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Rimuovete quella targa

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view post Posted on 17/1/2007, 14:00
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http://www.arezzonotizie.it/Servizi/Notizi...s.asp?IDN=41690

Arezzo rimuova la targa che celebra il pogrom del 1799
Non va scambiata per una delle futili guerricciole sulla toponomastica la disputa scatenatasi a Arezzo dopo la collocazione in un’area della città – su iniziativa dell’ex- sindaco di centrodestra – di una targa che letteralmente suona: “Piazzetta del Viva Maria / insurrezione popolare 1799-1800”. Ora il consiglio comunale è chiamato a pronunciarsi su quella discussa iniziativa.

La diessina Edi Bacci ha rivolto al sindaco Fanfani, espresso da una maggioranza di centrosinistra, un’interrogazione che chiede di rimuovere la targa apposta, come del resto si era promesso in campagna elettorale. Nell’atto di indirizzo all’ordine del giorno del consiglio comunale di venerdì 19 gennaio si sottolinea che “il tema riveste estrema attualità in un periodo in cui estremismi e fanatismi spingono a una riflessione sul rischio, sempre incombente, che la devozione si traduca in intolleranza”. Non si potrebbe meglio inquadrare il dibattito in corso: esso ha marcate risonanze simboliche e segnala inquietanti problemi.

Niente a che fare, dunque, con dilemmi di altro tipo: sui quali ormai ci sarebbe da scrivere un infuriato libello. È recente l’animata discussione, insorta a Marina di Pisa quando è stata formulata l’idea di intitolare un belvedere al fisico Bruno Pontecorvo: si è obiettato che la fuga dello scienziato in Urss e la conseguente collaborazione con i governanti sovietici non legittimerebbero oggi un atto del genere: e tutto si è bloccato. Allorché l’Ateneo pisano deliberò di far murare una lapide in omaggio a Giovanni Gentile l’esito (nullo) non fu più felice. A Firenze – e non soltanto – si è detto no, correttamente, alla dedica di una strada a Oriana Fallaci, reclamata dal centrodestra con obiettivi che non hanno nulla a che fare con l’omaggio alla spigliata giornalista di una volta.

Questa catena di episodi attesta, per un verso o per l’altro, che alla battaglia delle idee si preferisce sempre più frequentemente la sbrigativa battaglia delle targhe: richiede meno impegno di studio, esclude ogni fatica di analisi ed è in linea con una società drogata da fulminei spot e da imperativi slogan pubblicitari, da triviali e faziose etichettature.

Torniamo a Arezzo, perché l’animosa querelle che vi si trascina coinvolge temi spinosissimi ed ha risvolti davvero inimmaginabili. Come si sa tra le insorgenze che scoppiano in Toscana e in altre parti d’Italia sulla fine del Settecento, il movimento – ma forse è troppo dire – designato del “Viva Maria” spicca perché, insieme a impulsi e motivi condivisi con altre rivolte del genere, ha come sua componente un feroce odio antiebraico. Che culminò nell’efferato pogrom consumato nel Campo di Siena il 28 giugno 1799, a opera e su incitazione, appunto, delle truppe giunte da Arezzo e con la partecipazione di elementi di basso popolo di varia provenienza. Le cronache del tempo tratteggiano un quadro tremendo: di ebrei – almeno tredici – squartati a gettati semivivi tra le fiamme, di una madre incinta assassinata sul sagrato di una chiesa, di ruberie e distruzioni in sinagoga e nel ghetto, di case devastate e svuotate. Sulle ceneri del rogo fu issato lo stendardo con l’immagine della Madonna del Conforto – che i rivoltosi portavano a insegna – proprio dove poco prima i francesi avevano piantato un esile Albero della Libertà.

Non è qui il caso di evocare, neppure per sommi capi, l’imponente letteratura accumulatasi su un fatto che ha finito per caricarsi di una cruda valenza sintomatica. Basterà dire che dopo i coevi, primissimi scritti di natura apologetica e le opposte interpretazioni laicistiche, dopo ponderose e solide ricerche della buona storiografia positivista, si è oggi di molto allargato il campo dell’indagine e ci si é via via sottratti ad una semplificata torsione ideologica, che toccò i suoi abissi sotto il fascismo, in coincidenza con il varo della legislazione antiebraica: “La difesa della razza”, l’infame rivista razzista, dette spazio, nel 1939, a rievocazioni dell’ondata di sanfedismo divampata attorno alla fine del XVIII secolo. Vi si esaltava la vendetta perpretata da “cristiani che per tanti anni erano stati soggetti al denaro e alla prepotenza dei giudei”.
Alcune acquisizioni è opportuno richiamare per suggerire un’analisi aggiornata e ad ampio spettro. Le insorgenze, più o meno spontanee, jacqueries più che rivolte, ribellioni tumultuose più che definite proteste, non furono certo concatenati momenti di una consapevole rivoluzione. Esplose qua e là nell’Italia napoleonica e nel Mezzogiorno, registrate dal 1790 in Toscana con una certa intensità anche a Livorno, Pisa, Prato o ai suoi confini, a Città di Castello, furono originate da cause diverse e sarebbe errato costringerle in un’unica dimensione.

Ci fu, anzitutto, un disperato malcontento sociale, che prese di mira il liberismo delle riforme leopoldine: non fu la nostalgia del granducato in quanto tale a prevalere, malgrado si chiedesse il ritorno di Ferdinando III e ci si proponesse di cacciare i francesi invasori e occupanti. L’opzione giacobina di chi stava dalla parte delle innovazioni di conio francese ebbe presa, ma le élites borghesi non furono in grado di assumere in pieno il dinamismo riformatore che ne derivava e non si riuscì a dargli una convincente e autonoma connotazione nazionale. L’alto clero vedeva minacciata la sua posizione ed è documentata una sua molto penetrante azione al fine di fomentare o sostenere talune rivolte. C’era chi semplicemente nutriva un disegno di restaurazione sotto l’egida di Francesco II. Fatto è che la saldatura in nome di una generica reazione antifrancese tra l’impaurita aristocrazia dominante e gli strati di popolo più sconvolti e feriti dalla crisi produssero moti che nell’insieme si configurarono come politicamente reazionari, tesi a ripristinare l’infranta alleanza tra Trono e Altare, privilegi e consuetudini di ancien régime.

Una tale ricostruzione dei caratteri salienti non impedisce affatto di mettere in rilievo le nefandezze inferte a luoghi di culto cattolico, a sacerdoti inermi e ai simboli di una religione che faceva tutt’uno con un geloso senso d’identità. Dentro i tumulti di quel decennio ci fu, eccome, anche una ribellione contro chi offendeva sentimenti profondi e care immagini: la storia della pietas dovrà proseguire in ricerche che non hanno riscosso la dovuta attenzione. Michel Vovelle ha, autorevolmente, scritto che un racconto plausibile di quegli avvenimenti si potrà fare solo “intrecciando gli elementi di spiegazione socio-economici e quelli religiosi e culturali”. Siamo ben lungi dal disporre di un panorama completo, che offra un sintetico sguardo comparatistico su tutti gli analoghi fenomeni che si registrarono nella penisola nel decennio di fine Settecento.

Se le cose stanno – approssimativamente – così, vien da domandarsi che senso abbia ritagliare dal magma di quegli anni un fatto atroce assurto a paradigma di violenta intolleranza e, facendo leva su un distorto e anacronistico uso politico-ideologico della storia, trasferire lo slogan di cui si fregiò su una lapide celebrativa. A chi conviene – dopo quanto ha detto e scritto Giovanni Paolo II sulle responsabilità nelle persecuzioni contro gli ebrei – fare di una data e di una rivolta, così irta di scabrose contraddizioni, tema di discrimine o verifica di appartenenza?

C’è da augurarsi che il consiglio comunale della città di Petrarca e di Piero ci ripensi e, magari, solleciti, concorde, una più obiettiva e onesta consapevolezza di quel complicato decennio: le forme saranno inventate. E anche la Diocesi, oltre la diatriba sulla targa appiccicata tra via Pileati e via dell’Orto, non potrà non interrogarsi su quale sia la strada più feconda da percorrere per assicurare una presenza più percepibile, moderna, diffusa e incisiva ad un laico cattolicesimo, che non voglia restar prigioniero di decrepite subordinazioni temporalistiche. Suscita ancora ribrezzo il solo pensare come un bel nome per consuetudine associato al bisbiglio della preghiera – “Non lasciare deserti i miei giardini”: è un verso di Mario Luzi – venisse urlato in un “Viva Maria” che suonava aggressivo grido di guerra. La targa che consacra quel grido è da rimuovere.

Roberto Barzanti
 
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dirk58
view post Posted on 18/1/2007, 00:15




purtroppo questo denota il tenore e il grado a cui viene dato una notizia in ITALIA!!!
Roba da serie c?Z?
NO!!!Da notizia........
Ed intanto le cose serie e preoccupanti languono!!!!
 
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1 replies since 17/1/2007, 14:00   184 views
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