenza, ma molto, molto di più essa produce o distrugge. Un esempio lo abbiamo dall’ultima guerra mondiale. Basta guardare ai nazisti, con che raffinatezza e professionalità e genio hanno programmato e poi messo in atto lo sterminio di massa degli ebrei, omosessuali, zingari e testimoni di Geova inclusi. E non eravamo al tempo delle caverne ma in piena epoca di civiltà e progresso scientifico, non barbari ma appartenenti a una nazione cristiana. Oggi se entri in una sala giochi, quali sono i giochi che maggiormente sono gettonati dai ragazzi? Quali videogiochi sono maggiormente venduti per le play station? Quelli di guerra. Perché? Lo sai tu? Beh io meno di te, credo che sia indistruttibile nell’uomo l’elemento barbarico e l’istinto elementare dell’annientamento del nemico, e per nemico si intende tutto quello che è diverso e lontano da te. Anche qui da noi dove non si combatte una guerra abbiamo schieramenti pronti a combattere e distruggere ipotetici nemici, troppo facile indovinare di chi parlo. Chi ha detto a proposito dei musulmani che chiedevano una moschea:”che vadano a pregare e a pisciare nel loro deserto”? Un povero mentecatto privo di cultura o un dirigente politico di un certo calibro e livello?

Heinz era un gigante alto 2 metri e passa , finito in Bosnia a fare il mercenario; eppure non è riuscito a compiere il suo sporco lavoro senza esserne sopraffatto, il male fatto si è trasformato in pentimento e vergogna e si è ucciso, ha compiuto alla lettera un precetto evangelico si potrebbe dire, alla macina ha sostituito il mitra. Motivo? S’era reso complice dell’ uccisione a sangue freddo di un ragazzino disarmato e indifeso.

Sovente i soldati di ritorno dal fronte venivano in abiti borghesi nel magazzino dove tenevo e distribuivo gli aiuti umanitari che attraverso la mia organizzazione andavano alla popolazione della cittadina dove operavo. Era in una viuzza nella parte vecchia della città; costoro venivano a chiedere qualcosa per i loro bambini e nell’attesa di essere accolti si sedevano sui sacchi di farina o sugli scalini e raccontavano ai ragazzi che mi aiutavano le ultime novità del fronte, le fortunate o catastrofiche offensive o controffensive, le perdite inferte al nemico o subite, gli assalti ai villaggi, descrivendo la situazione, tale villaggio ripreso, tot serbi uccisi, tot fatti prigionieri, tot armi portate via al nemico, tot morti, tot feriti.
Ascoltavo quei discorsi e vedevo che le crudeltà, i massacri, la pulizia etnica che il mondo indignato condannava, sui quali i media versavano fiumi di inchiostro a renderli ancora più raccapriccianti e assurdi, non erano perpetrati solo dai serbi a danno dei poveri musulmani o croati aggrediti, ma anche costoro, che lamentavano d’esserne vittime, similmente le compivano e se non le stesse, di peggiori e più atroci. Ciò che i serbi avevano fatto loro, essi restituivano con gli interessi maturati. E si vantavano pure di compierle queste imprese, le raccontavano come si racconta la trama di un film appena visto o la cronaca di una partita di calcio.
Ero allibito, incredulo, non potevo credere che quei ragazzi cosi apparentemente miti e simpatici, compagnoni, sempre pronti alla battuta, allo scherzo, un tempo contadini, operai, studenti ora soldati per necessità, bravi ragazzi tutto sommato che aiutavano le vecchie nonne a spingere le carriole piene di taniche d’acqua nelle ripide salite e quando c’era un pallone giocavano come ragazzini con i bambini, una volta al fronte si facessero crudeli e sanguinari come dai racconti, capaci di azioni simili… poteva essere vero quello di cui si vantavano? Davvero era indistruttibile nell’uomo l’elemento barbarico e l’istinto elementare dell’annientamento del nemico?
Così, per rendermi conto se erano spacconate o fatti veri, un giorno mi presentai nella caserma di un gruppo di giovani squadristi, la jeep piena di ogni ben di Dio e facendomi patrocinatore della loro squadra di calcio, offrii quel carico al comandante chiedendo, come controparte, un ragionevole favore: poter andare sulla linea da lui presieduta a dare un’occhiata. Questo per poter riferire alla radio per cui lavoravo la vita inumana a cui i suoi ragazzi erano costretti per far fronte alla tracotanza dell’aggressore serbo militarmente superiore. Avrei anche filmato, se me lo acconsentiva, per fare un documentario che uno volta messo a punto era mia intenzione regalare alla città a guerra finita.
Il comandante guardò con soddisfazione la merce che veniva scaricata, fece portare caffè e grappa e dopo alcuni convenevoli di rito e di cortesia tipica dei musulmani, acconsentì. Acconsentì al patto che mi tenessi prudentemente sempre al coperto, non prendessi alcuna iniziativa senza averla concordarla con lui o il suo secondo e non ne facessi voce con il comando di brigata di questo nostro accordo che doveva essere e rimanere riservato e segreto. Ci stringemmo la mano. Affare fatto. Il comandante mi fece accompagnare sul fronte.
La vita di trincea, gli angusti bunker densi di fumo dove l’odore del sudore e della polvere da sparo creava un eccitante lezzo di gioventù votata alla morte, mi avvolse e stravolse conquistandomi. Il mio cuore si aprì e si sciolse per quei soldati così giovani, così mal equipaggiati e malmessi eppure arditi e coraggiosi, saldati insieme da antica frequentazione, dalle avventure adolescenziali, così protesi anima e corpo, uniti e inseparabili nelle azioni. Tornai e ritornai altre volte, feci amicizia e mi legai ad alcuni, i più diretti nei sentimenti; per questi soldati provai una dolorosa ammirazione, mi sentii uno di loro, solo e perduto come loro, generoso e irresponsabile come loro, assetato di grappa e canzoni come loro. E in loro compagnia le giornate volavano via tra dettagliati racconti di terrore e morte, scherzi e lazzi goliardici, giochi di carte, partite a scacchi, lettura di giornali, bevute di grappa, canzoni e caffè, e le notti erano calme e tranquille, nei soldati c’era l’idea che quel tratto di linea fosse sicuro e inattaccabile, e come la zona era in aperta campagna, lontana da qualsiasi obiettivo, strada o presidio strategico, questa convinzione incoraggiava e giustificava. Vi furono comunque delle scaramucce, un paio di azioni di disturbo e in primavera una grossa offensiva, appoggiati da forze provenienti da altri corpi. Vi partecipai rimanendo nelle retrovie. Passai la notte precedente spiando tutto quanto emergeva dalla tenebra dalle colline circostanti battute dai canti dei grilli, notte passata con i ragazzi che si caricavano a vicenda il morale, filmai l’attesa e filmai lo scontro che avvenne all’alba nel folto di un bosco di faggi ai margini di un villaggio musulmano perduto e ripreso più volte. Provai il brivido della guerra in diretta, provai l’ansia di vedere con quale noncuranza e vaghezza quei ragazzi, sani e giovanissimi, il viso pitturato come selvaggi della Amazzonia andassero, con quel terrificante aspetto, ad affrontare i serbi di gran lunga meglio equipaggiati e superiori in armamenti, senza tenere presente gli svantaggi, calcolare gli imprevisti, gli scarsi margini di riuscita che avevano . E il frastuono delle raffiche di mitra, il fragore delle esplosioni delle granate era tale da sospendere ogni facoltà percettiva. Dimmi tu quanto mi bastava a quel punto passare dalla telecamera a imbracciare un mitra? Questa è la guerra, una sorta di gioco perverso dove i morti e i feriti, le distruzioni, il sangue, il dolore sono reali.
D. Guardando al tuo futuro di scrittore, come vorresti concludere?

R. Non ho mai programmato nulla nella mia vita in senso di cosa farò o non farò domani, mi sono sempre lasciato andare al vento delle eventualità e della casualità. Può essere che continui ancora a scrivere- e un paio di libri sono già pronti se è per questo. Mi verrebbe da dire come il grande poeta portoghese Fernando Pessoa che la vita è un viaggio sperimentale fatto involontariamente e la destinazione è ignota. Avrei mai pensato quando a 18 anni calpestavo i marciapiedi di mezza Europa e dormivo sotto un ponte solo e malato di scabbia e guardavo trasognato una troupe che girava non so che film che un giorno ne avrei girato uno da co-protagonista con Federico Fellini ? Avrei mai pensato che il rospo che mi portavo dentro e che mi ha reso un ragazzo solitario e musone oltre che autolesionista sarebbe diventato un giorno un libro e che della gente che mai ho conosciuto e che lo ha letto mi avrebbe scritto lettere tanto belle e incoraggianti?

Veramente io mi aspettavo anche un’altra domanda, quella che mi hanno fatto in molti. Come mai un promettente attore ha abbandonato quella carriera quando ci sono persone che farebbero non si sa cosa per una semplice apparizione in TV?

La verità è questa: innanzitutto era lontano da me anni luce l’idea di diventare attore e questo vuol dire molto. Se non hai l’ambizione, la passione o chiamiamola vocazione per fare una certa cosa e la fai lo stesso, la fai male e stai male, se poi la fai anche bene, e io ero un discreto attore, così almeno diceva la critica di quel tempo, allora sorge dentro di te una voce implacabile e urticante che ti dice: non vedi che ti stai prostituendo? Stai imbrogliando tutti e anche te stesso, nulla di ciò che ottieni con questo mestiere è meritevole, tanto meno il guadagnato, troppo facile, i soldi che ti danno non te li meriti e così le lodi la fama e l’ ammirazione. Questo è quello che ho sentito per tutto il tempo che ho fatto l’attore conducendo una vita non autentica, dissipata e filtrata attraverso questo equivoco. Il malessere è poi cresciuto con la consapevolezza che non riuscivo ad amare assolutamente quel lavoro anche se mi dava l’occasione di vivere dentro una favola. Credo sia stato il bisogno di realtà, la voglia di crescere, di rendermi indipendente, di prendermi cura di me, di sanare vecchie ferite. Ecco, la scrittura mi ha dato questa opportunità. Sono ancora agli inizi, diciamo, agli inizi del cammino, e non è mai troppo tardi per cominciare a mettere a posto le cose, e poi meglio tardi che mai, meglio coltivare il proprio orticello che entrare in un mondo che non è il proprio, un mondo in cui si è destinati solo ad essere usati. Il mio orticello oggi è la scrittura. Con essa voglio avvicinarmi al massimo a quello che sento di essere.
Gianni Sartori



nda Questa esperienza di Bruno Zanin mi sempre un esempio significativo di come il “Potere” (nelle sue molteplici manifestazioni) possa calpestare l’esistenza di tanta gente più o meno indifesa. Segnalo che l’articolo venne proposto (ingenuità del sottoscritto?) anche se in forma ridotta a La Voce dei Berici, giornale diocesano vicentino. Mai pubblicato. (GS)
 
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Io, molestato da don Pierino Gelmini

Giovedì 13 Settembre 2007
di Caterina Coppola CaterinaCoppola
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Io, molestato da don Pierino Gelmini

Abbiamo raccolto la testimonianza di Bruno Zanin, molestato da don Gelmini. "Ci portò a casa sua. Mentre ero in bagno entrò e si rivelò per quello che era. Ero solo un ragazzino".

È un uomo maturo, ormai, Bruno Zanin, scrittore, giornalista free lance con un passato da attore, un uomo che ha sofferto molto prima di trovare il modo di vivere con serenità il suo orientamento sessuale. Colpa di una giovenzza vissuta in tempi molto diversi da quelli odierni, forse, ma anche delle esperienze, di abusi e seduzioni devianti subite da ragazzino in un collegio salesiano.


Ma è Don Pierino Gelmini che è diventato il chiodo fisso di Bruno.

«Erano i tempi in cui la Beat Generation cominciava a confrontarsi con gli Hippies, i capelloni, come ci chiamavano allora - ci racconta Bruno -. Io ero scappato di casa e mi ritrovavo insieme agli altri ragazzi a Piazza di Spagna a Roma. Don Gelmini ai tempi si faceva chiamare "il monsignore", e veniva a cercarci nei nostri luoghi di incontro, nei locali che erano diventati le nostre mete preferite. Ci raccontava che la Chiesa e il Vaticano erano molto vicini ai nostri ideali e che se Gesù fosse vissuto in quel tempo, sarebbe certamente stato un capellone. Era molto carismatico ed istrionico, ma la voce che allungasse le mani e che ci avesse provato con qualcuno aveva cominciato a circolare. Insomma, che fosse omosessuale si diceva già con una certa insistenza».


la voce che allungasse le mani e che ci avesse provato con qualcuno aveva cominciato a circolareGli anni a cui si riferisce Bruno sono gli anni della contestazione, il '68 e il 69, quelli in cui si cominciava a parlare di 'rivoluzione sessuale'. «C'era un altro religioso che frequentavamo allora - continua Bruno -, un diacono francese che aveva una soffitta dietro Piazza Navona dove appoggiavamo i nostri zaini e, ogni tanto, dormivamo. Lui era un bravo cristiano. Aveva un orientamento omosessuale anche lui, ma nessuno si è mai lamentato di comportamenti molesti come invece avveniva con Gelmini, del quale tra l'altro, si diceva che fosse molto ricco. Parlava tanto di ideali hippy, di ritorno alle origini e alla natura, ma andava in giro in Jaguar».

Nonostante siano passati molti anni da questi fatti, i ricordi di Zanin sono ancora molto limpidi.

«Successe poco tempo dopo che mi trovavo a Villa Borghese con un amico e lui si avvicinò. Non so se si ricordasse di me o se fu un caso. Cominciò a fare il simpatico e ci chiese se avessimo fame - ricorda Bruno -. Ci invitò a mangiare qualcosa in trattoria e poi, dato che era inverno e faceva molto freddo, ci portò a casa sua perché Quando capì che noi non avremmo ceduto, disse che questi erano 'scherzi da prete', cioè le cose che fanno i preti perché non possono andare con le donne.potessimo farci una doccia. Mentre eravamo in bagno a lavarci, entrò e si rivelò per quello che era. Insisteva, nonostante i nostri rifiuti. Quando capì che noi non avremmo ceduto, disse che questi erano 'scherzi da prete', cioè le cose che fanno i preti perché non possono andare con le donne. Ci vergognammo moltissimo del suo atteggiamento. Era un uomo di 40 anni passati e noi dei ragazzini. E poi era un uomo di chiesa! E io, che avevo vissuto delle bruttissime esperienze, non li sopportavo proprio i tipi come lui, per questa loro doppiezza che li portava a predicare una cosa e fare, poi, l'opposto».

Niente di nuovo, per Bruno, ma ciò nonostante una situazione sempre dolorosa e imbarazzante. L'episodio finì lì. Gelmini, stando alla testimonianza di Zanin, trovò il modo per «chiudere la cosa e togliersi il capriccio» precisa Zanin. I ragazzi però, a modo loro, si vendicarono. «Aveva la casa piena di oggetti di ogni genere: crocefissi e madonne d'oro, d'argento di tutti i tipi - racconta Bruno -, c'erano anche statue , come dire, pagane, nude. Beh, scegliemmo un crocefisso che secondo noi era d'oro e diamanti. Lo vendemmo a Porta Portese per 1.000 lire: era falso».

Continuano a passare gli anni e Bruno diventa attore (reciterà, tra l'altro, il ruolo di Titta Biondi in 'Amarcord' di Fellini). «Un giorno leggo sui giornali che il tal monsignor Gelmini è finito in galera con accuse pesanti e il giornalista non nasconde che ci sia stato anche qualche problema per le sue abitudini sessuali rivolte a minorenni».


Da quel momento Bruno perde le tracce di Don Gelmini. Sparito. Zanin comincia a fare i conti con sé stesso e con la sua omosessualità. «Non avevo abbandonato la ricerca di una spiritualità. Ero omosessuale? Non lo ero? La cosa non mi era chiara: avevo storie con ragazze, ma mi innamoravo anche di ragazzi e questo non lo accettavo. Le esperienze vissute in collegio mi avevano segnato, la mia sessualità era stata pervertita e violata - racconta Bruno, che su questa vicenda ha scritto un libro, 'Nessuno dovrà saperlo' - Non ero gayo, nel senso di gioioso, come si dice oggi. Ero, invece, disperato. Ho provato più volte il suicidio e sono stato in un ospedale psichiatrico. Ho cercato una risposta nella spiritualità ovunque potesse essere: nell'induismo, nello yoga, nella preghiera del cuore . Una volta feci un lungo pellegrinaggio a piedi fino ad una comunità religiosa di Spello, tenuta da un laico, Carlo Carretto ex presidente dell'Azione Cattolica, che si era opposto alle ingerenze della Chiesa in questioni come l'aborto e il divorzio". Nell'ex convento umbro Bruno fu sistemato in una cella insieme ad un altro ragazzo. "Preparati", mi dissero, "quel ragazzo ha problemi di droga" - ricorda Zanin -. "È scappato da una comunità di recupero ed è in crisi d'astinenza. Non ti farà dormire". Quella notte non dormimmo, ma lui mi raccontò le sue esperienze. A cominciare da quella nella comunità da cui era scappato». Il centro in cui si era ritrovato quel giovane, era uno di quelli gestiti da don Gelmini.


Domani pubblicheremo la seconda parte delle confessioni di Bruno Zanin.
 
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