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Crimini contro l'umanità: estradizione per don Reverberi. Ma l'Italia pretende un volo in prima classe.., Fuggito dall'Argentina per i crimini del regime di Videla dice tranquillamente messa a Sorbolo

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view post Posted on 17/12/2012, 15:53
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Fuggito dall'Argentina per i desaparecidos della dittatura di Videla

DON-FRANCO-REVERBERI-1


www.corriere.it/cronache/12_dicembr...cb7544763.shtml
Il sacerdote è a Parma: fu cappellano militare sotto il regime
Il prete dei «desaparecidos»
adesso dice messa a Sorbolo

Ricercato dal'Interpol, «assisteva alle torture in Argentina»
Il parroco, 75 anni, accusato di crimini contro l'umanità

Il prete ricercato dall'Interpol

SORBOLO (Parma) - « Wanted Persons». La foto segnaletica dell'Interpol è negli uffici di polizia di mezzo mondo. Ritrae un uomo anziano, vestito da prete, con il collarino bianco che spunta dall'abito nero. C'è un mandato di cattura internazionale. Non è un truffatore in uno dei suoi tanti travestimenti. È davvero un sacerdote, compirà 75 anni la vigilia di Natale. È di Sorbolo in provincia di Parma, due passi dal Po. A 11 anni, nel '48, si trasferì con la famiglia in Argentina dove poi divenne prete, curando per decenni la sperduta parrocchia di Salto de Las Rosas, vicino alla cittadina di San Rafael, due passi dalle Ande.

Si chiama Franco Reverberi. L'accusa è tremenda e arriva dall'esito di un'inchiesta della procura federale di San Rafael che pochi giorni fa ha ordinato l'arresto di 35 persone: crimini contro l'umanità. Sono quasi tutti ex militari o agenti dei servizi segreti che avrebbero ordinato, coperto o eseguito sequestri, torture e omicidi compiuti sotto la dittatura militare di Jorge Videla oltre 30 anni fa. Don Franco, sentito tempo fa in tribunale, aveva giurato di non saper nulla di desaparecidos o torture a San Rafael.

Ma come ci è finito in questa storia un parroco di campagna, un «missionario distaccato dalla diocesi di Parma» come si autodefiniva? Chi è don Franco Reverberi? E dov'è ora?
L'immagine di quel colletto bianco che spunta dal clergyman si è impressa negli incubi di alcuni uomini torturati, più di trent'anni fa, dai militari del regime argentino. Affermano che il sacerdote fosse don Franco e che era lì, in piedi, davanti a loro, insieme ai torturatori. Per circa due anni, dal 1980, don Franco fu cappellano militare con il grado di capitano a San Rafael.
«Iba vestido - ha raccontato Roberto Rolando Flores, ex detenuto torturato - con zapatos, pantalón y camisa y saco de color negro y llevaba la cintita blanca en el cuello». Le testimonianze sono agli atti dell'inchiesta della procura, avviata nel 2010.

Tra gli arrestati vi sarebbero anche responsabili diretti dei crimini della dittatura. Erano quelli che con i famigerati Ford Falcon verdi del regime seminavano terrore nei villaggi: incappucciati piombavano di notte nelle case e sequestravano i dissidenti. Molti giovani venivano incarcerati e torturati. Di altri non si seppe più nulla. Tra il 1976 e l'83 si conteranno complessivamente 30 mila desaparecidos. L'ex dittatore Videla, 87 anni, oggi è in carcere a Buenos Aires, sconta due ergastoli più 50 anni per crimini contro l'umanità.

Il sacerdote italiano non avrebbe avuto un ruolo attivo, ma avrebbe assistito di persona alle torture senza denunciarle, un fiancheggiatore insomma. «La presenza di un sacerdote al momento della tortura - ha efficacemente sintetizzato uno dei procuratori - aumenta la sofferenza della vittima che, sola e abbandonata, non può nemmeno confidare in Dio: il suo rappresentante è lì in quell'inferno». Ma era davvero don Franco? Per ora sono solo sospetti. Nessun giudice di merito si è ancora pronunciato. È un fatto però che l'autorità giudiziaria argentina abbia chiesto pochi giorni fa la collaborazione internazionale per l'arresto di don Franco. Irreperibile.
Il don «argentino» ogni tanto tornava in Italia a trovare gli amici, soprattutto il suo coetaneo don Giuseppe, parroco di Sorbolo. La chiesa è di fronte al municipio e domina una grande piazza. L'abitazione del parroco è dietro la chiesa. E lì è ospite don Franco Reverberi, «wanted» in Argentina, ma tranquillo a Sorbolo dove celebra messa e confessa i fedeli. È conosciuto e amato. È nel suo paese natale, aiuta l'amico don Giuseppe. Basta suonare il campanello e risponde. Atmosfera da oratorio, bambini che vanno e vengono.

L'argomento è scontato: Argentina. Don Franco sembra sereno. «Mai saputo che a San Rafael c'erano quelle cose. Sì, io ero cappellano militare, il vescovo mi disse di andare a preparare i soldati per la comunione; celebravo messa, confessavo, facevo catechesi. Ho giurato e detto soltanto la verità: mai saputo e tantomeno assistito a sessioni di tortura». Don Franco è arrivato in Italia l'anno scorso e ci è rimasto per problemi di cuore. I medici sconsigliano il rientro in Argentina. E le testimonianze, don Franco? In quattro hanno giurato di averla vista durante le torture: «Io ho detto la verità e non so come possano sostenere queste cose: i fatti risalgono al 1976 mentre io sono stato cappellano nel 1980 e, ripeto, non ho mai saputo nulla». Ha un avvocato? «No perché non c'è nulla». Ma lei lo sa che c'è un mandato di cattura internazionale nei suoi confronti? «Non mi hanno mai detto niente». Ecco, questa è la segnalazione dell'Interpol con la sua foto. La guarda, allarga le braccia: «Io sono un prete, ho detto la verità. Mi guardi in faccia: le sembro uno che stava con i torturatori di Videla?». È sereno, è nella sua Sorbolo dopo 64 anni in Argentina. Saluta, torna ad aiutare il parroco. C'è sempre qualcuno da confessare. Magari uno dei carabinieri della caserma che è nella piazza della chiesa, a 50 metri.

Mario Gerevini
[email protected]

http://parma.repubblica.it/cronaca/2012/12...entra-48946141/

Don Franco "barricato" in canonica
Parroco: "Lo conosco, non c'entra"
Il sacerdote colpito da un mandato internazionale di rintraccio non ha voluto parlare con i cronisti. Aveva già respinto le accuse di aver assistito alle torture dei dissidenti del regime di Videla, quando fu cappellano militare in Argentina LEGGI
Lo leggo dopo

Don Franco "barricato" in canonica Parroco: "Lo conosco, non c'entra"

La piazza è immersa nella foschia, la decorazione a forma di stella cometa sul portone della chiesa parrocchiale rimane spenta. Poche persone intrizzite in giro, bar pieni di anziani che tra una partita a carte e un bianchino si passano i quotidiani. Nel centro di Sorbolo la mattinata sembra scorrere grigia e tranquilla.

Ma basta aggirare la chiesa per raggiungere il cortile della canonica sul retro per capire che qualcosa ha acceso i riflettori della stampa su questo centro di meno di diecimila anime sul confine tra le province di Parma e Reggio Emilia. In quella canonica, da cui fanno capolino alle finestre per controllare se giornalisti e telecamere sono ancora in attesa, c'è un ricercato internazionale per crimini contro l'umanità. Qualcuno che mai ti immagineresti nella lista "wanted" dell'Interpol, con tanto di fotografia pubblicata sul sito.

L'anziano parroco Franco Reverberi, 74 anni, nei giorni scorsi è stato colpito da un mandato di rintraccio della Procura federale di San Rafael, Argentina, che ne ha chiesto l'arresto LEGGI. Il sacerdote, insieme ad altre 34 persone tra ex militari e agenti dei servizi segreti, avrebbe assistito alle torture perpetrate dal regime di Videla contro i dissidenti. Questo più di trent'anni fa, quando per due anni fu cappellano militare in Argentina, paese dove ha trascorso gran parte della vita dopo essere
espatriato con la famiglia all'età di undici anni.

Solo da un anno don Franco è tornato nel suo paese natale, Sorbolo. Qui assiste il parroco nelle funzioni, dice messa, si occupa delle confessioni. E ora che il Corriere della Sera ha fatto emergere il caso che lo collega a una pagina nera della storia sudamericana, l'uomo della strada assicura che "tutti si chiedevano perché fosse tornato". I giornalisti della stampa nazionale e locale vorrebbero una risposta direttamente da don Franco, ma lui rimane "barricato" nella sua stanza. Ai cronisti che lo cercano rispondono con gentili dinieghi il parroco don Giuseppe Montali e il suo predecessore don Ermenegildo Pesci.

"Lo conosco abbastanza da essere sicuro che queste accuse non hanno fondamento" dichiara don Montali (nella foto, ndr), che ha cercato invano di convincerlo a parlare con la stampa. Ma allora perché questo silenzio? "Per ragioni di convenienza, per non essere fraintesi".

Don Reverberi sarebbe stato indicato da quattro vittime del regime come il parroco presente alle sedute di tortura. Non vi avrebbe preso parte attivamente, ma la sola presenza e l'omessa denuncia gli sono valsi un mandato d'arresto, trent'anni dopo il suo presunto coinvolgimento. Lui ha già dichiarato alla stampa e all'autorità giudiziaria di San Rafael la sua estraneità ai fatti, sostenendo che questi sono avvenuti nel 1976, quattro anni prima della sua nomina a cappellano militare. Ora il destino di don everberi passa al Governo. L'iter per l'estradizione, infatti, contempla diversi passaggi tra il Ministero degli Esteri, della giustizia e la Corte d'Appello di Bologna. Vista l'età dell'indagato e il fatto che l'Agentina prevede la carcerazione preventiva per quel tipo di reati, sembra improbabile che venga concessa. Don Franco, intanto, manda a dire di essere "sereno". Ma non in grado di affrontare gli obiettivi della stampa. (m. c. p.)


(17 dicembre 2012)

Edited by pincopallino1 - 10/7/2023, 22:46
 
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view post Posted on 29/8/2013, 06:25
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Papa Bergoglio nasconde prete che assisteva bibbia in mano gli squadroni della morte

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www.articolotre.com/2013/08/padre-r...di-parma/200056

Padre Reverberi, il prete accusato di crimini contro l’umanità, si nasconde in una parrocchia di Parma

padre reverberi boschi-R.P.- 28 agosto 2013- E’ ricercato per crimini contro l’umanità, fuggito dalla provincia di Mendoza.

Il suo nome è Franco Reverberi Boschi, un sacerdote che, durante la dittatura di Videla, ricopriva il ruolo di assistente cappellano dello Squadron VIII di San Rafael ed attualmente, secondo l’Interpol, ha trovato rifugio in una parrocchia di Parma.

Il mandato di cattura internazionale, nei confronti del prete settantacinquenne, è stato richiesto dal procuratore di San Rafael, Francisco Josè Maldonano e dal giudice federale Ariel Puigdengolas.

La richiesta di estradizione è stata inoltrata alla magistratura italiana, ostacolata a quanto pare dalla curia del nostro Paese. Estradizione al vaglio del Tribunale di Bologna.

In questo contesto, la sede dell’Assemblea permanente per i diritti dell’uomo di San Rafael, ha rivolto un mese fa un appello a papa Bergoglio, attraverso il Nunzio apostolico argentino, monsignor Emil Paul Tscherring, invitando il pontefice a "intercedere, ordinare, o istruire qualsiasi azione che ritenga rilevante affinchè Franco Reverberi sia sottoposto a procedimento giudiziario in Argentina per accertare la sua condotta la sua criminale o confermare la presunzione di innocenza sotto il pieno godimento delle garanzie costituzionali e Stato di diritto democratico ".

Le responsabilità di padre Reverberi sono emerse duranti il primo processo per crimini di guerra celebrato a San Rafael nel 2010. Inchiodato dalla testimonianza di cinque vittime che hanno descritto nel dettaglio le torture che hanno dovuto subire nel centro clandestino di detenzione, tristemente noto come Casa Dipartimento.

Uno di loro, Roberto Flores, ha affermato che il sacerdote non ha preso parte alle violenze in prima persona, ma ha assistito alle torture inflitte ai prigionieri impassibile, con la Bibbia in mano.

Lo ha minuziosamente descritto, di carnagione olivastra, pantaloni, camicia e scarpe nere, colletto bianco e mai in abito talare.

Un altro sopravvissuto, Sergio Chaqui, ha aggiunto che mai, neppure dopo le torture, don Reverberi avrebbe portato un conforto quantomeno spirituale, mai si sarebbe trattenuto con i detenuti.

Agghiacciante la testimonianza di Mario Bracamonte “Ho visto quel prete quattro volte. Ricordo che un pomeriggio venimmo sottoposti ad un pestaggio particolarmente violento. Il pavimento del locale delle torture era rosso di sangue. Padre Reverberi ordinò che lo pulissimo con i nostri corpi, strisciando per terra, zuppi d’acque e di sangue. Era inverno, la temperatura era di 10 gradi sotto zero”.

Bracamonte ricorda perfettamente che Reverberi assistette alla scena in compagnia di ufficiali e funzionari della polizia della giunta Videla e dell’esercito. Una notte, sempre Bracamonte, venne barbaramente pestato per quattro interminabili ore, torturato, la testa immersa più volte in una vasca colpa d’acqua. Sollevò il capo, vide Reverberi che lo apostrofò “Che hai da guardare? Cane!”.

Quasi tutti i poliziotti e i militari della Casa Dipartimento sono stati processati e condannati per crimini contro l’umanità. Condannati all’ergastolo per rapimento, tortura ed omicidio di massa.

La testimonianza di Angel Di Cesare, ha fatto emergere che il vescovo di Mendoza, vestito in tuta militare mimetica, più volte ha fatto visita al centro di detenzione, benedicendo le armi e gli strumenti con cui si torturavano i deportati.

Durante il primo processo, padre Reverberi fu chiamato a deporre come teste, ma nel corso delle udienze, la sua posizione risultò sempre più compromessa in quel contesto di atrocità, pertanto il procuratore Francisco Josè Maldonado che chiese l’incriminazione, richiesta che il giudice accolse.

Venne fissata un’udienza che avrebbe dovuto far sì che le porte del carcere si spalancassero per Reverberi, ma quell’udienza non si tenne mai, in quanto il cappellano riparò in Italia e fece sapere che, per motivi di salute, non avrebbe potuto fare ritorno in Argentina.

Secondo l'Interpol, il 10 maggio, 2011, tre mesi prima dell’udienza, il prete aveva lasciato il paese con il volo RA-1132 delle Aerolineas Argentinas destinazione finale di Roma internazionale, con una tappa in Spagna.

Sempre l’Interpol ha accertato che padre Reverberi starebbe esercitando le sue funzioni religiose presso la parrocchia Santi Faustino e Giovita a Sorbolo, in provincia di Parma, la città dove è nato il 24 dicembre 1937.

Il 10 agosto 2012, dopo una perizia medico-legale, per appurare lo stato di salute del sacerdote, il giudice federale argentino ha spiccato l’ordine di cattura internazionale e richiesto al nostro ministero della Giustizia e a quello degli Esteri, l’estradizione nei confronti di padre Franco Reverberi Boschi, il prete torturatore.

Edited by GalileoGalilei - 27/6/2016, 14:49
 
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view post Posted on 29/10/2013, 18:31
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http://parma.repubblica.it/cronaca/2013/10...zione-69763126/


Prete accusato di crimini contro l'umanità
La Corte d'Appello: "No all'estradizione"

Rigettata la richiesta di cattura emessa dall'Argentina sul capo di don Franco ReverberI, sacerdote sorbolese accusato di aver assistito a torture quando era cappellano militare sotto il regime di Videla.
di MARIA CHIARA PERRI
Lo leggo dopo
Prete accusato di crimini contro l'umanità La Corte d'Appello: "No all'estradizione"
Don Franco Reverberi, l'anziano sacerdote di Sorbolo accusato dalla procura di San Rafael in Argentina di crimini contro l'umanità per una presunta collaborazione col regime di Videla, non sarà estradato. Lo ha stabilito martedì mattina la prima sezione penale della Corte d'Appello di Bologna, chiamata a decidere sulla richiesta di cattura internazionale del prete 76enne che fu cappellano militare sotto la dittatura argentina, più di trent'anni fa. Il collegio giudicante ha dichiarato che “non sussistono le condizioni per l'accoglimento della domanda di estradizione” e depositerà le motivazioni della sentenza entro 60 giorni. Lo stesso procuratore generale Attilio Dardani aveva chiesto il rigetto della richiesta, così come l'avvocato difensore del prevosto sorbolese, Franco Magnani.

Il caso esplose nel dicembre dello scorso anno, suscitando clamore a livello nazionale: nella lista “wanted” del sito web dell'Interpol erano comparse foto e generalità di un insospettabile prete sorbolese, don Reverberi, espatriato con la famiglia in Argentina all'età di 11 anni e rientrato in Italia nel 2010 per curare i propri problemi cardiaci e per trascorrere la vecchiaia nel paese natale .

Pesanti le accuse mosse dalla procura di San Rafael, che ne chiedeva il rintraccio e l'arresto: in qualità di cappellano militare don Reverberi avrebbe assistito alle torture perpetrate dai militari di Videla contro i dissidenti. L'anziano prete respinse ogni accusa, prima di “barricarsi” nella canonica assediata dai giornalisti

Il procedimento giudiziario ha fatto il suo corso. Secondo gli accordi del 1986 che regolano l'estradizione tra Italia e Argentina, don Reverberi è stato convocato lo scorso giugno dalla Procura generale di Bologna per rispondere alla richiesta di estradizione. Ovviamente, ha rifiutato di tornare volontariamente in Argentina. La domanda è così passata alla Corte d'Appello. Nel corso dell'udienza di oggi, come detto, è stato lo stesso procuratore generale a chiedere che l'anziano prete non venisse estradato. Non ci sarebbero prove di colpevolezza fornite dagli inquirenti argentini, che imputano a don Reverberi solo di “aver assistito” alle torture. Se anche così fosse stato, questo non significa necessariamente che il cappellano fosse connivente. Per assurdo, ha sostenuto il pg, lo stesso si potrebbe dire infatti dei sacerdoti che fino a pochi anni fa, anche in Europa, davano conforto ai condannati a morte.

L'avvocato difensore Franco Magnani ha invece discusso nel merito le accuse: don Franco Reverberi non sarebbe la persona che gli inquirenti argentini cercano. E' stata prodotta documentazione della Curia che attesta come il sacerdote abbia ricoperto il ruolo di cappellano militare a San Rafael solo dal 1980, mentre i fatti che gli vengono imputati risalgono al 1976, quando lui si trovava altrove. Sulle imputazioni, inoltre, penderebbe la prescrizione. Lo Corte d'Appello ha rigettato la domanda di estradizione: don Franco potrà rimanere a Sorbolo, dove tuttora risiede.

Per il prete “wanted” la vicenda non è però ancora chiusa: “Aspettiamo le motivazioni della sentenza – dice l'avvocato Franco Magnani – perché se sono state accolte nel merito le nostre tesi difensive, anche in Argentina dovranno tenerne conto”. E, forse, far cadere le accuse che ancora oggi possono portare alla cattura di don Reverberi, se decidesse di varcare i confini italiani.

(29 ottobre 2013)
 
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view post Posted on 19/7/2014, 15:13
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http://straordinariaresistenza.comunita.un...-i-torturatori/

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“Estradate quel prete, aiutò i torturatori”

18 luglio 2014





























Racconta Mario Hector Bracamonte Ortuvia: «Il 26 settembre 1976 mi hanno trasferito a Mendoza. Nei tribunali sono iniziati i maltrattamenti. Un pomeriggio mi hanno dato una “ripassata” dalle due del pomeriggio». Nel momento in cui lo stavano picchiando e gli facevano asciugare il pavimento con il corpo, ha alzato la testa e lo ha visto. «Ho visto il cappellano» che osservava le torture. In quell’occasione aveva il collarino. «In altre era vestito da militare».
Ricorda, invece, Crocefisso Enzo Bello, detenuto nel commissariato della città di General Alvear nella provincia di Mendoza dal 17 dicembre del 1976: «Un giorno, nel luogo in cui era detenuto, arrivò un sacerdote» che gli chiese di dove fosse. «Il prete mi parlò in italiano e mi domandò chi fosse il capo dell’organizzazione e dove fossero le armi».

Nel 1976 subito dopo la presa del potere con un golpe del generale Jorge Videla, il 24 marzo, in Argentina vennero sospese le garanzie della Costituzione e con la formazione della giunta militare fu intrapresa una sistematica e violenta azione di repressione contro i dissidenti politici, rapiti, incarcerati e torturati e, spesso, uccisi. Tra il 1976 e il 1983 si conteranno più di 30mila desaparecidos. Quel periodo passò alla storia come «Guerra Suicia», la guerra sporca. Le sue ferite si stanno rimarginando solo ora, attraverso un processo di verità che vede impegnata la giustizia argentina.
Molti dei torturatori e dei loro fiancheggiatori di quell’epoca si sono rifugiati in altri paesi. Alcuni sono tornati nel luogo dove erano nati o dove avevano parenti. Don Franco Reverberi, ad esempio, il cappellano dell’esercito che partecipò agli interrogatori e ai tormenti dei prigionieri nelle carceri di Mendoza, è tornato a Sorbolo in provincia di Parma.
Da tempo l’Argentina ne ha chiesto l’estradizione perché, come ricorda Carlos Cherniak, ministro plenipotenziario con delega ai diritti umani, «stiamo parlando di un prete che non dava sollievo ai detenuti ma accompagnava l’azione dei carnefici, un fiancheggiatore». La richiesta è finita in Cassazione dopo che il tribunale di Appello di Bologna, nell’ottobre del 2013, l’aveva rigettata. Secondo i giudici, codice italiano alla mano, era intervenuta la prescrizione dei reati in base. E questo, spiegarono, perché la nostra giustizia penale (a differenza di quella militare) non prevede il reato di tortura.
Giovedì 17 luglio, però, durante il dibattimento davanti alla VI sezione della Cassazione il procuratore generale ha ribaltato questa interpretazione. Ha fatto esplicita richiesta affinché la Suprema Corte rigetti quella sentenza, rimandandola al tribunale d’Appello di Bologna per svolgere gli approfondimenti necessari sul ruolo di Reverberi nel centro di detenzione clandestina di Mendoza, ovvero sul ruolo nelle torture che venivano sistematicamente perpetrate.
La richiesta del procuratore generale, se accolta, potrebbe segnare una svolta per il nostro ordinamento. La disputa si gioca in punta di diritto. Secondo i legali che assistono il governo Argentino – l’avvocato Arturo Salerni e l’avvocato Marta Lucisano – l’obbligo per il nostro Paese di estradare il parroco sorge, anche in assenza del reato di tortura, da un combinato disposto tra la Convenzione contro la tortura (al quale ha aderito anche l’Italia) e il Trattato di estradizione che ci lega con l’Argentina. Scrivono gli avvocati nel ricorso presentato davanti alla Cassazione: «Riguardo alla Convenzione, l’articolo 8 dispone che: “Le trasgressioni di cui all’articolo 4 (il reato di tortura, ndr) sono a pieno diritto incluse in ogni trattato di estradizione tra gli Stati parte. Gli Stati parte si impegnano ad includere dette trasgressioni in qualsiasi trattato che verrà concluso tra loro”».

Dunque, visto che il Trattato di estradizione tra Italia e Argentina, firmato a Roma nel 1987 e entrato in vigore nel 1992, è successivo alla Convenzione Onu (datata 1984) «appare chiaro come il reato di tortura, sempre estradabile e imprescrittibile (…) debba essere ritenuto parte integrante del Trattato di estradizione». Quindi, riassumendo, l’articolo 8 della convenzione Onu sarebbe direttamente applicabile nel nostro ordinamento senza necessità di ulteriori specificazioni da parte del legislatore. E, dunque, non ci sarebbe spazio per eccepire l’intervenuta prescrizione né per lamentare la violazione del principio di legalità come hanno fatto i legali di don Franco Reverberi e come recepito dalla Corte d’Appello di Bologna.

L’avvocato di Gelli
La richiesta di estradizione di Reverberi, secondo Carlos Cherniak, non sarebbe la sola avanzata dalle autorità argentine a quelle italiane. In discussione, sempre davanti alla sesta sezione della Corte di Cassazione, c’è quella che riguarda Carlos Luis Malatto, ufficiale del reggimento di montagna n.22 dell’esercito argentino. Malatto, difeso dall’avvocato Augusto Sinagra (ex legale di Licio Gelli), avrebbe fatto parte del «gruppo di lavoro di ufficiali di sottufficiali che combattevano le organizzazioni ritenute sovversive». In pratica era uno dei torturatori. Anche il suo caso è finito davanti alla Suprema Corte dopo che il tribunale d’appello de L’Aquila aveva concesso il rimpatrio. Ma, naturalmente, la sua posizione appare molta diversa da quella di Reverberi. Il parroco non partecipò attivamente alle torture ma ne fu testimone e complice.

Lui adesso, dopo aver curato per anni la parrocchia di Salto de las Rosas, vicino alla cittadine di San Rafael, proprio sotto le Ande, vive in maniera tranquilla nella parrocchia di Sorbolo, a un passo dal Po. Da tempo, dice di soffrire di cuore. In Italia è rientrato nel 2011, quando in Argentina si cominciavano a rimettere a posto i tasselli della storia non sulle pagine dei libri ma attraverso le aule dei tribunali. «Mai saputo che a San Rafael c’erano quelle cose – ha detto in un’intervista al Corriere della Sera qualche tempo fa – . Sì, io ero cappellano militare, il vescovo mi disse di andare a preparare i soldati per la comunione; celebravo messa, confessavo, facevo catechesi. Ho giurato e detto soltanto la verità: mai saputo e tanto meno assistito a sessioni di tortura».

Ricorda Sergio Secundo Chaqui Calcuch detenuto illegalmente dal 29 marzo al 4 agosto a Mendoza: C’era un cappellano dell’esercito di nome Reverberis (sic!) il quale alle volte o da solo si recava al centro di detenzione. “Era munito” poiché aveva un grado militare». Racconta Roberto Rolando Flores Fabio, detenuto senza un perché dal 6 maggio del 1976, nelle celle della Casa Departamental: Il parroco «era un assiduo assistente alla torture». Gli disse, più volte, che «avrei dovuto collaborare con la giustizia per avere un conforto spirituale». Conforto che non ottenne mai.
 
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http://www.ilmessaggero.it/primopiano/este...to-1552591.html

Prete italo-argentino complice dei torturatori di Videla non sarà estradato dall'Italia: nel codice non è reato

di Antonio Bonanata
Franco Reverberi è un sacerdote della diocesi di Parma e vive tranquillo a Sorbolo, a circa dieci chilometri dalla città emiliana. Ha 78 anni e origini argentine. Ma negli anni Settanta, durante il sanguinoso regime di Jorge Videla, era cappellano dell’esercito presso la “Casa dipartimentale”, nella località di San Rafael. Secondo il racconto di alcuni testimoni, e grazie alle prove raccolte dalla giustizia di Buenos Aires in questi anni, nelle celle di quell’edificio si sono compiuti atroci atti di tortura ai danni degli oppositori. Ben quattro persone hanno identificato in Reverberi il cappellano militare della “Casa dipartimentale”.

Il 15 novembre 2012 il tribunale federale di San Rafael ha chiesto la “detenzione immediata” del sacerdote italo-argentino, per essersi negato alle domande che i giudici avrebbero voluto fargli, chiamandolo a rispondere di un’eventuale implicazione in quei crimini. Già nel 2010 don Franco aveva deposto in aula, quando i testimoni lo avevano identificato. Poi è tornato in Italia. Il tribunale argentino di San Rafael ha quindi sollecitato il nostro paese a estradare Reverberi, perché possa essere giudicato sul sospetto coinvolgimento nelle torture alla “Casa dipartimentale”. Dall’Italia, però, è arrivato un netto rifiuto: nel nostro codice penale il reato di tortura non è previsto, non ci sono pertanto i presupposti per un’estradizione. Don Franco dovrebbe rispondere anche del reato di lesioni; ma è stato prescritto, quindi niente da fare.

Il caso di Reverberi è noto ai media argentini e spagnoli. In Italia solo un grande silenzio. Che Monica Bernabè, giornalista del quotidiano El mundo, ha provato a rompere, recandosi a Sorbolo per parlare con alcuni parrocchiani. Ma tutti si negano, nessuno si sbilancia: «No, non sappiamo», «Sì, qualcosa. Però è una storia passata, non lo hanno estradato. Don Reverberi è una persona buona e tranquilla, non possiamo giudicarlo per ciò che è avvenuto anni fa. Ci penserà Dio».

Di anni ne sono trascorsi esattamente 40: era infatti il 1976 quando, nelle celle della “Casa dipartimentale”, si consumarono, anche grazie alla complicità di don Franco, le torture dei militari argentini. Questa è la tesi dell’accusa, che vorrebbe interrogare direttamente Reverberi, ma che finora ha ricevuto dall’Italia solo rifiuti. L’ambasciata argentina a Roma ha fatto ricorso presso la Corte di Cassazione contro la decisione della Corte d’Appello di Bologna, che negava l’estradizione del sacerdote a Buenos Aires. Fonti ufficiali della rappresentanza diplomatica in Italia, inoltre, fanno sapere che la stessa richiesta è stata formulata per altri due generali italo-argentini, che vivono indisturbati nel nostro paese.

Il tema dell’introduzione del reato di tortura in Italia non è nuovo nel dibattito pubblico e ha già suscitato polemiche e scontri tra chi ritiene che il nostro ordinamento dovrebbe colmare questa grave lacuna legislativa e chi si oppone strenuamente (come le sigle sindacali delle forze dell’ordine), giustificando la posizione contraria col timore che ciò porti a «criminalizzarle», dice Fabrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, che si batte da anni perché la tortura diventi un reato anche per il codice penale italiano. Nell’aprile 2015 la Corte europea dei diritti umani ha condannato il nostro paese a risarcire di 45mila euro Arnaldo Cestaro, una delle vittime delle violenze compiute durante il G8 di Genova del 2001.

Arturo Salerni, uno degli avvocati dell’ambasciata argentina a Roma che segue il caso, spiega che si potrebbe tentare la strada del diritto internazionale, ad esempio appellandosi alla Convenzione Onu contro la tortura, firmata anche dall’Italia. Ma la Corte di Cassazione su questo punto ha usato parole che più chiare non potrebbero: “È necessaria una legge che converta la proibizione internazionale della tortura in un delitto”.

Tocca quindi al Parlamento italiano pronunciarsi. Un’altra strada, in realtà, sarebbe percorribile e l’Assemblea permanente per i diritti umani di San Rafael non la esclude a priori. A Roma, infatti, vive un illustre argentino, che potrebbe facilitare una soluzione del caso. Sì, è proprio Papa Francesco. In Vaticano sono stati inviati alcuni documenti, in due distinte occasioni: nella prima, è stata comunicata l’avvenuta ricezione; nella seconda, neanche questo. Padre Federico Lombardi, direttore della Sala stampa vaticana, ha dichiarato: «Tutti ricorrono a Papa Francesco come se potesse risolvere ogni problema. Se la giustizia italiana non ha concesso l’estradizione, che possiamo fare?».




Lunedì 15 Febbraio 2016, 12:25 - Ultimo aggiornamento: 15:46
 
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http://libertacivili.blogautore.espresso.r...ra-non-e-reato/

23 giu Appello a Papa Francesco. Un prete accusato di tortura. L'Italia non lo estrada in Argentina. In Italia la tortura non è reato.
Il prossimo 26 giugno è la giornata indetta dalle Nazioni Unite per le vittime della tortura. In Italia la tortura non è ancora reato.

Matteo Renzi, presidente del consiglio, 7 aprile 2015: “quello che dobbiamo dire lo dobbiamo dire in parlamento con il resto di tortura. Questa è la risposta di chi rappresenta un Paese”. In quella giornata l’Italia era stata condannata per le torture alla Diaz.

Andrea Orlando, ministro della giustizia, 9 aprile 2015: “il voto sul ddl che introduce il reato di tortura sia il più ampio possibile, così che sia un risultato da portare davanti alla Corte di Strasburgo di tutto il parlamento”. Il voto alla Camera ci fu e la proposta fu approvata ad aprile 2015. Passò al Senato.

Gennaro Migliore, sottosegretario alla giustizia, 16 giugno 2016: “a nome del governo affermo che una legge che punisca la tortura sia approvata”. Qualche giorno prima avevamo scritto al presidente del Consiglio chiedendo un suo impegno sulla questione.

La legge è invece ferma al Senato da oltre un anno. Il Senato nel luglio 2015, dopo avere avviato delle audizioni informali da cui ha escluso la società civile, ha peggiorato vistosamente il testo approvato un anno prima dalla Camera. Questo è oggi lo stato dell’arte.

Quali sono le conseguenze? Impunità certa per i torturatori nostrani e per quelli che si rifugiano nel nostro Paese. Ecco una prova. Sul web vi è una scheda Interpol dedicata a Don Franco Reverberi. E’ accusato di ‘imposicion de tormentos’ ovvero tortura. Don Reverberi è accusato di essere complice, anzi autore, delle torture perpetrate dai militari nell’Argentina di Videla. La magistratura italiana non ha concesso l’estradizione all’Argentina in quanto in Italia manca il delitto di tortura e per gli altri reati a lui ascrivibili ci sarebbe stata prescrizione.

Don Reverberi è stato riconosciuto da quattro testimoni come il cappellano militare che assisteva agli interrogatori e alle torture dei dissidenti politici.

Don Reverberi dice messa serenamente in una parrocchia di Sorbolo.

Ci appelliamo a Papa Francesco in questa battaglia di giustizia. Ci appelliamo a lui perché non ci sia impunità per i torturatori. Ci appelliamo perché don Reverberi possa tornare nell’Argentina che lo vuole processare per tortura.

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view post Posted on 29/6/2016, 14:20
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Parroco accusato di tortura, a Sorbolo parte lo "sciopero della messa"
L'associazione Antigone invita i fedeli a non partecipare alle funzioni ad Enzano di Sorbolo, la parrocchia di don Franco Reverberi che sarebbe coinvolto in gravi espisodi nell'Argentina di Videla

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29 giugno 2016
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Parroco accusato di tortura, a Sorbolo parte lo "sciopero della messa"PARMA - Parte lo "sciopero della messa" nella caldissima Bassa parmense. L'Associazione Antigone si scaglia contro don Franco Reverberi, accusato di tortura. Una protesta che sembra uscita dalla penna di Guareschi, dura sferzante, molto umana.

Sorbolo è un piccolo paese in provincia di Parma con meno di 10 mila abitanti. Vicino a Sorbolo c'è Enzano di Sorbolo. In Strada del Fienile, la Parrocchia di Sant'Andrea Apostolo. Gli abitanti di Enzano di Sorbolo sono circa trecento, ricorda il comunicato di Antigone.

"A Sant'Andrea celebra messa don Franco Reverberi, ottuagenario sacerdote parmigiano, accusato dalle autorità argentine di aver preso parte alle torture perpetrate dai militari del regime di Videla. Uno dei prigionieri politici arbitrariamente portati nel centro di detenzione di Mendoza in Argentina nel 1976 racconta di un cappellano italiano vestito da militare. Un altro prigioniero ricorda anche lui come insieme ai militari c'era un prete che lo interrogava in italiano. Ogni tanto quel cappellano pare indossasse la divisa militare.

Dunque quel sacerdote pare fosse qualcosa di più, secondo i testimoni di quei tormenti, che non un semplice prete che diceva messa. Pare non fosse interessato a salvare le anime, ma a loro dire, era complice nel far soffrire i corpi.
Parroco accusato di tortura, a Sorbolo parte lo "sciopero della messa"
Jorge Rafael Videla Redondo è stato il 42esimo presidente dell'Argentina tra il 1976 e 1981. Arrivò al potere con un colpo di Stato ai danni di Isabelita Perón. È stato condannato a due ergastoli e 50 anni di carcere per vari crimini contro l'umanità, tra i quali l'assassinio e la tortura di 30 mila persone. Scontò la pena nel carcere Marcos Paz di Buenos Aires, durante gli ultimi anni della sua vita
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Quel cappellano potrebbe essere don Franco Reverberi, che tornata la democrazia decise di ristabilirsi nella sua Sorbolo. Don Franco Reverberi è 'wanted' per l'Interpol. L'accusa è "Imposicion de tormentos". Imporre tormenti significa torturare. La richiesta di estradizione risalente al 2012 è stata giudicata prima dalla Corte d'Appello di Bologna e poi dalla Corte di Cassazione. La magistratura italiana ha alzato le braccia e ha messo nero su bianco che in assenza del crimine di tortura nel codice penale italiano non avrebbe potuto estradare il sacerdote Oltreoceano.

"La tortura è un crimine contro la dignità umana - dichiara Patrizio Gonnella, Presidente di Antigone - ma in Italia non è reato nonostante un trattato internazionale ratificato nel 1988 ci vincoli in modo cogente alla sua codificazione". "Negli ultimi mesi Matteo Renzi, presidente del Consiglio, Andrea Orlando, ministro della Giustizia e Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia, hanno pubblicamente dichiarato che questa legge serva al nostro Paese ma l'Italia intanto - prosegue Gonnella - è il paradiso giudiziario dei torturatori nostrani e internazionali. È obbligo del governo la cooperazione giudiziaria con gli altri Paesi nonché il rispetto delle norme internazionali. Il Senato, dove langue la proposta di legge, è negligente e colpevole".

"Sarebbe buona cosa se i cittadini di Enzano di Sorbolo si astenessero dall'andare a messa nella parrocchia di Sant'Andrea.

Non sappiamo se don Franco Reverberi sia colpevole o meno. Non è dato saperlo perché nel suo caso, come in tutti i casi di tortura, in Italia, non c'è spazio giudiziario per l'accertamento della verità. Per cui lo sciopero dalla messa dei fedeli della parrocchia di Sant'Andrea potrebbe forse essere un risarcimento simbolico alle vittime della tortura, visto che il risarcimento giudiziario non è possibile in Italia" conclude Gonnella.
 
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view post Posted on 4/10/2016, 18:16
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DON FRANCO REVERBERI BOSCHI / Prete accusato di tortura, innocente o da estradare? (Le Iene Show, 4 ottobre 2016) Pubblicazione: martedì 4 ottobre 2016
Redazione


Le Iene Show Le Iene Show NEWS Cronaca Estrazione / Del Lotto di oggi 4 ottobre, Superenalotto: verso i numeri vincenti… (conc ... TERREMOTO OGGI / Marche, scossa di M 3.4 in provincia di Macerata: sisma anche ad Ascoli ... Calendario Gregoriano / Chi ha deciso che l'anno inizia il primo gennaio? (Oggi, 4 ottobre ... SAN FRANCESCO D'ASSISI/ Oggi, 4 ottobre 2016, Elio Germano al cinema nei panni del patrono ... LATTE & INTOLLERANZE / Le allergie e la polemica sulle aliquote Iva (Mi Manda Rai3 oggi, 4 ... Mons. Oscar Cantoni / Chi è il nuovo vescovo di Como (Oggi, 4 ottobre 2016) LEGGI TUTTE LE NOTIZIE CRONACA


DON FRANCO REVERBERI BOSCHI, ACCUSATO DI TORTURA NEL 1976: E' DA ESTRADARE O E' INNOCENTE? (LE IENE SHOW, 4 OTTOBRE 2016) - Lo scandalo che ruota attorno alla figura di don Franco Reverberi Boschi, accusato dalle autorità argentine di aver torturato alcuni miitari nel 1976, non è passato inosservato al mondo non governativo. Il prete opera nel comune di Sorbolo, un piccolo centro nel parmense di circa 10 mila abitanti, e dista pochi km dalla vicina Enzano di Sorbolo, dove si trova la Parrocchia di Sant'Andrea Apostolo. L'Associazione Antigone, in seguito all'inchiesta su don Franco, ha invitato tutti i fedeli del secondo paesino di non partecipare alla messa celebrata dal prete. Nel suo lungo comunicato, l'associazione a tutela delle garanzie e dei diritti in ambito penale, ha sottolineato come le accuse contro don Franco Reverberi Boschi potrebbero essere reali. Questa sera, martedì 4 ottobre 2016, Le Iene Show approfondiranno il caso grazie ad un'inchiesta di Matteo Viviani, a partire dal comportamento del religioso. Don Franco infatti ha rigettato le accuse ed ha affermato con forza di essere innocente. A suo dire, quindi, sareebbero false le accuse di alcuni dei sopravvissuti alle torture, perpetrate nel carcere di San Rafael, lo stesso punto su cui invece si batte l'Associazione Antigone. Nel suo approfondimento, la Iena parlerà con le principali figure coinvolte nel caso, a partire dal Ministro Plenipotenziario dell'ambasciata Argentina in Italia, Carlos Cherniak, passando per Patrizio Gonnella di Antigone e per finire intervistando anche don Franco Reverberi Boschi. Diversa invece la posizione della Diocesi parmense che ritiene infondate, oltre che tendenziose, tutte le accuse mosse al prete. Nella comunicazione del 1980, la Diocesi ha infatti sottolineato come in realtà don Franco non fosse presente nei luoghi interessati, all'epoca sotto la presidenza di Jorge Rafael Vileda Redondo. Antigone ha comunque precisato, tramite l'avvocato Arturo Salerni, che l'associazione non sta incolpando don Franco di nulla, ma sta ribadendo che le testimonianze di numerosi argentini non sono state verificate proprio per via dell'impossibilità di estradare il religioso in Argentina. La Cassazione ha stabilito nel 2013 ha stabilito che non sussistevano le condizioni necessarie per accogliere la richiesta di estradizione dell'Argentina, decisione messa in discussione invece l'anno successivo dalla Sezione Penale.


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www.pagina99.it/2017/11/30/sermoni-torture-dannati-videla/

30 novembre 2017

Sermoni e torture tra i dannati di Videla
In Argentina 29 persone sono state condannate all'ergastolo per le atrocità commesse durante il regime di Videla. Nel luglio del 2016 Alessandro Leogrande raccontava quei tragici anni, insieme all'assenza del reato di tortura in Italia. Attraverso la storia di don Reverberi, sacerdote sospettato di aver partecipato alle torture degli oppositori
ALESSANDRO LEOGRANDE

Il 6 maggio del 1976, nella provincia di Mendoza, nel cuore dell’Argentina centro-occidentale, Roberto Rolando Flores Tobio viene arrestato tra le due e le tre del mattino. Nudo e bendato, i polsi ammanettati, viene portato via su un camion dell’esercito. Roberto Rolando è un imbianchino di 21 anni, vicino alla Gioventù peronista, almeno quanto basta per finire in carcere dopo che i militari – il 24 marzo precedente – si sono impadroniti del potere con un colpo di Stato. Trasferito nella Casa Departamental di San Rafael, da poco trasformata in un centro di detenzione illegale per oppositori politici, viene interrogato e torturato per diversi giorni.

Lo picchiano sulle costole, i fianchi, in faccia, gli puntano la pistola alla tempia e fanno finta di giustiziarlo. Gli infilano la testa in un secchio d’acqua, bloccandogli le mani da dietro, fino a fargli provare la terribile sensazione di annegare. Quando lo tirano fuori per farlo rifiatare, riprendono a colpirlo sui fianchi. Gli impongono di fare il sommergibile bagnato: di asciugare, cioè, con i propri vestiti, strisciando per terra, il pavimento del lungo corridoio che si sono divertiti a inondare d’acqua. Tra una percossa e l’altra, gli chiedono insistentemente di fare i nomi, di fornire informazioni sui «comunisti», sugli «estremisti» come lui, che vorrebbero far sprofondare il Paese nel caos.

Col tempo Roberto Rolando impara a riconoscere i propri aguzzini. Impara a riconoscere le loro parole, i loro fiati acidi, le loro risate sinistre… Ma mentre lo percuotono, intravede anche un altro uomo in disparte. Non partecipa alle torture, non infierisce mai sul suo corpo. Rimane quasi sempre in silenzio, mentre fissa i colpi e le percosse a pochi metri di distanza. Quando apre bocca, con un tono ora suadente, ora imperioso, gli ordina di collaborare con gli aguzzini, lo esorta a fare i nomi, a liberarsi delle proprie colpe fornendo le informazioni necessarie ai militari. L’uomo indossa pantaloni, camicia, giacca e scarpe nere, mentre stringe una Bibbia tra le mani. Un colletto bianco cinge il suo collo. È un prete.

In quei mesi di sangue e terrore, Roberto Rolando non è il solo a intravedere un sacerdote mentre lo «fanno ballare» nella Casa Departamental. L’immagine del suo volto, delle sue mani che stringono le Scritture, si staglia nella mente di almeno altri tre torturati. Sicuramente in quella di Mario Hector Bracamonte Ortuvia. Quando tira fuori la testa dal secchio d’acqua in cui l’hanno infilata, scorge anche lui la sagoma del prete. Non riesce a credere ai suoi occhi, rimane imbambolato a fissarlo per pochi secondi, tanto da farsi rifilare un calcio nella pancia da un militare che gli urla contro: «Che cazzo hai tu da guardare!»

Mario Hector riconosce il prete dal volto. È un cattolico praticante, quel prete lo ha visto in chiesa per anni, ogni domenica. Sa il suo nome: si chiama don Franco Reverberi, è di origine italiana. Vive in Argentina da molti anni, da quando – bambino – è emigrato con i suoi genitori dalla provincia di Parma. Trentaquattro anni dopo quei fatti, presso il Tribunale di San Rafael si apre un processo per i casi di tortura e desaparición avvenuti nei centri di detenzione illegale della Fanteria della Polizia provinciale e della Casa Departamental.

Dopo il ritorno alla democrazia, alla metà degli anni Ottanta, una lunga amnistia sancita da due apposite leggi (chiamate rispettivamente «Legge del Punto finale» e «Legge di Obbedienza dovuta») ha impedito che venissero accertate giudiziariamente le responsabilità di quel terrorismo di stato che ha provocato oltre trentamila morti. Solo con il nuovo secolo, sotto la presidenza di Nestor Kirchner, le due leggi sono state definite incostituzionali. Così si sono aperti innumerevoli processi per accertare le responsabilità di ieri. Non solo a Buenos Aires o nelle città più grandi come Cordoba o Rosario, ma anche nei centri più piccoli come San Rafael.

I poliziotti responsabili delle torture perpetrate all’interno della Casa Departamental vengono rinviati a giudizio. In aula omettono, minimizzano, dicono di essere stati costretti a eseguire gli ordini, di essere stati addestrati a fare quello che hanno fatto. Poi vengono chiamati anche i torturati. O meglio, i pochi sopravvissuti in grado di testimoniare le torture subite. Vengono chiamati anche Roberto Rolando Flores Tobio, Mario Hector Bracamonte Ortuvia e altri due ex militanti della sinistra peronista. Sono loro, nel flusso dei ricordi trascritti nei verbali delle udienze, a evocare la figura del prete. Sono loro a fare il suo nome.

Dice Flores Tobio: «Reverberi mi disse che dovevo collaborare con la giustizia per avere un conforto spirituale». Non picchiava come gli altri, si limitava a parlare, a pronunciare poche parole. Eppure sono state proprio quelle poche parole pronunciate da un uomo che stringeva la Bibbia tra le mani ad aver fatto crollare definitivamente tanti davanti alle percosse. Sergio Chaqui, un altro dei torturati, ha visto Reverberi indossare l’uniforme militare mentre assisteva alle sevizie. È lui a dire in aula che il prete è ancora al suo posto: «Fa ancora il parroco a San Rafael. In città lo conoscono tutti». Il procuratore generale José Maldonado convoca allora don Franco Reverberi per l’udienza del 20 agosto 2010. Viene chiamato come testimone dei fatti, non come imputato. Eppure il sacerdote erige subito l’identica corazza di argomentazioni che, di lì in avanti, ripeterà come un mantra ossessivo a chiunque lo interpelli su quanto avvenuto nel buio della Casa Departamental.

Quel giorno in aula Franco Reverberi sostiene di non aver mai messo piede nella Casa Departamental, né negli anni 1976-77, quando sono stati detenuti i quattro sequestrati che lo avrebbero visto e riconosciuto, né in seguito. È stato sì cappellano militare, ma ha svolto tale funzione solo tra il 1980 e il 1982, quando a San Rafael è arrivato un reparto di Cavalleria di Montagna. Non prima. Anche volendo, non avrebbe potuto mettere piede nella Casa Departamental, perché lui ha prestato conforto spirituale nell’esercito, non nella polizia. E il cappellano della polizia, a quel tempo, era un altro sacerdote, padre Francisco Crescitelli, poi morto alla metà degli anni Novanta.

Sostiene Reverberi che all’epoca non era minimamente a conoscenza del rapporto che esisteva «tra l’Esercito e il Governo e la Chiesa». Dice di sé che era un uomo molto chiuso: parlava poco, quello era il suo carattere… Non sapeva all’epoca che in Argentina ci fossero dei detenuti politici, men che meno immaginava che potessero esserci in una tranquilla cittadina di provincia a ridosso delle Ande come San Rafael. «Solo ora» (cioè nel 2010) apprende dai giornali che ci sono stati dei desaparecidos. In precedenza non ha mai saputo di torture inflitte a chicchessia, né mai nessun militare gli ha riferito di tali pratiche: forse, a pensarci bene, ha visto solo dei manifesti in strada, una decina di anni prima, che parlavano di casi del genere, ma non si è preoccupato di approfondire la faccenda.

Allora il procuratore gli mostra una dichiarazione del 26 maggio 1980, da lui stesso firmata, con cui si proponeva di prendere ufficialmente servizio come cappellano militare, e quindi con un grado equiparabile a quello di capitano dell’esercito, e si diceva disposto a obbedire agli ordini contenuti nel manuale del clero castrense. I cappellani dipendevano dal Vicariato castrense, un’entità separata dalla Diocesi. Ma don Reverberi sostiene ancora di non ricordare che cosa abbia firmato. «Sono stato ordinato sacerdote il 2 dicembre del 1967. Sono parroco a Salto de las Rosas, una frazione di San Rafael, da quarant’anni. Non ho nulla da nascondere. Non sono mai andato a visitare i detenuti nelle loro celle».

Eppure nella difesa a tutto tondo del sacerdote si apre una crepa, quando all’improvviso spunta un’altra lettera firmata dallo stesso Reverberi (e questa volta datata 20 maggio 1980, quindi sei giorni prima della dichiarazione ufficiale), in cui si chiede alla Curia di regolarizzare la propria posizione di cappellano militare dal momento che ha già iniziato da tempo a svolgere tali servigi. Nella comunicazione ufficiale, in relazione al reparto di Cavalleria di Montagna, si parla di soli «50 giorni fa», ma nel caos dell’epoca cosa impedisce di ipotizzare – si chiede la procura – che il lasso di tempo sia stato maggiore?

È possibile che don Reverberi abbia iniziato ufficiosamente a svolgere le mansioni di cappellano ben prima del 1980, e che come cappellano – sia pure informalmente – abbia preso parte alla «guerra sporca» contro gli oppositori politici? Detto in altre parole: dal momento che la Casa Departamental della polizia era un centro di detenzione clandestino, ed extralegali erano le stesse pratiche del terrorismo di Stato che vi si praticavano al suo interno, perché non ritenere che qualcuno – finanche un prete – possa avervi preso parte senza lasciare nessuna traccia ufficiale del suo passaggio, come è successo peraltro in moltissimi altri casi? Da una parte i ricordi dei torturati, dall’altra i tanti non-ricordo di don Reverberi. In questa galleria di fantasmi che piombano dal passato, sono molte le domande, le ipotesi, le contraddizioni che spuntano e si inseguono nell’aula di tribunale di San Rafael.

Come scrive lo scrittore Horacio Verbitsky, che ha dedicato molti anni a indagare gli intrecci tra la Chiesa argentina e la dittatura dei militari, «in ogni contingente militare c’era un sacerdote che aveva il compito di convincere i detenuti a collaborare con l’esercito. Alcuni religiosi usavano l’uniforme da paracadutista e il presidente della conferenza episcopale, il cardinale Raúl Francisco Primatesta, aveva ricevuto un brevetto aereo ad honorem».

A questo punto la vicenda si complica. Il 14 giugno 2011, il procuratore generale di San Rafael José Maldonado chiede che don Franco Reverberi, riconosciuto da quattro detenuti sopravvissuti alle torture, venga formalmente indagato. Il sacerdote però ha lasciato il Paese un mese prima, il 9 maggio. Dopo essere stato per quarant’anni parroco a San Rafael, aver vissuto gli anni della dittatura e quelli della transizione alla democrazia, il passaggio dal vecchio al nuovo secolo, in una cittadina a pochi chilometri di distanza dalle Ande, ha fatto ritorno a Sorbolo, un piccolo borgo della Bassa parmigiana, vicinissimo a Brescello, il paese in cui sono stati girati tutti i film di Peppone e Don Camillo, con Gino Cervi e Fernandel. Proprio lì, a Sorbolo, Reverberi era nato nel 1937, per poi emigrare in Argentina con i suoi genitori all’età di undici anni.

Passano altri mesi. L’8 marzo 2012 la procura richiede l’arresto di don Franco Reverberi affinché venga processato, ma è una richiesta vana. La giustizia argentina apprende che don Franco non tornerà mai più in Argentina. Nei mesi precedenti ha prodotto e inviato dei documenti che attestano che soffre di insufficienza cardiaca e che, quindi, non può più prendere un aereo per far ritorno in Sudamerica. Nel frattempo viene aggregato alla parrocchia di Sorbolo. E qui, in tutti i mesi in cui dall’Argentina si affannano a capire che cosa sia effettivamente accaduto nella Casa Departamental di San Rafael al tempo della dittatura, conduce una nuova vita da curato di campagna. Celebra messa nelle piccole frazioni di pochi abitanti che cingono Sorbolo. Confessa i fedeli, partecipa alle feste parrocchiali. Inaugura persino un cippo degli alpini.

Mi sono imbattuto casualmente nella storia di don Franco Reverberi, leggendo le carte di alcuni processi aperti in Italia contro chi aveva preso parte alle sevizie sotto la dittatura militare. Ne ho parlato a lungo con l’avvocato Arturo Salerni, che rappresenta i famigliari dei desaparecidos nel processo Condor, che si tiene a Roma in questi mesi con l’obiettivo di stabilire le responsabilità di alcuni torturatori cileni, uruguaiani e argentini. Quando in Argentina hanno capito che don Reverberi non sarebbe mai tornato autonomamente, hanno avanzato una richiesta di estradizione. In Italia, la richiesta è stata seguita proprio da Salerni, munito di procura speciale da parte della Repubblica Argentina. Ed è a questo punto – come mi racconta Salerni – che avviene il secondo colpo di scena.

La Corte d’appello di Bologna prima e la Cassazione dopo, con sentenza definitiva del 17 luglio 2014, rigettano la richiesta di estradizione. Senza entrare nel merito della vicenda, senza appurare cioè se don Reverberi fosse presente o meno alle torture, la Corte sostiene che il sacerdote non possa essere estradato per il semplice fatto che nel codice penale italiano non è contemplato il reato di tortura. Poiché questo non è stato ancora introdotto (non solo allora, nel 2014, ma anche in seguito, dal momento che il testo di legge non è stato ancora approvato definitivamente in Parlamento, dopo essere stato peggiorato nei vari passaggi da una Camera all’altra), i fatti contestati, che in Argentina definiscono di «lesa umanità», da noi possono essere al massimo ascritti al concetto di lesioni aggravate.

Reverberi sarebbe quindi imputabile per concorso in lesioni aggravate, ma poiché tale reato cade in prescrizione dopo 22 anni e 6 mesi, e le torture sarebbero avvenute nel 1976-1977 (cioè 37-38 anni prima del pronunciamento della sentenza), non ci può essere alcuna estradizione. Così, pur essendoci «gravi indizi di colpevolezza», come riconosce la stessa Corte, Reverberi resta in Italia e continua a dire messa nelle frazioni di campagna vicino Sorbolo.

Da un punto di vista politico, l’intera vicenda si colloca lungo la scia di tutti quei casi (dalla scuola Diaz alle morti di Cucchi e Regeni) che testimoniano come l’assenza del reato di tortura costituisca un grave vulnus nell’ordinamento italiano. Da un punto di vista più strettamente processuale, invece, la frattura che si apre è ancora più evidente. Come dice Carlos Cherniak, ministro plenipotenziario dell’Ambasciata argentina di Roma, quando lo raggiungo al telefono, «questo signore sta semplicemente impedendo in ogni modo da anni di farsi processare, e di fare del processo un momento di chiarificazione. Se è innocente, come sostiene, non avrebbe nulla da temere. Credo invece che voglia evitare a tutti i costi un confronto con le persone che sostengono di averlo riconosciuto». Nel suo studio, davanti a un tavolo colmo di carte e fascicoli, Arturo Salerni mi ha detto qualcosa di simile: «Per quanto Reverberi abbia addossato le responsabilità a un altro prete morto da tempo, quattro persone – non una soltanto – hanno fatto il suo nome». Tutto ciò, certo, non è affatto sufficiente per condannare una persona, ma per avviare un processo sì.

Solo un nuovo processo potrebbe dissipare i dubbi, chiarire effettivamente cosa è avvenuto, e magari appurare anche uno scambio di personalità, ma arrivati a questo punto non ci sarà mai. Al massimo, mi dice ancora Cherniak, potranno processarlo in contumacia, ma non ci sarà nessun confronto – nella stessa aula – con le vittime delle violenze di Stato.

Più ripensavo a questa storia (un prete che collabora alle torture nel momento più buio della dittatura argentina) e più fiorivano in me un’infinità di domande. Dal momento che – Reverberi o non Reverberi – un prete c’era davvero alla Departamental di San Rafael, sulla base di quali ragionamenti, di quali più intimi convincimenti, un cappellano ha potuto assistere a delle sedute di tortura ed esortare dei corpi martoriati a fornire i nomi di altri oppositori come loro? Quel cappellano è stato ideologicamente solidale con i carnefici o, più semplicemente, non ha potuto sottrarsi a tali funzioni perché temeva delle ripercussioni? Poteva dire: «Io non ci sto, io non partecipo»? Avrebbe potuto ribellarsi? Oppure, concretamente, vedeva nei torturati, in quei giovani militanti vicini ai montoneros e alla sinistra peronista, il germe del caos e del disordine, e quindi un male ancora più radicale dei metodi adottati per debellarlo? Soprattutto: un prete che ha collaborato a tutto questo, come riesce a convivere – negli anni successivi – con i fantasmi del passato? Come riesce tranquillamente a celebrare messa, a consacrare il vino e il pane, ad assolvere dai propri peccati i fedeli che gli si rivolgono nel silenzio di un confessionale? Cosa gli passa per la testa quarant’anni dopo la mattanza, mentre partecipa magari alla vita parrocchiale di piccole borgate anonime, tra i campi della Pianura Padana?

Così, col passare dei giorni, ho maturato l’idea di provare a contattare don Franco Reverberi e di vedere con i miei occhi come vive a Sorbolo, dove celebra, cosa pensano di lui i suoi parrocchiani. È stato molto più difficile del previsto. È stato difficile trovare a Sorbolo delle persone che volessero parlare della vicenda. Quando fu emanato il mandato di cattura internazionale, la notizia uscì sui giornali, un po’ se ne parlò. Tuttavia, la gran parte degli abitanti di questo paese dormitorio di diecimila abitanti alle porte di Parma dice di non saperne niente, o di non ricordare molto, o di non aver mai visto il prete per strada, in un groviglio di non-detti e non-rammento che sembra del tutto speculare alla corazza eretta da Reverberi in aula. Un consigliere regionale del Pd addirittura mi dice: «È come con Provenzano nel carcere di Parma. È stato lì, certo, ma chi lo vedeva?». Raggiunto al telefono, l’attuale parroco di Sorbolo, don Aldino Arcari, mi chiede invece «perché, con tutti i problemi che ci sono al mondo, voi giornalisti continuate a occuparvi di don Franco? La giustizia ha stabilito che è innocente…».

Dal sito della parrocchia del paese, che illustra nel dettaglio la fervida attività pastorale nel centro principale e nelle frazioni limitrofe, recupero un indirizzo email di don Franco. Una sera di fine maggio, gli scrivo che mi sono imbattuto nella richiesta di estradizione che lo riguarda e gli chiedo se è disponibile a parlarne. «Il mio unico interesse», aggiungo, «è quello di sciogliere alcuni nodi della vicenda, e di ascoltare il suo parere a riguardo». Non mi aspetto alcuna risposta. Invece due giorni dopo Reverberi mi risponde. Mi intima di non andare a trovarlo a Sorbolo per nessun motivo al mondo, ma accetta di parlare via mail. È così che nell’arco di un pugno di giorni abbiamo un fitto carteggio.

Nella prima mail che mi scrive don Franco Reverberi ribadisce di essere stato cappellano militare solo dal 1980 al 1982, e che in quell’epoca «non hanno mai parlato di torture (anche perché era già finito tutto)». La prima cosa che penso leggendo le righe che mi ha inviato è che sono scritte in un singolare miscuglio di italiano curiale e italiano ispanizzato, un miscuglio che pare fotografare appieno una vita in bilico tra due mondi. La seconda è che tra il 1980 e il 1982 non era affatto finito tutto, la dittatura era ancora in piedi.

Poche righe dopo sostiene di essere una vittima, nient’altro che una vittima della «vendetta dei torturati e parenti di desaparecidos» e che dietro le accuse che gli sono state rivolte si nasconde l’obiettivo evidente di stabilire un nesso tra i militari e la Chiesa cattolica. È per questo che «quelli dei diritti umani hanno accusato anche me». È la prima volta in vita mia che vedo teorizzato il concetto di «vendetta dei torturati». Che sia stato o meno nella Casa Departamental, mi è impossibile non pensare che nelle argomentazioni di don Franco si celi un modo compatto di intendere il mondo, i torti commessi e quelli patiti, il rapporto con la Storia e con il male che si annida nei suoi gangli.

Piègati giunco che passa la piena… sembra essere questo l’unico motto che ha regolato la vita di un uomo che ogni tre frasi si dipinge come un «prete di campagna». E difatti, sollecitato da altre mie domande, nella lettera successiva mi scrive: «Non sarà facile capire che noi preti di una piccola diocesi dell’interiore dell’Argentina non avevamo contatti con le grandi città come Buenos Aires, Cordoba, Rosario. Nelle città si viveva un clima politico, ma da noi no. Di montoneros a San Rafael non ho mai conosciuto nessuno. Ripeto che noi non siamo mai stati politicizzati, da noi non c’è mai stato nessun prete del tercer mundo. El interior del pais es absolutamente distinto».

Ribadisce che «adesso l’Argentina vive ancora un clima di vendetta, di rancore, eccetera. La violenza crea la violenza. Per quello che leggo sui giornali continuano le ideologie sia di destra che di sinistra…». Ma poi, prima ancora che io possa contemplare questa perfetta equiparazione tra chi ha instaurato una dittatura e chi ha provato a opporsi finendo nelle celle di una miriade di centri di detenzione illegali, interrompe bruscamente il ragionamento per comunicarmi che deve andare «a celebrare la messa e l’adorazione alle 20,30».

Nelle mail successive cerco di scalfire questo granito compatto. Gli chiedo chi era allora il prete presente alla Departamental, dal momento che è fuor di dubbio che i torturati abbiano comunque visto un prete assistere alle sevizie. Mi risponde: «Con rispetto al cappellano della Polizia di allora, Padre Francisco Tomas Crescitelli, io suppongo (ma sono supposizioni senza fondamento) che se c’era qualche prete, dovrebbe essere stato lui. Lui non ha mai parlato né bene né male della Polizia, né di torture né di desaparecidos. Ha fatto sempre il suo lavoro e non ha mai detto niente. È morto giovane».

Allora gli pongo un’altra domanda: ammesso che lei non abbia visto e sentito niente, neanche tra il 1980 e il 1982 quando il sistema di repressione era ancora in piedi, cosa ha pensato subito dopo, nel 1984, quando i crimini della dittatura sono emersi e sono emerse le storie degli scomparsi? Don Franco non si smuove: «Guardi, io veramente non ho saputo più niente fino al 2010». E qui ho capito che il dialogo non poteva andare avanti. Come è possibile che un parroco che ha vissuto in Argentina continui a sostenere di non aver mai sentito parlare di desaparecidos tra la metà degli anni Ottanta, quando viene presentato il rapporto Nunca mas sulle decine di migliaia di casi di sparizioni, sequestri e torture, e il momento in cui – 25 anni dopo! – viene chiamato a testimoniare? Non si è mai imbattuto – mi chiedo ancora una volta – in un film, in un libro, in una trasmissione tv, in un articolo di giornale?

Nell’ultima mail che mi scrive si dice infine disposto a incontrare le persone che lo hanno accusato, affinché loro possano chiedergli perdono e lui «perdonarli (anzi, internamente li ho già perdonati e prego per loro)». Mi intima per l’ennesima volta di non mettere piede a Sorbolo, prima di concludere con queste parole: «Caro Alessandro, sono stanco, vecchio e ammalato. Vorrei vedere finita questa storia dove io davvero non ci sono stato. Accetto la volontà di Dio, ma è troppo dura, fino a quando? Quando conosceremo la “verità che ci fa liberi”?». Ero stato io a citare per primo quel versetto del vangelo di Giovanni che parla della verità che rende liberi. Lo avevo fatto nella seconda lettera che gli avevo mandato. Ora don Franco, alcuni giorni dopo il primo scambio di mail, la faceva propria rovesciandone il senso. Non avvicinando, bensì allontanando la verità di questa storia come fosse un oggetto indefinito, sperso nell’universo. Sempre più remoto, sempre meno percettibile.

Pochi giorni dopo la sua ultima mail, sono andato ugualmente a Sorbolo, come mi ero promesso di fare fin dall’inizio. Prima di arrivare in paese, sono stato nelle due frazioni in cui negli ultimi anni ha celebrato messa. Prima a Coenzo, un pugno di case in cui vivono 450 abitanti. Una piccola chiesa dalla facciata bianca e gialla sorge alle spalle del «primo monumento al mondo realizzato in ferro battuto» di Peppone e Don Camillo, come si legge su un’insegna. Qui don Franco ha celebrato per un anno dopo il suo ritorno in Italia. Nella sala mensa accanto alla chiesa tre donne stanno apparecchiando una lunga tavolata per una festa che si terrà nel pomeriggio. Scambio qualche battuta con loro. Mi dicono che don Franco è la persona più buona del mondo, che è molto legato a Coenzo perché qui ha ritrovato degli amici della sua infanzia, e che ancora viene a trovarli.

Poi vado a Enzano, frazione ancora più minuta, che conta 250 abitanti. Intorno ci sono solo campi verdi e gialli, appena intervallati da covoni e granai. Fa molto caldo, l’aria è impregnata di un odore persistente di letame. La chiesa è ancora più piccola di quella di Coenzo, e una donna che spunta dalla casa accanto con un mazzo di chiavi in mano si offre di farmela vedere. È qui – apprendo dagli orari affissi in bacheca – che don Franco ha celebrato l’adorazione la sera che ha interrotto bruscamente la mail che mi stava scrivendo.

Quando arrivo a Sorbolo, dopo aver passato la mattina nelle frazioni circostanti, mi sembra una grande città. Sui due lati opposti della piazza centrale ci sono il municipio e la parrocchia. È quasi ora di pranzo, il portone d’ingresso è ormai chiuso. Alle spalle della chiesa sorge la canonica, un palazzina tozza che forma con il retro della costruzione principale una sorta di staffa di cavallo. Sul citofono, vedo scritto «Ufficio parrocchia», «Abitazione don Aldino» e poi, in fondo, «Abitazione don Franco». Aspetto qualche minuto lì davanti, poi premo il tasto su cui è indicato il nome di Reverberi. Non risponde nessuno. Riprovo ancora una volta, ma niente. Allontanandomi nello spiazzo assolato, mi volto a guardare le persiane appena socchiuse.

Il 30 giugno 2016 la Diocesi di Parma emette un comunicato laconico: «A fronte della rinnovata diffusione di notizie non vere e tendenziose circa la presunta, quanto inesistente, complicità di don Franco Reverberi nelle torture ai prigionieri durante la dittatura argentina, ci preme ribadire la totale estraneità ai fatti di don Franco».

[Illustrazione in apertura di Koen Ivens]
 
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News | 29 agosto 2018
Giornata dei desaparecidos: il caso del prete italiano ricercato in Argentina per tortura

Il 30 agosto è la Giornata dei desaparecidos. La celebriamo ricordando il caso di don Franco Reverberi, ricercato da Buenos Aires e che vive tranquillamente in Italia

Oggi 30 agosto è la Giornata internazionale dei desaparecidos che si celebra in tutto il mondo. È stata istituita il 21 dicembre 2010 dalla Assemblea generale delle Nazioni Unite. L’obiettivo è quello di sensibilizzare l'opinione pubblica sui desaparecidos e sulle attività delle organizzazioni impegnate in questo campo.

I numeri delle sparizioni sono ancora alti se si pensa al solo Messico dal 2007 superano le 25 mila persone. In Siria invece raggiungono le 85 mila mentre in Bosnia ed Erzegovina sono ancora senza un destino oltre 8 mila cittadini.

Queste sparizioni forzate sono state utilizzate come metodo per ridurre al silenzio le voci critiche dei governi incutendo paura nei gruppi sociali più deboli.

Sembrano numeri e realtà a noi lontane, ma un filo rosso ci unisce a quella dei desaparecidos. L’anello di congiunzione si chiama don Franco Reverberi che invece di testimoniare per le torture che sono avvenute in Argentina durante il colpo di Stato è scappato in Italia. E ora è ricercato dall'Interpol.

Per sapere la sua storia bisogna tornare indietro di molti anni come ci ha raccontato il nostro Matteo Viviani nel servizio andato in onda il 4 ottobre 2016. “La maggior parte di vescovi era vicina alla dittatura e al silenzio, ma questo terrorismo di Stato ha ammazzato una generazione” racconta Carlos Cherniak, ministro dell’ambasciata Argentina in Italia. Sono sparite più di 30 mila persone ricordate come desaparecidos. Nel 1983 arriva la democrazia senza un patto coi militari. La dittatura finisce e la gente scende nelle piazze per chiedere verità e giustizia per i figli scomparsi. Viene costituita una commissione di tutte le persone scomparse, così che le vittime potevano fare le denunce. Iniziano i processi e nei tribunali vengono chiamati coloro che sono sopravvissuti alle torture. Dai loro racconti esce un nome: padre Reverberis, un prete italiano. Sono quattro i sopravvissuti alle torture del 1976 nel centro torture di San Rafael in Argentina.

“Sono venuti a casa mia di notte, mi hanno arrestato e trasportato in una gabbia di metallo dove sono stato spogliato e torturato” ricorda uno dei sopravvissuti. “Mi picchiavano le costole con i pugni. Ricordo che c’era un prete di nome faceva Reverberis. Un habitué di queste torture”. Il sacerdote li invitava a collaborare per avere sollievo spirituale. “Ci picchiavano sempre, lui non partecipava ma era lì nella stanza con la Bibbia in mano”.

Il sacerdote viene convocato davanti ai giudici respinge tutte le accuse. “In quegli anni non ero a San Rafael, ci sono arrivato quattro anni dopo. Nessuno mi ha mai parlato di torture e sequestri in quel centro” si è difeso. I giudici indagano formalmente don Franco Reverberi. “Non si presenta e scappa in Italia perché ha la doppia cittadinanza” spiega il ministro Cherniak.

I testimoni aumentano, così come i dettagli inquietanti sulla sua figura. “Mi hanno pestato per quattro ore mettendomi ripetutamente la testa in un secchio d’acqua. Lì ho visto padre Reverberis” dice un altro torturato. “E’ stato presente almeno quattro volte ai pestaggi, ne sono sicuro”.

Gli stessi dettagli sono testimoniati da un altro sopravvissuto. “Vestiva abiti militari e benediva le armi con le quali ci torturava. Un giorno mi ha chiesto da dove venivo. Parlava l’italiano”. Il tribunale argentino invita nuovamente il sacerdote a presentarsi, ma lui invia certificati medici poiché impossibilitato.

Così don Franco diventa a tutti gli effetti un ricercato dell’Interpol. Nel frattempo il sacerdote si rifugia nel suo paese di origine a Sorbolo, dalle parti di Parma. Qui dice messa, dà la comunione e confessa i suoi fedeli. Lo Stato argentino ha richiesto a quello italiano l’estradizione del prete proprio per processarlo e appurare la sua colpevolezza o meno. Ma il nostro Stato respinge la richiesta.

“L’inadempienza dell’Italia nell’adeguarsi agli obblighi della convenzione Onu crea una situazione paradossale come la tortura, che può configurare anche un crimine contro l’umanità per l’ordinamento italiano non è un reato specifico” si legge nella sentenza della Cassazione.

Il nostro Matteo Viviani è andato a parlare direttamente con il sacerdote che di tutta risposta si è chiuso nel confessionale. “Io spero che capisca che al mondo non ci possono essere cittadini di serie A e B davanti alla giustizia. Dobbiamo accettare le regole della Democrazia e anche quelle di Dio” è l’auspicio di Cherniak. Un augurio che è valido anche in questa giornata per ricordare i desaparecidos.

Guarda qui sotto il servizio di Matteo Viviani

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Prete accusato di torture in Argentina. Appello a papa Francesco
Le organizzazioni dei diritti umani argentine si sono rivolte a papa Francesco per chiedergli di intervenire sul caso del sacerdote Reverberi accusato di tortura

Di Agenzia NEV - 4 Giugno 2019

Roma (NEV), 4 giugno 2019 – Varie organizzazioni che lavorano nel campo dei diritti umani in Argentina, tra cui la Federazione delle chiese evangeliche in Argentina (FAIE), hanno inviato una lettera a papa Francesco in cui chiedono che intervenga con gli strumenti messi a sua disposizione dal diritto canonico per insistere e ordinare al sacerdote Franco Reverberi “oggi residente in Italia che si presenti in Argentina e si metta a disposizione della giustizia”.

La vicenda legata a Reverberi è già tristemente nota. Il sacerdote, secondo le testimonianze di numerose vittime sarebbe stato visto nei centri di detenzione clandestina e tortura della città di San Rafael durante l’ultima dittatura civico militare del 1976/1983.

Nestor Miguez presidente della FAIE, intervistato dall’Agenzia NEV ha raccontato che “nel tempo della dittatura molti sacerdoti e le gerarchie della chiesa cattolica sono stai coinvolti in episodi di violenze e sparizione di persone. Molti di loro sono stati localizzati, giudicati e condannati, altri sono sfuggiti alla giustizia. Tra questi c’è il sacerdote Franco Reverberi, che svolgeva il suo servizio nella città di San Rafael, nella provincia di Mendoza. Numerose persone che sono riuscite a sopravvivere a quei centri di tortura e di morte hanno riconosciuto Reverberi come uno di coloro che era presente durante la tortura e svolgeva nel centro un ruolo ambiguo, presentandosi come cappellano quando in realtà stava utilizzando la sua investitura sacerdotale per cercare di estorcere informazioni e confessioni ai detenuti e alle detenute, una vera e propria violenza psicologica e spirituale”.

Reverberi è scappato in Italia nel 2011 un mese prima che il procuratore generale di San Rafael José Maldonado lo indagasse formalmente. Le richieste di estradizione da parte dell’Argentina vengono rigettate dalla Corte d’appello di Bologna e dalla Cassazione, con sentenza definitiva del 17 luglio 2014, con la motivazione che il sacerdote non possa essere estradato perchè nel codice penale italiano non è contemplato il reato di tortura.

“Le organizzazioni argentine che lottano per i diritti umani, per la giustizia e la verità per le vittime di queste violenze hanno chiesto a papa Francesco, che usando il potere che gli attribuisce il diritto canonico insista e ordini al sacerdote Reverberi di presentarsi davanti ai tribunali argentini – ha detto Miguez, che ha poi proseguito -. Se si è riusciti a dare disposizioni perché i responsabili di abusi sessuali siano giudicati, la partecipazione alle torture fisiche, psicologiche e spirituali non è meno aberrante. Sappiamo che il Vaticano ha le sue armi per obbligare Reverberi, che mantiene le sue prerogative sacerdotali, a presentarsi davanti ai tribunali argentini per provare la sua innocenza. Speriamo che tutta la comunità dei credenti insista perché si compia la giustizia e Reverberi si presenti a dare conto delle sue responsabilità. La FAIE in quanto parte del dialogo ecumenico e interreligioso, insieme ad altre organizzazioni per i diritti umani, incluso il movimento ecumenico per i diritti umani, ha firmato questa lettera al vescovo di Roma, papa Francesco, perché intervenga” ha concluso.

“Crediamo che sia molto importante, per la credibilità della chiesa cattolica e per la giustizia del nostro paese, che sia legalmente che eticamente si possa chiarire questa situazione. Per questo ci appelliamo alla sua intermediazione” conclude la lettera.
 
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News | 30 agosto 2019
Giornata dei desaparecidos: il prete italiano ricercato in Argentina per tortura | VIDEO

Il 30 agosto è la Giornata dei desaparecidos. La celebriamo ricordando il caso di don Franco Reverberi, ricercato da Buenos Aires, che vive tranquillamente in Italia

Il 30 agosto è la Giornata internazionale dei desaparecidos, istituita nel 2010 per ricordare soprattutto il genocidio argentino.

I numeri delle “sparizioni” sono ancora alti. Solo in Messico dal 2007 si superano le 25 mila persone. In Siria invece si arriva a 85 mila mentre in Bosnia-Erzegovina non si sa ancora nulla di oltre 8 mila cittadini. E non sono solo tragiche realtà di altri paesi, un filo rosso sangue unisce anche l’Italia al genocidio di desaparecidos più noto, quello argentino.

L’anello di congiunzione si chiama don Franco Reverberi che invece di testimoniare per le torture che sono avvenute in Argentina durante il colpo di Stato è scappato in Italia. E ora è ricercato dall'Interpol.

Per la sua storia bisogna tornare indietro di molti anni come ci ha raccontato il nostro Matteo Viviani nel servizio che vi riproponiamo qui sopra. “La maggior parte dei vescovi era vicina alla dittatura e al silenzio, ma questo terrorismo di Stato ha ammazzato una generazione”, racconta Carlos Cherniak, dell’ambasciata Argentina in Italia.

Tra il 1976 e il 1983, negli anni della feroce dittatura militare, sono scomparse in Argentina più di 30 mila persone. Nel 1983 arriva la democrazia senza un patto coi militari. La dittatura finisce e la gente scende nelle piazze per chiedere verità e giustizia per i figli scomparsi. Viene costituita una commissione di tutte le persone scomparse, così che le vittime potevano fare le denunce. Iniziano i processi e nei tribunali viene chiamato chi è sopravvissuto alle torture.

Tra i nomi che escono dai racconti c’è anche quello di padre Reverberi, un prete italiano. Sono quattro i sopravvissuti alle torture del 1976 nel centro torture di San Rafael in Argentina che lo accusano.

“Sono venuti a casa mia di notte, mi hanno arrestato e trasportato in una gabbia di metallo dove sono stato spogliato e torturato”, ricorda uno dei sopravvissuti. “Mi picchiavano le costole con i pugni. Ricordo che c’era un prete di nome faceva Reverberi. Un habitué di queste torture”.

Il sacerdote, dice, li invitava a collaborare per avere sollievo spirituale: “Ci picchiavano sempre, lui non partecipava ma era lì nella stanza con la Bibbia in mano”.

Il prete, convocato davanti ai giudici, respinge tutte le accuse: “In quegli anni non ero a San Rafael, ci sono arrivato quattro anni dopo. Nessuno mi ha mai parlato di torture e sequestri in quel centro”. I giudici indagano formalmente don Franco Reverberi. “Lui non si presenta e scappa in Italia perché ha la doppia cittadinanza”, prosegue Cherniak.

I testimoni aumentano, così come i dettagli inquietanti sulla sua figura. “Mi hanno pestato per quattro ore mettendomi ripetutamente la testa in un secchio d’acqua. Lì ho visto padre Reverberi”, dice un altro torturato. “È stato presente almeno quattro volte ai pestaggi, ne sono sicuro”.

Gli stessi dettagli sono testimoniati da un altro sopravvissuto: “Vestiva abiti militari e benediva le armi con le quali ci torturava. Un giorno mi ha chiesto da dove venivo. Parlava l’italiano”. Il tribunale argentino invita nuovamente il sacerdote a presentarsi, ma lui invia certificati medici poiché impossibilitato.

Così don Franco diventa a tutti gli effetti un ricercato dell’Interpol. Nel frattempo il sacerdote si rifugia nel suo paese di origine a Sorbolo, vicino Parma. Qui dice messa, dà la comunione e confessa i fedeli. Lo Stato argentino ha richiesto a quello italiano l’estradizione del prete per processarlo. Ma l’Italia ha respinto la richiesta.

Matteo Viviani ha provato a parlare con il sacerdote, che si è chiuso nel confessionale. “Io spero che capisca che al mondo non ci possono essere cittadini di serie A e B davanti alla giustizia. Dobbiamo accettare le regole della Democrazia e anche quelle di Dio”, è l’auspicio di Cherniak. Un augurio che ripetiamo convinti in questa giornata per ricordare i desaparecidos.
 
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https://parma.repubblica.it/cronaca/2021/0...amo_-283389240/

Sorbolo, il caso don Reverberi: "La comunità è stanca. Non giudichiamo fatti che non conosciamo"

Si torna a parlare del parroco dopo che a ottobre è stata emessa una seconda richiesta di estradizione nei confronti del sacerdote italo-argentino
20 GENNAIO 2021
6 MINUTI DI LETTURA
“Per come lo abbiamo conosciuto in questi anni, non possiamo credere che don Franco sia responsabile dei fatti di cui è accusato”: è questo il senso della risposta che da più voci raccolgo nel cortile davanti alla canonica dove vive don Franco Reverberi, a Sorbolo.

In un bar del centro, qualcuno ricorda il clamore che aveva suscitato, nel 2012, la notizia che il parroco, arrivato da circa un anno in paese, fosse ricercato dall’Interpol per fatti risalenti agli anni della “guerra sporca” di Videla.

Oggi la vicenda torna a fare parlare dopo che a ottobre è stata emessa una seconda richiesta di estradizione nei confronti del sacerdote italo-argentino, come riportato nell’inchiesta I fuggitivi pubblicata nei giorni scorsi su La Repubblica.

Originario di Enzano, classe 1937, a undici anni Reverberi emigra con la famiglia in Sudamerica. Nel ‘67 l’ordinanza sacerdotale lo porta a svolgere la funzione di parroco, per oltre quarant’anni, a Salto de Las Rosas.

Dopo la fine della dittatura e dopo l’annullamento delle leggi che impedivano di accertare le responsabilità del terrorismo di Stato, quattro sopravvissuti alle sevizie subite nella Casa Departamental, uno dei tanti buchi neri che inghiottirono migliaia di oppositori politici, chiamano in causa don Reverberi nelle loro testimonianze.

Come emerge dall’inchiesta giornalistica che fa parte del progetto On the run from the past, durante il processo i testimoni riferirono che, mentre venivano torturati, ad assistere vi era il cappellano militare, riconosciuto in Reverberi.

Vestito a volte con abiti militari, altre volte con l’abito talare, la Bibbia in mano, il sacerdote, ricordano i testimoni, parlava raramente e solo per indurre i prigionieri a collaborare.

Ma quando, nel giugno del 2011, il procuratore generale di San Rafael, sulla base delle testimonianze raccolte, chiede che Reverberi venga indagato, il sacerdote non è più reperibile avendo lasciato il Paese un mese prima per stabilirsi a Sorbolo. Ai giudici, che dovevano ascoltare il parroco, fu presentato un certificato che attestava problemi cardiaci.

Nel 2012, a un anno dal suo trasferimento in Italia, una sua foto viene diramata dall’Interpol che emette un mandato di rintraccio nei suoi confronti mentre la richiesta di estradizione avanzata dall’Argentina, in assenza del reato di tortura nel codice penale italiano, viene rigettata prima dalla Corte d’Appello di Bologna, poi dalla Cassazione, nel 2014.

Il 2 ottobre scorso, come riportato sulle pagine di Repubblica, è stata però presentata una nuova richiesta di estradizione nei confronti del sacerdote.

Don Reverberi, come mi dicono in paese, esce raramente e conduce una vita molto ritirata limitandosi a dire messa una volta alla settimana. Nello spiazzo alle spalle della chiesa, delimitato a ferro di cavallo entro gli edifici della canonica, c’è un via vai di bambini accompagnati a catechismo dalle mamme.

Lauretta Ponzi, referente Caritas della parrocchia, all’uscita della canonica non si sottrae alle domande. In che modo ha reagito la comunità parrocchiale di fronte alle accuse rivolte nei confronti di don Franco?

"Guardi, abbiamo già parlato tutti troppo di questo argomento, da diversi anni: più se ne parla e più la gente di Sorbolo scuote le spalle e dice di non volerne più sapere nulla. Noi vediamo l’operato che don Franco sta facendo qui ormai da dieci anni: non abbiamo nessun motivo per poter giudicare. Non conosciamo i fatti, se non quelli che abbiamo letto da voi. Per quello che noi vediamo, non abbiamo elementi per dubitare di lui".

Avete mai provato, in un confronto con la comunità, a chiedere risposte in merito alle accuse che gli vengono rivolte?

"Don Reverberi ha chiarito tutto: anche in Italia è stato assolto perché non si trovava nel luogo in cui dicono che si trovasse al momento dei fatti", mi risponde. Le dico che non è così: non è stato assolto perché non è stato processato, essendo venuto in Italia a un mese dall’inizio del processo. "Comunque ho visto l’inserto che avete fatto" e scuote il capo.

Un peso lo hanno anche le parole dei testimoni: don Reverberi non sente il dovere di dare risposte ai giudici, a chi chiede di ricostruire un pezzo buio di storia, anche per chiarire la sua posizione?

"Potrebbe anche essere, io non lo so, ma prima di tutto credo che debba rispondere davanti a Dio: è un sacerdote, c’è un superiore, c’è un vescovo, dovranno verificare loro. La comunità, mi creda, è stanca. Non possiamo dare giudizi su fatti che non conosciamo, che vengono da lontano e che ci sono stati riportati. Sono fatti rispetto ai quali lui si è difeso a spada tratta di fronte alla comunità parrocchiale".

Don Reverberi si è allontanato dall’Argentina per venire a Sorbolo poco prima del processo che lo vedeva imputato…"Probabilmente sì...questo ci può anche stare: ci possono essere stati sacerdoti che hanno lasciato la vita e altri, magari più deboli, che hanno chiuso gli occhi. Questo più che un problema della Chiesa credo sia un problema della persona. Possiamo mettere in dubbio un sacerdote che sta dando alla comunità, per quello che può dato che è molto malato, il suo impegno celebrando la messa e confessando i fedeli? Nel frattempo si sta curando, ha detto che è venuto in Italia per curarsi: ci sta anche che possa essere venuto in Italia in un momento difficile, ma era anche già malato. A che titolo possiamo giudicare?".

Cercare risposte, per poi poter giudicare, anche a nome delle vittime del regime di quegli anni. "Sì, sì, la storia la conosciamo...ma quando l’altro giorno ho visto il vostro servizio con don Reverberi in mezzo a quei due...mi è dato un colpo al cuore: non ce lo vedo, lì in mezzo, non posso crederci. La mia risposta da fedele, da cristiana, è questa: se lui è veramente colpevole, parli. Se no, ci dovremo affidare alla giustizia divina. Se intervista qualche altro parrocchiano, qualcuno potrebbe dirle che ha dei dubbi ma la comunità vera, che vive attorno alla parrocchia, non si pone il problema: non è che non vogliamo riconoscere quello che veramente è stato ma non vogliamo pensare che il nostro prete – che non è il parroco, perché è qui solo in appoggio – possa essere coinvolto in una cosa del genere".

Da una porta, si affaccia sullo spiazzo don Aldino Arcari, dal 2013 parroco della diocesi. Pochi giorni fa, alla giornalista di Repubblica che gli poneva una domanda sul caso Reverberi, ha parlato di accanimento da parte della stampa, informandola di avere avvertito il vescovo del fatto che in paese fossero tornati giornalisti a chiedere di don Franco.

Di fronte alla mia domanda di un’intervista, accetta di rispondere. Parlare con don Reverberi, invece, non è possibile: è molto anziano e malato, mi dice.

Don Arcari, a testimoniare ci sono quattro ex prigionieri politici che hanno indicato in Reverberi il parroco che nel 1976 avrebbe assistito alle torture mentre più testimoni riferiscono della sua presenza tra il ‘76 e il ‘78 nel centro di detenzione clandestino di San Rafael. Quale è la vostra posizione rispetto a questa vicenda?

"Noi abbiamo un foglio della diocesi di San Rafael che dice che lui non era lì, nel ‘76, e lui stesso ha ribadito che non c’era, in quel periodo, essendo diventato cappellano militare solo nell’80. C’è tanto di documento della diocesi! Le accuse che gli vengono rivolte mi sembrano un po’ forzate, conoscendolo! Qui stiamo dando la caccia alle streghe...".

Ma i centri di detenzione erano extra-legali e clandestini: è improbabile che si registrassero gli ingressi di chi vi operava...

"Può anche essere – ribatte don Arcari – io però mi fido di quello che dice. Se poi fosse falsa testimonianza, dovrà risponderne davanti a Dio. Siamo nel campo delle ipotesi. Lui ha già detto che non c’era. Ma io dico: se anche ci fosse stato, che accusa è? Beh, va bene: aveva la Bibbia in mano, dicono, certo: è un prete, non poteva andare là con un mitra….che conforto poteva dare ai condannati? Cosa poteva fare? Come quando durante il fascismo chiedevano a qualcuno di baciare il crocifisso….Che cosa poteva fare, poveretto… Non siamo mica tutti leoni: pensiamo a Don Abbondio".

All’esterno fa freddo, pur essendo un pomeriggio di sole. Don Arcari mi invita a entrare assieme a Lauretta Ponzi. Mi ripetono che la comunità non può credere che sia lui il prete riconosciuto dai testimoni, non per come lo conoscono.

"Ci pensi - così Arcari, rivolgendosi a me -, come mai papa Francesco non è mai andato in Argentina, che è la sua terra? Chiediamoci questo. E’ un problema politico: non lo possono vedere, quel papa lì, in Argentina e lui non ci andrà mai, glielo dico io: sono delle beghe politiche. Non possono vedere papa Francesco e allora dicono: ti torturiamo questo prete argentino che è in Italia. Ci sono delle storie, sotto, che noi non sappiamo...Io, se fossi papa, la prima cosa che farei sarebbe andare nel mio paese natale…".

Vi siete confrontati col vescovo recentemente sulla vicenda di cui ora si torna a parlare vista la nuova richiesta di estradizione?

"Io e il vescovo siamo molto legati. Quando viene qualcuno a chiedere di don Franco, glielo dico: lui mi ha detto di avere allertato Parolin in modo che avverta il papa di questa storia. Sembra che Sorbolo copra il torturatore ma noi non copriamo nessuno: lo abbiamo qui ospite e ce lo teniamo, anziano e malato, poveretto. Celebra messa solo una volta a settimana e confessa i fedeli: più di questo non fa. Che gli è venuto un infarto è vero: l’ho accompagnato io in ospedale. Per lui questa attenzione è una tortura. Altro, non saprei cosa dirle".

Arturo Salerni, avvocato che nel caso Reverberi è stato parte civile in Cassazione per la Repubblica Argentina, uno dei principali avvocati difensori delle vittime del maxi-processo Condor nel quale sono stati condannati all’ergastolo 24 responsabili dei crimini commessi durante le dittature sudamericane, raggiunto nel suo studio romano così commenta il caso Reverberi: "La richiesta di estradizione fu respinta dalla Corte d’Appello di Bologna, ritenendo che i reati fossero prescritti. Verso di lui era mossa l’accusa di tortura. Io allora feci per la Repubblica Argentina il ricorso in Cassazione che sostanzialmente ribadì le conclusioni alle quali era arrivata la Corte di appello di Bologna.

Dal punto di vista dei processi, in Italia non ci sono attualmente altri elementi. Quello che evidenziamo è che don Reverberi si è sottratto alla giustizia argentina oltre al fatto che ci sono diversi e convergenti elementi di accusa: ci sono precisi riconoscimenti, che sono stati raccolti, tutti convergenti nell’indicare in lui ‘il prete’, il sacerdote che assisteva alle torture in maniera benevola non nei confronti dei torturati ma dei torturatori, con atteggiamento di complicità e spingendo i prigionieri a confessare. Da più parti - conclude il legale - in alcuni casi anche da parte della Chiesa, viene la richiesta che Reverberi si sottoponga alla giustizia terrena, prima di arrivare alla giustizia divina".

Lucia De Ioanna
 
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Argentina: nuova richiesta di estradizione per Don Reverberi, il parroco accusato di tortura e crimini contro l'umanità
di Elena Basso
Don Franco Reverberi
Il religioso officia messa a Sorbolo, in provincia di Parma. Sarebbe stato presente durante gli abusi dei militari negli anni della dittatura nel Paese sudamericano
07 APRILE 2021
2 MINUTI DI LETTURA
Arriva dall'Argentina una nuova richiesta di estradizione per don Franco Reverberi, il parroco italoargentino accusato di crimini contro l'umanità e tortura che officia messa a Sorbolo, un piccolo comune in provincia di Parma. Il sacerdote, che vive in Italia dal 2011, era già stato al centro di una richiesta di estradizione, negata dalla Corte d'appello di Bologna il 20 ottobre del 2013. Il tribunale federale di San Rafael, che ha emesso la nuova richiesta, ha ampliato le accuse nei confronti di Reverberi a concorso in omicidio, imposizione di tortura e privazione di libertà. I crimini di cui è accusato il sacerdote risalgono agli anni '70, tempi segnati da feroci regimi sudamericani che hanno portato, nella sola Argentina, alla scomparsa ed eliminazione di oltre 30mila oppositori politici: i desaparecidos, uomini e donne che venivano sequestrati e fatti sparire in centinaia di centri clandestini di tortura e sterminio.

I fuggitivi
di Carlo Bonini (coordinamento editoriale) , Elena Basso , Marco Mastrandrea , Alfredo Sprovieri. Coordinamento multimediale di Luciano Nigro. Grafiche e video a cura di Gedi Visual
06 Gennaio 2021

Don Reverberi, per oltre 40 anni, ha vissuto ed esercitato come parroco a San Rafael, città argentina a sud di Mendoza, dove, negli anni della dittatura di Jorge Rafael Videla, era stato creato un centro clandestino di tortura e sterminio, la "Casa Departamental", l'unico dei 340 in Argentina all'interno di un tribunale. A San Rafael sono state detenute, torturate e uccise decine di persone. Per processare gli autori di quei delitti nell'agosto 2010 è stato celebrato un maxi-processo. Don Franco Reverberi, negli anni della dittatura, era cappellano militare dell'esercito di quella città ed è stato chiamato a testimoniare come persona informata dei fatti. Accadde però qualcosa di inaspettato: durante il processo, quattro testimoni dissero che mentre venivano torturati era presente il cappellano militare, che identificarono in don Reverberi. Era parroco della loro città e lo conoscevano bene sin da prima di essere detenuti. Dissero che don Franco indossava abiti militari e assisteva ai pestaggi con la Bibbia in mano invitando i torturati a collaborare. A testimoniare contro Reverberi sono stati altri quattro ex detenuti politici: Mario Bracamonte, Sergio Chaqui, Roberto Rolando Flores Tobio ed Enzo Bello Crocefisso. I militari assegnati ai centri clandestini avevano ricevuto uno speciale addestramento alle tecniche di tortura: i detenuti venivano stuprati, picchiati a morte, appesi alle pareti, seviziati con corrente elettrica. I centri clandestini erano centinaia e ufficialmente non esistevano, perché tutto ciò che avveniva fra quelle mura doveva restare segreto. Chi sopravviveva, restava rinchiuso per anni, oppure veniva caricato su un aereo per essere buttato in mare con i "voli della morte" e fatto sparire.
Reverberi nel 2010 si dichiarò innocente e completamente estraneo ai fatti ma le autorità argentine continuarono a indagare e il 14 giugno 2011 il procuratore federale José Maldonado lo convocò con un mandato di comparizione. Il 10 maggio del 2011 però il parroco era volato in Italia e, fornendo cartelle cliniche che ne attestavano problemi cardiaci, dichiarò di essere impossibilitato a viaggiare per presenziare al processo che si era aperto nei suoi confronti. Reveberi, cittadino italoargentino, aveva lasciato Sorbolo - piccolo comune di 9mila abitanti - a 11 anni con la sua famiglia per emigrare in Argentina. Ben accolto e amato dalla comunità, ha condotto una vita tranquilla e defilata, fino a quando nel 2012 la sua foto segnaletica non è comparsa sul sito dell'Interpol che lo ricercava per crimini contro l'umanità e tortura. Oggi, otto anni dopo il rifiuto della richiesta di estradizione, si riapre il caso e c'è di nuovo speranza per i testimoni che, a distanza di 40 anni, continuano a chiedere giustizia. Fra questi Mario Bracamonte che nel 1976, quando aveva solo 28 anni, è stato sequestrato nel centro clandestino di San Rafael. Mario è sopravvissuto e ha dichiarato che durante una sessione di tortura interminabile, durata ore e ore, mentre il pavimento era ricoperto del sangue dei detenuti, ha riconosciuto fra chi osservava Don Franco. "A me non interessa nemmeno che Reverberi vada in carcere - ha detto Mario - Voglio solo che risponda alle domande. Se ha partecipato alle nostre torture, era sicuramente presente anche quando facevano sparire i corpi dei morti. Io voglio solo che mi dica dove sono i miei compagni scomparsi, non chiedo altro. Voglio che risponda alle domande per ritrovare i compagni che oggi non possono più essere qui con noi".
 
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Cassazione

Accolto il ricorso dell’Argentina per l’estradizione del prete italiano accusato di crimini contro l’umanità
I crimini contro l’umanità, secondo il diritto internazionale che prevale anche sulla Carta non si prescrivono. Deposita le motivazioni con le quali è accolto il ricorso di Buenos Aires, per la consegna di don Reverberi
di Patrizia Maciocchi

27 luglio 2022

I crimini contro l’umanità non si prescrivono. A prevederlo è il diritto internazionale che prevale anche sulla nostra Costituzione. Partendo da questo principio la Cassazione ha accolto il ricorso del Governo argentino contro il no all’estradizione di don Franco Reverberi, opposto dalla Corte d’Appello per mancanza di gravi indizi in merito alle accuse di crimini contro l’umanità e tortura, mosse da Buenos Aires al prete italiano.

Adeguate le accuse del governo di Buenos Aires
La Suprema corte ha depositato le motivazioni con le quali, il 30 giugno scorso, ha annullato la sentenza della Corte d’Appello che aveva rifiutato la consegna, per l’assenza di gravi indizi e per la prescrizione. Una decisione che la Cassazione (sentenza 29951) cancella con rinviando alla Corte territoriale per un nuovo giudizio. Ha infatti sbagliato la Corte d’Appello a sindacare le conclusioni raggiunte dall’autorità giudiziaria argentina, valutando la loro “tenuta”. Per l’estradizione, ai fini di un processo, è, infatti, sufficiente valutare la documentazione fornita dallo stato richiedente. E, ad avviso della Suprema corte, lo stato richiedente ha «rappresentato adeguatamente il quadro indiziario a carico dell’estradando nell’esposizione dei fatti». Fatti di dominio pubblico, avvenuti durante la dittatura dei militari, instaurata con il golpe del ’76. Durante il regime dei colonnelli è stata adottata una repressione sistematica degli oppositori, torturati o uccisi facendo ricorso a detenzioni illegittime, con sparizioni che hanno riguardato circa 30 mila dissidenti.


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Il ruolo del cappellano militare
In questo contesto si inquadrano le accuse di crimini contro l’umanità e tortura, rivolte al parroco italoargentino, che vive e svolge il suo ruolo di sacerdote a Sorbolo, il paese in provincia di Parma dove è nato nel ’37. Per le autorità di Buenos Aires don Franco Reverberi, come cappellano della “Casa Departamental”a San Rafael, avrebbe presenziato, in abiti militari, alla tortura di almeno dieci persone. Ad inchiodare il prete alle sue responsabilità sono alcuni sopravvissuti alle sevizie, secondo i quali il cappellano militare dell'esercito, invitava a confessare le colpe per avere un “sollievo spirituale”. Inducendo così, scrivono i giudici, le vittime a sentirsi abbandonate da tutti, anche da Dio. Pur non partecipando materialmente alle torture Reverberi avrebbe svolto un ruolo nei crimini, rafforzando il proposito dei carnefici e aumentando la sofferenza delle vittime.

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Le sevizie
Tra i capi d’accusa anche il concorso nella morte del giovane dissidente José Beròn. Nelle carte fornite dalle autorità argentine, sono chiare le contestazioni mosse al prete italo argentino. La sua presenza anche nel corso delle sevizie più brutali e mortali, come il “sottomarino” - una pratica con la quale il detenuto veniva immerso con il viso in un secchio d’acqua fino ad invocare la morte - era di supporto ai torturatori, mentre mai aveva svoltola sua funzione di sacerdote. Ora, la Corte d’appello dovrà tenere conto delle indicazioni della Cassazione. E don Reverberi rischia di tornare in Argentina per farsi processare. Nel paese che lo aveva accolto a 11 anni quando aveva lasciato Sorbolo per emigrare con la famiglia.
 
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