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Quel vizietto antico: si sa che il sedere è “il boccon del prete”, (e altre cronache dalla Roma papalina)

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Felipe-bis
view post Posted on 11/3/2010, 11:28




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martedì 9 marzo 2010
Quel vizietto antico: si sa che il sedere è “il boccon del prete”

Preti pedofili? Un fenomeno antico. Ricordo che da piccolo andavo con i coetanei alla "dottrina" e poi a giocare a pallone, in parrocchia. Ebbene, uno dei primi avvertimenti dei piu' navigati e grandicelli era di stare attenti a "Padre suino", un pretone grande e grosso, con la faccia che ricordava proprio il soprannome. Il messaggio era di non trovarsi da soli con lui, chissa' perche'. Seguendo alla lettera la raccomandazione non seppi mai cosa si poteva rischiare, ma "vox populi", anzi puerorum, "vox dei".
Ogni tanto si riparla della "vocazione" pedofila che si accompagna talvolta alla piu' nobile vocazione del clero. Anzi, oggi c'è un vero e proprio boom di denunce contro i preti pedofili in tutto il mondo.
La storia ha origini lontane, vuoi per il celibato imposto ai preti, vuoi per il timore di incorrere in incidenti con le donne adulte e adultere.
Il Belli cita addirittura la figura del "marito della moglie del prete", un soggetto consenziente in cambio di congrua sistemazione economica, non del tutto sconosciuto ai tempi del Papa-Re. In quel caso era tutto protetto dal santo matrimonio e il prete poteva avere una discendenza che portava il cognome del "marito della moglie del prete". Ma di questo ci occuperemo in altri sonetti. Ora torniamo all'irrefrenabile tendenza pedofila dei preti:
..
ER CURATO DE GGIUSTIZIA

Un curato da mette appett’a cquesto
quanno lo pôi trovà cerchelo puro,
dotto compagn’a llui, lescit’e onesto,
inzomma un zanto appiccicato ar muro.
Addimànnelo ar chírico: ecce testo:
lui te pò ddì ssi cquanto è mmuso duro,
e ssi ppe mmette li sciarvelli a sesto
er vicolo lo trova de sicuro.
È un vero Salamone: e lo sa Rrosa
si in articolo affari de cusscenza
vò la santa ggiustizzia in oggni cosa.
Lei se fasceva fotte da Ggiuvanni,
e llui pe ffajje fà la pinitenza
j’ha bbuggiarato un fijjo de sett’anni.(1)
Terni, 19 ottobre 1833
Versione. Non puoi trovare un curato come questo neanche a cercarlo: dotto, lecito e onesto, proprio un santo appiccicato al muro. Chiedilo pure al sagrestano buon testimone, lui ti puo' dire quanto e' rigoroso e come sa trovare la strada per tutte le questioni. E' un vero Salomone e lo sa bene Rosa se nella soluzione degli affari di coscienza applica la santa giustizia. Lei si faceva fottere da Giovanni (mettendo le corna al marito) e il curato per farle fare penitenza le ha sodomizzato un figli di sette anni (1).
C'e' poi anche una coppia di sonetti, La lottaria nova (I e II) del 15 e 16 giugno 1834, che dipingono in modo se vogliamo piu' delicato, la predetta inclinazione dei preti per il "persichino" (da "persica"=pesca, ovvero il sedere dei bambini, cfr. l'inglese fam. peach per il sedere delle donne). Sono rilevanti le ultime terzine del primo e secondo sonetto, che nello stile del Belli sono quasi sempre a sorpresa!
In sostanza, si fa una lotteria a casa dei Marchesi Teodoli, via del Corso 382. Si tira dal bussolotto uno "spegazzo", un biglietto con riferimento al premio, e se non si vince vi si trova scritto il motto "allegri". "Alegri un cazzo" (in romanesco, "un bel niente", "un corno"), commenta il Belli.
Ma a qualcuno, dopo aver tirato a sorte per un'ora, capitano i premi più strani e inadatti, addirittura comici:
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Eppoi che ppremi sò cquanno c’hai vinto?
Figurete c’un prete tirò un’ora,
e abbuscò ddu’ speroni e un culo finto.
.
Con gli speroni da cavaliere, commenta il Belli, un sacerdote non ci fa proprio nulla. In quanto al "culo finto", imbottitura di cui le dame dell'800 andavano fiere, be', il discorso potrebbe essere, vista la fama dei preti, un po' diverso:
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Trovo ch’ er culo-finto è un antro sbajjo.
Perché un prete che vvojji èsse sincero,
ve dirà: "Dda ste cose io nun zò stemio; (2)
ma mmetteteme avanti un culo vero".
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(1) Un certo don Diego Mattei, "pio parroco" in Terni, scrive in nota il Belli.
(2) Astemio, lontano.
Pubblicato da Paolo Bordini

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lunedì 8 marzo 2010
Guardie del Papa: se la moglie non “ci sta”, marito colpevole

Le donne non erano certo molto rispettate nella Roma dei Papi, visto il millennario disprezzo della Chiesa cattolica per la donna. Unica ben nota eccezione la madre di Gesù. Ma per lei, raccomandata speciale, si fa il miracolo di considerarla vergine…
E sì, perché alla donna la Chiesa cattolica ha imposto solo tre strade, una più drammatica e umiliante dell’altra, come lamentavano anni fa le femministe. Vediamole.
1. Madre. La donna, si sa, è impura se ha già conosciuto l’uomo. In pratica, le oneste madri di famiglia fattrici di tanti figli erano considerate impure? No, loro no, perché sposate col "Santo Matrimonio" dove il sesso, si sa, non è un piacere ma un "dovere coniugale". Ché così quasi passa la voglia...
2. Puttana. La donna come Eva è pur sempre tentatrice e incline al piacere all'uomo, ergo spinge l’uomo al peccato, e quindi è equiparata dalla Chiesa inconsciamente al Demonio. Il Tentatore di Gesù nel deserto - dicono i Vangeli - aveva non per caso sembianze femminili. Misoginia millennaria della Chiesa denunciata fin dall'origine dalle donne femministe. Tutte puttane, dunque? Be', non proprio: ci sono sempre le eroine.
3a. Santa. Le "pie donne", le "Dame di S. Vincenzo, le beghine, le bizzocchere, le dedite alle grandi cause altruiste, le super-volontarie alla Nightingale, e infine le Sante, ovviamente tutte "presunte vergini" o, a un livello di verginità probabile molto più basso, spesso sottozero, visti i conventi (cfr. Boccaccio), le monache. A parte, si sa, le rare fulgide figure come suor Teresa di Calcutta e le monache-sante. Quartum non datur? E' così, infatti c'è solo un'altra sub-specie della santa che è apprezzata dalla Chiesa: la donna-vittima. Che, visto il masochismo delle donne, è una categoria molto frequente:
3b. Martire. Le donne per la Chiesa hanno la "libertà" di essere con dignità o sante o martiri, cioè violentate. E’ il caso, appunto, delle tante Marie Goretti, cioè delle vittime "incolpevoli" (!) di stupri. E anzi, questa parrebbe per le donne una condizione conveniente, quasi desiderabile, secondo la Chiesa, perché in un colpo solo da colpevoli e "poco di buono" potenziali passano subito a "vergini e martiri".
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Sessualità contorta e complicata? E' dire poco. Certo, la condizione della donne sotto Santa Romana Chiesa è materia che interessa da molto tempo gli psico-patologi, e che forse spiega una parte di tanta omosessualità e perversione tra il clero cattolico apostolico romano. Romano, sì, anche quando il prete riconosciuto colpevole ieri di sodomia e oggi di pedofilia (anche i peccati sessuali dei preti seguono le mode) ha un cognome irlandese, tedesco, boliviano o statunitense.
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Oggi, 8 marzo, dedichiamo questo sonetto sulla condizione della donna nel Regno Pontificio innanzitutto agli stupidi che hanno da ridire sul Risorgimento e la presa di Porta Pia, ma poi anche alle tante donne che oggi giustamente celebrano non l’ennesima consumistica "festa" all’italiana, la "Festa della donna", ché in Italia tutto diventa una festa, con tanto di fiori e dolci, perché tutto resti come prima, ma la "Giornata internazionale della donna" che è tutt'un'altra cosa. Donna che nel sonetto, riconosciamolo da maschi, fa una bella figura: pur disperata, dice no alla prepotenza del capo degli sbirri.
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ER LOGOTENENTE
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Come intese a ciarlà der cavalletto,
Presto io curze dar zor Logotenente:
"Mi' marito... Eccellenza... è un poveretto
Pe carità... Ché nun ha ffatto gnente"..
Dice: "Mettet'a ssede". Io me ce metto.
Lui cor un zenno manna via la gente:
Po' me s'accosta: "Dimme un po' gruggnetto,
Tu' marito lo vòi reo o innocente?".
"Innocente", dich'io; e lui: "Ciò gusto"
E detto-fatto quer faccia d'abbreo
Me schiaffa la man-dritta drent'ar busto.
Io sbarzo in piede, e strillo: "Eh sor cazzeo...
"E lui: "Fijola, quer ch'è giusto è giusto:
Annate via: vostro marito è reo".
.
Roma, 6 novembre 1832
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Versione in italiano: Appena udii parlare del cavalletto (1) mi precipitai dal capo delle guardie:"Mio marito, Eccellenza... è un poveretto, per carità... perché non ha fatto niente". Lui dice "Mettiti a sedere". Io mi ci metto. Lui con un cenno manda via la gente: Poi mi si avvicina: "Dimmi un po', bel musetto, tuo marito lo vuoi colpevole o innocente?" "Innocente", io dico; e lui: "Mi fa piacere". E, detto fatto, quella brutta faccia (2) mi infila la mano sinistra dentro al corsetto, nel seno (3). Io salto in piedi, e strillo: "Eh, signor cazzeo..."E lui: "Figliola, quel ch'è giusto è giusto: andate via: vostro marito è reo".
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1. Pena, o piuttosto tortura in uso nella Roma dei Papi: si veniva legati seduti ad un banco mostrando la schiena nuda su cui venivano inflitti numerosi colpi di scudiscio (nerbo di bue o corda con nodi). Nel sonetto 844 "Piazza Navona" (1 febbraio 1833) c’è un verso eloquente: "Ccquà s’arza er cavalletto che dispensa sur culo a chi le vò trenta nerbate". "A chi le vò", verosimilmente nel senso di "a chi se l'è meritata", perché la pena era vergognosa. Niente a che fare, insomma, con le frustate scelte da volontari masochisti come supplizio eroico di autoflagellazione sanguinosa e ascesi mistica, come i famigerati monaci fanatici flagellanti all’Oratorio del Caravita. Nel sonetto 253 "La corda ar Corzo" (21 novembre 1831) il Belli spiega che il cavalletto non aveva in realtà un effetto molto grave, "che for de quer tantino de brusciore un galantuomo, senza stacce a letto, pò annà per fatto suo come un signore ". Sublime l’ironia della contrapposizione capovolta tra galantuomo e signore, tipicamente belliana.
2. "Faccia d’abbreo", diffuso epiteto razzista del popolino romano, aizzato dall’antigiudaismo diffuso nella Roma papalina e un po’ ovunque nella Chiesa, per istigazione secolare dei preti.
3. Le donne nell'Ottocento non portavano reggiseno, essendo la funzione del sorreggere affidata allo stesso corsetto esterno (v. illustrazione).
Pubblicato da Nico Valerio

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Felipe-bis
view post Posted on 1/4/2010, 09:27




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domenica 21 marzo 2010
Professioni d’oro: il “marito della moglie del prete”

Non solo oggi, ma già ai tempi del Belli i preti ne facevano di tutti i colori, soprattutto in fatto di sesso. Tanto che ne venne un detto romanesco "Nun fa' quello che il prete fa, ma fa' quello che il prete dice", con cui "Peppe er tosto" (così il Belli si firmava) fa terminare un sonetto.
Il fatto è che il potere temporale della Chiesa consentiva ai membri del clero di fare e disfare a piacimento le regole a cui, invece, tutti gli altri sudditi dovevano obbedire. E una delle regole piu' violate era la castita'.
Abbiamo visto che la frequentazione dei bordelli era una delle valvole di sfogo. Ma se il prete non era un puttaniere poteva anche essere tentato di accasarsi stabilmente con una bella ragazza. Ma come fare? Gettare l'abito talare alle ortiche? Manco per sogno. Il Belli evidenzia nei sonetti una figura caratteristica, che con alcune varianti definisce "il marito della moglie del prete".
In sostanza i preti propensi ad accasarsi andavano a caccia di due diverse opportunita'.
1) Ricerca di un giovine di famiglia credente e bisognosa e dal carattere buono e remissivo. Seguirlo nella dottrina e dare un minimo di aiuto alla sua famiglia e a lui stesso (in modo da predisporre una certa omerta').
Ricerca poi di una giovine bella e disinibita ma povera e senza conoscenze, disposta a cambiare vita e a seguire la tonaca in una possibile scalata delle gerarchie ecclesiastiche. Se il prete era giovane e rampante poteva essere un ottimo investimento per la coppia disponibile a questo compromesso.
Entrambe le ricerche erano facili essendo disponibile una enorme quantita' di materia prima, l'indigenza del popolo minuto.
Nel contado un semplice parroco gia' aveva i mezzi e il potere di organizzare tutto questo. A Roma citta' era piu' alla portata di gerarchie superiori.
Ma veniamo alla procedura. Il prete o prelato offre al giovane dal buon carattere su un piatto d'argento il matrimonio con una "perla" di ragazza con dote e con corredo, insieme a un buon impiego in qualche sito dell'amministrazione della citta' o all'apertura di una attivita' artigianale. Una specie di terno al Lotto. Naturalmente tutto finanziato "dar furmine a tre pizzi" (il tricorno del prete antico). Certo esiste l' alea sulla durata di questo "menage a trois" dovuto all'eta' e alla salute del prete. Sopratutto se l' impiego e' nei palazzi del potere.
In questo modo questa trinita', triade o trimurti comincia il suo cammino, ovviamente fra i raschi di gola e i commenti piu' o meno salaci di chi inevitabilmente sa o crede di sapere, ma non puo' dire apertamente.
Ma esiste anche una seconda possibilita':
2) Imbattersi nel corso dell' apostolato in una coppia gia' formata, nel cui nido il cuculo-prete veda possibile deporre le sue uova, certo non all'insaputa dell'uccellina, e forse ma non sempre, con la buona fede del cornutello.
In questo frangente piovono regali e prebende, spesso mascherati da improbabili vincite al lotto.
Sarebbe divertente entrare piu' a fondo nel merito di questi straordinari "menages". Quali accordi non scritti e forse neanche sussurrati esistevano all'interno di questa triade? Forse il prete aveva il diritto di pretendere l'esclusivita' del talamo coniugale, o forse no; certo sarebbe curioso che il voto di castita' sottoscritto dal prete nel matrimonio con l' "ecclesia", fosse passato brutalmente al povero "marito della moglie del prete", un vero "testa coda", un ribaltamento totale degli impegni assunti dal prete da una parte e dal marito dall'altra. Un curioso scambio di prerogative e doveri tra marito e prete, con il primo che deve rinunciare a favore del secondo alla prerogativa del santo matrimonio "ad procreandam prolem" con l'inevitabile contemporanea assunzione del voto di castita', tipico, mai invidiato, e sovente non rispettato onere del prete. Andava proprio cosi? Forse il povero marito era poi costretto a mettere le corna alla moglie con qualche Santaccia di turno (vedi i sonetti Santaccia di piazza Montanara), frequentando bordelli e pagando, sempre con i soldi del prete, un amore mercenario, che per le regole della Santa Madre Chiesa lo avrebbero condotto al peccato mortale e al rischio dell'Inferno.

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Vediamo l'episodio piu' noto e piu' eclatante di questa straordinaria "professione" descritta dal Belli con diversi sonetti. E' il caso della "puttana santissima" Clementina Verdesi, l'amante del Papa Gregorio XVI, moglie del suo barbiere e poi cameriere segreto Gaetanino Moroni.
Confermato anche dal romanziere Stendhal, allora console di Francia a Civitavecchia, in una lettera al Duca di Broglie del 5 Aprile 1835: "Il Papa ama riposarsi in compagnia della moglie di Gaetanino. Questa donna, che puo' avere 36 anni, non e' ne' bene ne' male. Gaetanino quattro anni fa non aveva niente e ora contratta immobili per 200.000 franchi".
Come si dice, il pesce puzza dalla testa, e se il Papa dava un tale buon esempio, la truppa del clero non poteva che seguirlo.
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UN ANTRO VIAGGIO DER PAPA
Io ste cose le so da la padrona
che lo disse a llei stessa l’antro ggiorno
la puttana santissima in perzona
2 giugno 1835
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UN FELONIMO
Perché er zor Dezzio senza move un deto
va ssempre bben carzato e bben vistito?
Lo volete sapé? pperch’è mmarito
de la mojje d’un prete: ecco er zegreto.
Er bon deggno eccresiastico, anni arrèto,
lo conobbe pe un giovene compito:
je messe amore, e jj’asseggnò ppulito
er frutto de la viggna de Corneto.
Cuanno vedete un omo sfaccennato
che vve fa lo screpante e ’r zostenuto,
guardate avanti a ttutto s’è ammojjato.
S’è scapolo, ha cquarch’antr’arma d’ajjuto:
o ll’uggna longhe, o ffra ddenti e ppalato
un pezzetto de carne un po’ ppizzuto.
Roma, 5 maggio 1833

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Versione. Un Fenomeno. Perchè il sor Decio senza muovere un dito va sempre ben calzato e ben vestito? Lo volete sapere? Perche' e' il marito della moglie di un prete: ecco il segreto. Il buono e degno ecclesiastico anni indietro riconobbe che era un giovane a modo: prese a benvolerlo e gli fece sposare il frutto della vigna di Corneto (localita' immaginaria da dove provengono le donne che mettono le corna). Quando vedete uno sfaccendato che fa il presuntuoso e il sostenuto, guardate prima di tutto se e' ammogliato. Perche' se e' scapolo si aiuta in altri modi, o ha le unghie lunghe (ladro) o ha fra denti e palato una lingua un po' pizzuta (fa la spia).
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Ma non tutte le ciambelle riescono col buco, in qualche caso il marito scelto dal prete si rifiuta vivacemente si sposare l'amante del prete, come descritto nel sonetto che segue.
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TRESCENTO GNOCCHI SUR ZINALE
Io l’aringrazzio tanto, sor don Pio,
de quela dota che ttiè bbell’e ppronta.
Io pe rregola sua campo der mio
senza bbisoggno un cazzo de la ggionta.
’Na zozza, frittellosa, onta e bbisonta
piú ppeggio de la panza d’un giudio,
che indove tocca sce lassa l’impronta,
nu la vorría si mme la dàssi Iddio.
Io a ste facce da spazzacammini
nun je darebbe un pizzico nemmeno
le vedessi cuperte de zecchini.
Sor don Pio, tra la zella io nun ce godo
come lor’antri preti, c’o ppiú o mmeno,
drent’a la porcheria sce vanno in brodo.
27 aprile 1835

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Versione. Trecento scudi sul grembiule. Io la ringrazio tanto sor Don Pio per quella dote che tiene bella e pronta. Ma io per sua regola campo delle mie sostanze, senza affatto bisogno di averne di piu’. Una zozza piena di macchie, unta e bisunta, molto peggio della pancia di un ebreo, che dove tocca ci lascia l’impronta, non la vorrei anche se provenisse da Dio. Questo genere di facce da spazzacamini non le toccherei neanche se fossero coperte di zecchini. Sor Don Pio io non ci godo a stare in mezzo al sudiciume, come fate voi altri preti, che chi piu’ chi meno tutti ci provate piacere.
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Se poi la tresca viene condotta senza il consenso dello sposo, il furore di lui diventa irrefrenabile in attesa che schiatti "er tu porco de prelato".
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ER MARITO ASSOVERCHIATO
Gode, gode, caroggna bbuggiarona.
Bbrava! strilla un po’ ppiú, strilla ppiú fforte.
Troja, fàtte sentí: vva’, pputtanona,
spalanca le finestre, opre le porte.
Mó è ttempo tuo: oggi vò a tté la sorte.
Scrofa, lassela fà ssin che tte sona.
’Na vorta ride er ladro, una la corte;
e la cattiva poi sconta la bbona.
Te n’ho ppassate troppe, foconaccia:
ecco perché mm’hai rotta la capezza,
vacca miggnotta, e mme le metti in faccia.
Ma schiatterà er tu’ porco de prelato,
e allora imparerai, bbrutta monnezza
cosa vò ddí un marito assoverchiato.
18 marzo 1834

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Versione. Il marito sottomesso. Godi, godi carogna, gran puttana. Brava strilla di piu', strilla piu' forte. Troja, fatti sentire dal vicinato: piu' forte, puttanona, spalanca le finestre, apri le porte. Adesso ti dice bene: hai la sorte a favore. Scrofa, goditi il tuo momento fin che puoi. Che una volta ride il ladro, ma poi ride il tribunale, e le cattive azioni sono poi punite. Te ne ho fatte passare troppe, mignottona; ecco perche' ti sei potuta liberare dalle briglie (del matrimonio), vacca, meretrice, e me le hai gettate in faccia. Ma dovra' morire quel tuo porco di prelato, e allora imparerai brutta schifezza cosa ti fara' passare un marito soverchiato (messo sotto dalla moglie).
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I preti che avevano optato per una tranquilla vita coniugale utilizzando la formula del ménage à trois, morendo non potevano fare a meno, per amor paterno, di istituire eredi i figli del "marito della moglie del prete", insieme alla "fedele" si fa per dire, moglie medesima. Per caso si verifico’ nel 1833 la morte in due giorni consecutivi di due prelati, entrambi coinvolti in menages del genere. Il sonetto è davvero ostico, appesantito da termini giuridici deformati, ma lo aggiungiamo per completezza imformativa.
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L’ARREDE DER PRELATO
Cuer Prelato, cuer cazzo de somaro
che mmorze de pulenta francescana,
sappi che llassò arrede fittucciaro
don Fregaddio, cuell’antra bbona lana.
Sentito er testamento der Notaro,
fesce er marito d’Anna la frullana:
"Vòi scommette ch’er prete miggnottaro
dà ttutto a cquarche ffijjo de puttana?".
Bbe’, er prete oggi ha ccacciato una cartuccia
che ddisce: "Io chiamo a tté, ddon Sperandio:
tu cchiama er fijjo che mm’ha ffatto Annuccia".
E er cornuto mó escrama, e ll’ho intes’io:
"Che bbon prete! ha spiegato la fittuccia
tutta in testa de Peppe er fijjo mio".
Roma, 24 gennaio 1833

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Versione. L'erede del prelato. Quel prelato (monsignor Nicolai), quel cazzo di somaro morto di gonorrea (malattia venerea), devi sapere che ha lasciato erede fiduciario Don Fregaddio (storpiamento per Sperandio), un’altra buona lana. Sentito il testamento letto dal notaio, disse il marito di Anna la friulana: vuoi scommettere che il prete mignottaro lascia tutto a qualche figlio di puttana?" Ebbene, oggi e’ uscito fuori un documento del prete che dice: io chiamo (lego) te Don Sperandio: tu poi darai al figlio che mi ha fatto Annuccia. E ora il cornuto esclama, e l’ho sentito io: "che buon prete! Ha passato la fiducia (dal precedente termine fiduciario), cioe’ l’eredita’, tutta a favore di mio figlio Pippo."
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Non mancano riscontri storico-biografici precisi. Nel diario del Principe Agostino Chigi si legge: "Venerdi 18 gennaio 1833. Nella notte e’ passato ad altra vita Monsignor Nicolai in eta’ di circa 80 anni. Ha istituito erede un tal Grossi che e’ passato sempre per suo figlio naturale, in preferenza di due fratelli di esso defunto. Sabato 19, detto. Nella scorsa notte e’ morto dopo un lungo cronicismo Monsignor Lancellotti, Chierico di Camera e Presidente delle Acque e Strade, ed ha lasciato erede il figlio di un suo cameriere che passava per suo figliano, e presso molti per qualche cosa di più". Un altro caso di "marito della moglie del prete".


 
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Felipe-bis
view post Posted on 28/4/2010, 20:22




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martedì 20 aprile 2010
E se un prete dà scandalo? E' trasferito in altra parrocchia

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I preti, dall'alba del cristianesimo ai giorni nostri, sono stati oggetto e soggetto di atti di violenza e di crimini, per affermare di volta in volta, la libertà di professare la nuova religione, (vedi i cristiani in pasto ai leoni nel Colosseo), o per propugnare o combattere nel corso di durissime lotte fra cristiani, le regole del proprio credo religioso. La strage di San Bartolomeo a Parigi, la notte del 23 Agosto 1572, vide il massacro degli ugonotti, riformatori seguaci di Calvino, da parte dei cattolici. All'apprendere la notizia, Papa Gregorio XIII fece cantare un Te Deum di ringraziamento, coniare una medaglia con la propria effigie per ricordare l'evento e commissionò al pittore Giorgio Vasari una serie di affreschi raffiguranti il massacro, tuttora presenti nella Sala Regia dei Palazzi vaticani. I papi moderni, invece, hanno chiesto perdono agli uomini e a Dio per quelle stragi "cristiane".
Ma c'è dell'altro, purtroppo: i preti, i frati e, in minor misura, le monache (vedi la monaca di Monza nei Promessi Sposi del cattolico Manzoni, e parecchie novelle nel Decamerone di Boccaccio), si sono sempre macchiati degli stessi peccati o crimini del resto della popolazione. Come è statisticamente normale, del resto.
Anzi, correva voce tra le malelingue del popolo, fin dal Medioevo, che i peggiori elementi, i manigoldi più scapestrati, si rifugiassero dopo una vita dissoluta o dedita al vizio, al sicuro nei conventi.
La vocazione riottosa dei preti e specialmente dei frati è proseguita nei secoli fino ad oggi, anche quando le regole sono ormai stabilite con le rispettive aree di influenza territoriale: la chiesa cattolica, quella ortodossa, i riformatori del nord Europa e tante altre realtà minori. Chi non ricorda la notizia che ha fatto il giro di tutti i telegiornali del mondo sulle botte da orbi in Terra Santa, fra preti armeni e greco-ortodossi all'interno della Chiesa della Natività a Betlemme per presunti millimetrici sconfinamenti?
Insomma, i preti sono sempre stati restii ad obbedire alle regole, anche quelle da loro stessi formulate. “Nun fa quello che il prete fa, fa quello che il prete dice”, chiudeva un sonetto del Belli.
Ai suoi tempi i membri del clero avevano uno status vicino all'impunità. Senza contare che dentro chiese e conventi la forza pubblica neanche poteva entrare. Tanto è vero che in quell'attendibile romanzo storico che è i Promessi Sposi si parla del rifugio in chiesa o convento come ultima salvezza di un criminale, cioè di una vera zona di extra-territorialità.
La pena più utilizzata, fino ad oggi come mostrano gli episodi di pedofilia degli ultimi anni, era il semplice trasferimento del religioso reprobo in altra chiesa, convento o missione. Un po' come nelle forze armate, dove per mancanze relative al comportamento in servizio, scarsa efficienza, scarsa attitudine al comando e via discorrendo, esiste il trasferimento in reparti considerati di punizione, per ubicazione disagiata o per turni di servizio, magari 24 ore su 24.
Ma tornando ai tempi del Papa Re, il Belli dipinge così la giustizia applicata ai religiosi:
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LA GGIUSTIZIA PE LI FRATI
In primo logo, un frate, anche a vvolello
pien de dilitti e ccarico de fijji,
un governo eccresiastico è ppe cquello
senz’occhi, senz’orecchie e ssenz’artijji.
Inortre li Conventi hanno un fraggello
d’arberinti e dde tanti annisconnijji,
che mmànnesce qualunque bbariscello
e mme tajjo la testa si lo pijji.
Finarmente, te vojjo anche concede
ch’er frataccio sii trovo e ccarcerato
quer ch’imbrojjeno poi come se vede?
Malappena er bisbijjo s’è acquietato,
je muteno convento, e cche ssuccede?
Chi ha aúto ha aúto, e cquer ch’è stato è stato.
7 giugno 1834
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Versione. La giustizia per i frati. Il governo ecclesiastico nei confronti di un frate, anche pieno di delitti e carico di figli, è senza occhi, senza orecchie e senza artigli. Inoltre i conventi sono pieni di labirinti e tanti nascondigli che anche a mandarci qualunque “bargello” (a Roma e in Toscana era il capo della Polizia), mi faccio tagliare la testa se lo cattura. Poi, anche a voler concedere che il frataccio sia preso e carcerato, vuoi vedere cosa ti combinano? Appena l'episodio viene dimenticato, lo trasferiscono ad altro convento. E poi che succede? Che chi ha avuto ha avuto e quel che e' stato e' stato.
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Questi ultimi versi vi hanno fatto fischiare le orecchie? E' proprio quello che sta accadendo tuttora. Anche nella triste vicenda dei preti pedofili, la Chiesa ha ripetutamente fatto ricorso al suo Foro interno, e ad un'interpretazione bonaria del suo codice di diritto canonico, anziché a quello esterno delle magistrature laiche e delle autorità di Polizia. Come dicevamo, grande attualità del Belli...
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IMMAGINE. Frate che seduce una fanciulla (stampa antica). La cosa doveva essere frequente, visto che è entrata nell'immaginario collettivo, tanto da lasciarci centinaia di racconti e disegni.
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lunedì 12 aprile 2010
La confessione: i preti viziosi o maliziosi, le ragazze ingenue

"Figlia mia, ti tocchi?". Nella penombra del confessionale tutto può accadere, anche di sentirsi suggerire possibili peccati.
Nella confessione, un prete, uomo con tutti i suoi pregi e difetti, applica la Dottrina cattolica ai casi concreti, futili o drammatici che siano, della vita dei penitenti cattolici. Non bastando il colloquio diretto con la coscienza, severa giudice di umanisti e atei, o con Dio stesso, come per protestanti o ebrei, un uomo, un uomo come molti, talvolta peggiore di tanti altri, si trova a giudicare e punire in nome di Dio i “peccati” di altri uomini come lui, di fatto dirigendone la vita. E' giusto?
Figuriamoci nell'addormentata Roma dell'800, l'ultimo Stato ancora medievale, totalmente soggiogato dai preti, quello che poteva accadere nel confronto impari tra un prete ed un'ingenua e ignorante ragazza del popolo in un confessionale.
Proprio in questi mesi l’opinione pubblica è scandalizzata da reati e peccati gravissimi compiuti ovunque da preti cattolici, dalla pedofilia sui bambini delle scuole e delle parrocchie agli stupri su donne e seminaristi, fino addirittura ai sospetti di omicidio. Pensare che qualcuno di quei preti abbia potuto confessare, è inquietante.
Non è un caso che penitenza e confessione siano oggi in disuso, e i confessionali siano spesso vuoti, tanto che papa Giovanni Paolo II, per dare l’esempio, un giorno scese in S. Pietro e si mise lui stesso a confessare i pellegrini. Ma è certo che i tempi d’oro della confessione sono lontani. Eppure, fino all’epoca del Belli, davanti ai confessionali, si vedevano lunghe file di penitenti su entrambi i lati.
I confessionali sono parte molto visibile all’interno delle chiese cattoliche. Alcuni dei quali vere opere d’arte di legno intarsiato in stile barocco, gotico o rococò. Osservate l'ultima immagine (chiesa di Wies a Steingaden, in Baviera): non è un vero inno alla lussuria? Si direbbe quasi che il delirio delle forme nel contorto inconscio cattolico rappresenti l’ebbrezza del peccato negato, ma in realtà desiderato.

Naturale che la satira anglosassone e anticlericale – vedi le due stampe dell’Ottocento – si sia sempre appuntata sulla confessione, sulle penitenze, anzi, sull’intero sistema cattolico delle indulgenze con cui sono rimessi i peccati (proprio la rivolta contro il mercato delle indulgenze portò nel Cinquecento allo scisma protestante), e sulla figura stessa del prete confessore, che profittando del proprio potere può dirigere in modo malizioso e vizioso questo sacramento, per propri scopi personali, come infatti si vede nei due sonetti del Belli che riportiamo di seguito, scritti il medesimo giorno.
I confessionali sono importanti per il Belli. Da giovane tante volte aveva scritto sonetti sarcastici e impietosi sui confessionali. Da vecchio, pauroso di tutto, reazionario e malato, proprio alla vista dei confessionali della chiesa di S. Carlo ai Catinari dati alle fiamme in via Monti della Farina dai rivoluzionari della Repubblica Romana, fu preso dal terrore paranoico che varianti e bozze dei sonetti potessere essere scoperte, e le bruciò egli stesso di propria mano.

ER BON PADRE SPIRITUALE

«Accúsati figliuola». «Me vergogno».
«Niente: ti aiuto io con tutto il cuore.
Hai dette parolacce?» «A un ber zignore».
«E cosa, figlia mia?» «Bbrutto carogno».
«Hai mai rubato?» «Padre sí, un cotogno».
«A chi?» «Ar zor Titta». «Figlia, fai l’amore?»
«Padre sí». «E come fai?» «Da un cacatore
ciarlamo». «E dite?» «Cuer che cc’è bbisogno».
«La notte dormi sola?» «Padre sí».
«Ciài pensieri cattivi?» «Padre, oibò».
«Dove tieni le mani?» «O cqui o llí...».
«Non ti stuzzichi?» «E cc’ho da stuzzicà?»
«Lì fra le cosce...». «Sin’adesso no,
(ma sta notte sce vojjo un po’ pprovà)».
11 dicembre 1832

Versione. Il buon padre spirituale. Accúsati figliuola. Mi vergogno. Niente: ti aiuto io con tutto il cuore. Hai detto parolacce? A un bel signore. E che cosa, figlia mia? Brutta carogna. Hai mai rubato? Padre sí, una mela cotogna. A chi? Al signor Titta [Giovanbattista]. Figlia, sei fidanzata? Padre sí. E come fai? Parliamo nel cesso [che era sul balcone comune che dava verso il cortile]. E dite? Quello che serve. La notte dormi sola? Padre sí. Hai pensieri cattivi? Padre, oibò. Dove tieni le mani? Dove càpita... Non ti stuzzichi? E che cosa devo stuzzicarmi? Lì fra le cosce... Finora no, (ma questa notte ci voglio un po’ provare).

ER CONFESSORE

– Padre... – Dite il confiteor. – L'ho ddetto.
– L'atto di contrizione? – Ggià l'ho ffatto.
– Avanti dunque. – Ho ddetto cazzo-matto
a mmi' marito, e jj'ho arzato un grossetto.
– Poi? – Pe una pila che mme róppe er gatto
je disse for de mé: "Ssi' mmaledetto";
e è ccratura de Ddio! – C'è altro? – Tratto
un giuvenotto e cce sò ita a lletto.
– E llì ccosa è ssuccesso? – Un po' de tutto.
– Cioè? Sempre, m'immagino, pel dritto.
– Puro a rriverzo*... – Oh che peccato brutto!
Dunque, in causa di questo giovanotto,
tornate, figlia, con cuore trafitto,
domani, a casa mia, verso le otto.
11 dicembre 1832

* A rovescio, cioè “da dietro”. L’espressione si presta ad equivoci, e solo la reazione del prete la chiarisce. La dottrina cattolica considera, infatti, peccato mortale i rapporti sessuali per via posteriore, cioè anale, in quanto “contro natura”. Sono quelli tipici dei sodomiti e dei pedofili, anche se su questi ultimi - ma solo se sono preti - la Chiesa è di manica molto larga, a quanto pare… Invece, vede di mal occhio perché animalesco l’uso sessuale atavico dell’Uomo, ovvero l’accoppiamento geneticamente corretto ma da dietro, come fanno gli animali (perciò more pecudum, lett.: all’uso delle pecore).

Versione. Il confessore. – Padre... – Dite il confiteor. – L'ho detto. – L'atto di contrizione? – Già l'ho fatto. – Avanti dunque. – Ho dato dello scimunito a mio marito e gli ho rubato un grossetto [moneta d’argento da mezzo paolo, pari a 5 baiocchi]. – Poi? – Per un tegame che mi ruppe il gatto gli dissi fuor di me: "Sii maledetto"; ed è creatura di Dio! – C'è altro? – Frequento un giovanotto, e ci sono stata a letto. – E lì cosa è successo? – Un po' di tutto. – Cioè? Sempre, m'immagino, per il dritto. – Anche al rovescio... – Oh che peccato brutto! Dunque, a causa di questo giovanotto, tornate, figlia, con cuore trafitto, domani, a casa mia, verso le otto.

Per le immagini andare al post originale, ndr
 
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Felipe-bis
view post Posted on 17/8/2010, 13:00




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venerdì 16 luglio 2010
Caldo e fastidi dell’estate nella sonnolenta Roma dei Papi

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L'afa, una calura infernale, il respiro che manca, il sole che s’infila dappertutto (i pochi portici li costruirono i piemontesi dopo il 1870), l’ombra che diventa all’improvviso un bene prezioso, introvabile, tranne che nei vicoli stretti dei rioni centrali, o nelle chiese. Ma anche molte chiese e conventi, oltre a botteghe e uffici, da mezzogiorno alle 3 del pomeriggio erano chiusi. L’addormentata "città-chiesa" dei Papi, dove gli unici eventi erano le processioni, le novene, le nuove indulgenze e le rappresentazioni sacre, non doveva badare molto alla produttività, tantomeno in estate.
Col caldo dell’estate Roma diventa una città morta. Il solleone dei pomeriggi di luglio e agosto spaventa Papa, Sacro Collegio, nobili, diplomatici, alti prelati, preti, frati, popolani. I primi, che possono, con la scusa del pericolo del colera o della malaria, fuggono nelle ville estive, magari ai Castelli. Ma gli ultimi, che non possono, sono rintanati in casa, a far finta di non esserci. "A piazza di Spagna, se vedi qualcuno camminare, sarà o un gatto o un francese", è l’ironico detto popolare riferito con gusto da Henry d’Ideville, nel suo Diario diplomatico romano (a cura di G.Artom, Milano 1966).
Questa era Roma all’aperto nelle giornate di piena estate. Un bellissimo inferno. E tra le fiamme della calura che si sollevavano dai "sampietrini", il silenzio regnava sovrano, rotto forse solo dal miagolio d’un gatto, dal frullar d’ali d’un piccione, e dallo zampillare delle mille fontane che allietano e rinfrescano ogni piazza o borgo, una grande ricchezza che ha sempre fatto di Roma una città unica al mondo.
Una quiete che in una città abituata a vivere fuori casa non può mai essere totale. Così, un vero fastidio sono i rumori molesti dei giovani che nei cortili, sotto un fico o nelle strade in ombra, incuranti dei divieti dei vecchi, urlano, scherzano, litigano, giocano a bocce, a ruzzica, alla morra, e tirano sassi. E che danno terribilmente ai nervi, fino a causare un’ira incontenibile, a chi vuol riposare, a tapparelle abbassate, nella "pennichella". Il sonetto seguente esprime bene l’esasperazione irosa di un tipico romano disturbato dalle grida e dai giochi rumorosi di giovinastri strafottenti sotto casa.
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A LI CAGGNAROLI SULL'ORE CALLE
Bastardelli futtuti, adess'adesso
si nun ve la sbiggnate tutti quanti,
viengo giù, ccristo, e vve n'ammollo ttanti,
tutti de peso e cco la ggionta appresso.
Che sso! mmai fussim'ommini de ggesso,
da piantà llì cco la fronnetta avanti!
Guarda che sconciature de garganti!
Fùssiv'arti accusì, ttanto è l'istesso.
È ggià da la viggilia de Sanpietro
che vve tiengo seggnati uno per uno
pe ggonfiavve de chicchere er dedietro.
Pregat'Iddio, fijjacci de nisuno,
pregat'Iddio d'arisfassciamme un vetro,
e vvedete la fin de sto riduno.
1 ottobre 1831

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Versione. A quelli che fanno chiasso nelle ore calde. Bastardelli fottuti, se non filate via tutti quanti, adesso scendo giù, per Cristo, e ve ne dò tanti [di sganassoni], di forza e con la giunta. E che! nemmeno fossi un uomo di gesso [quindi insensibile a tutto e incapace di reagire] da piantarsi fermo come una statua con tanto di foglia di fico davanti! Guarda tu che sconcio da gradassi prepotenti! Anche se voi foste alti così [cioè ragazzini] sarebbe lo stesso. E’ già dalla vigilia di San Pietro che vi ho catalogati uno per uno per farvi il sedere gonfio di botte. Pregate Dio, figliacci di nessuno, pregate Dio di rompermi di nuovo un vetro, e vedrete che fine farà la vostra combriccola.

In un suo saggio intitolato Afa. Antologia sull’insopportabile caldo romano, Luigi Ceccarelli (celebre come romanista con lo pseudonimo di "Ceccarius") ha riunito i vari sinonimi riportati dai linguisti romani. E’ afa, ma anche bafa, callaccia o addirittura sbafa, l’aria afosa opprimente, il caldo soffocante e snervante (G.Vaccaro, Vocabolario romanesco belliano e italiano-romanesco, Roma 1969). Conviene il Chiappini, per cui callaccia è l’afa, il caldo fastidioso, la calura (Vocabolario romanesco, Roma 1992). All’afa, però, Roma ha, o meglio aveva, l’antidoto: il "ponentino". Una brezza che spira da Ponente cioè dal mare verso Roma e che si leva al calare del sole rinfrescando l’aria arroventata dei pomeriggi estivi. E’ una delle caratteristiche climatiche della città, a causa della sua posizione tra il mare e catene di colline, ma al presente il continuo dilagare di nuove costruzioni sulla costa e nei quartieri occidentali della città, sta mano a mano alterando la configurazione del terreno, ed il "ponentino" non riesce ormai più a giungere sino al centro della città (F.Ravaro Dizionario romanesco, Roma 2000).
Così desiderato è ogni genere di refolo d’aria o brezza che a Roma esiste perfino un "vicolo de’ Venti" (rione Regola, a S.Caterina della Rota). Dove, in ogni stagione e ora del giorno si dovrebbe notare sensibilissimo il soffiare dei venti (A Rufini, Dizionario etimologico-storico delle strade, piazze,borghi e vicoli della città di Roma, Roma 1847).
E Ceccarius fa bene a ricordarsi di due versi del grande Zanazzo, il più belliano degli studiosi ed eredi del Belli, tratti da una sua poesia del 16 aprile 1882 (G.Zanazzo, Poesie romanesche, a cura di G.Orioli, Roma 1968), in cui nelle segrete Camere pontificie la spossatezza domina perfino tra Li servitori in anticammera durante er Concistoro delli Cardinali:
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Che sbafa! Che callaccia! Opri le porte
armeno gioca l’aria…
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Il Belli, che era freddoloso e morì con uno scaldino in mano, dedica al caldo e all’estate due realistici sonetti, però curiosamente scritti in pieno inverno, il 7 e l’8 febbraio. E allora, tra i rigori del gelo, deve trattarsi d’una rievocazione (M.Teodonio), se non addirittura d’un acuto desiderio, tecnicamente ben servito dal sistema di appunti e varianti di "rime pronte" a cui poteva ricorrere in ogni momento dell'anno l’organizzatissimo sonettista:
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ER CALLO
Uff! che bbafa d’inferno! che callaccia!
Io nun ho arzato un deto e ggià ssò stracca:
oh cche llasseme-stà! ssento una fiacca,
che nnun zò bbona de move le bbraccia.
Sto nnott’e ggiorno co li fumi in faccia,
sudanno a ggocce peggio d’una vacca;
che inzino la camiscia me s’attacca
su la pelle. Uhm, si ddura nun ze caccia.
Ho ttempo a ffamme vento cor ventajjo,
a bbeve acqua e sguazzamme a le funtane:
è ttutto peggio, perché ppoi me squajjo.
P’er maggnà, ccrederai? campo de pane.
E nnun te dico ggnente der travajjo
de ste purce, ste mosche e ste zampane.
Roma, 7 febbraio 1833

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Versione. Il caldo. Uff! Che afa d’inferno! Che calura! Non ho fatto il minimo movimento, eppure sono già stanchissima: oh, che apatia! Sento una debolezza tale che non posso neanche alzare le braccia. Notte e giorno ho le caldane sul viso, sudando a gocce peggio di una vacca, tanto che perfino la camicia mi si attacca alla pelle. Uhm, se dura questa situazione non se ne esce. Tempo sprecato a farmi vento col ventaglio, bere acqua, e sguazzare nelle fontane, è peggio, perché poi mi squaglio. In quanto al mangiare, ci crederai?, vivo di pane. E non ti dico nulla del fastidio di queste pulci, mosche e zanzare.
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In un crescendo di enfasi che ha punte drammatiche vagamente dantesche, il Belli adombra in una piccola "fine del Mondo" di stampo popolare la leggenda – suffragata anche da qualche medico – che il gran caldo estivo portasse addirittura le terribili febbri contagiose (la "mal aria", appunto) di cui Roma allora era infestata, prima delle grandi riforme dello Stato unitario, a causa degli acquitrini che la circondavano, delle condizioni di vita poco igieniche e della conseguente debolezza verso le infezioni di cui soffriva la popolazione, nella totale indifferenza della Chiesa.

L’ISTATE
’Na caliggine come in cuest’istate
nu la ricorda nemmanco mi’ nonno.
Tutt’er giorno se smania, e le nottate
beato lui chi rrequia e ppijja sonno!
L’erbe, in campaggna, pareno abbrusciate:
er fiume sta cche jje se vede er fonno:
le strade sò ffornasce spalancate;
e sse diría che vvadi a ffoco er Monno.
Nun trovi antro che ccani mascilenti
sdrajati in ’gni portone e ’ggni cortile,
co la lingua de fora da li denti.
Nun piove ppiú dda la mità dd’aprile:
nun rispireno ppiú mmanco li venti...
Ah! Iddio sce scampi dar calor frebbile!
Roma, 8 febbraio 1833

Versione. L’estate. Una caligine come in quest’estate non la ricorda neanche mio nonno. Tutto il giorno si smania, e di notte beato chi ha requie e prende sonno! Le erbe in campahna sembrano bruciate: il Tevere è così povero d’acqua che gli si vede il fondo, le strade sono fornaci spalancate, e si direbbe che vada a fuoco il Mondo. Non trovi altro che cani macilenti straiati in ogni portone e cortile, con la lingua fuori dai denti. Non piove dalla metà di aprile, non respirano più neanche i venti… Ah Iddio ci scampi dal calor febbrile!

"12 luglio 1845. Dal 6 al 9 abbiamo avuto un caldo che talvolta fece ascendere il termometro di sopra i gradi 28, Ai 7 ascese a gradi 28,6. Dal 1842 non avemmo un caldo simile (N.Roncalli, Cronaca di Roma 1844-1848, vol I, Roma 1972. E ancora, scriveva il Gregorovius in Diari romani il 19 agosto 1861: "Il caldo straordinario ha mandato a monte i miei lavori, i risultati di 44 giorni sono molto meschini" (Ceccariuis). Caldo? A noi moderni temperature simili sembrano quasi una piacevole frescura: oggi, negli stessi giorni, abbiamo anche 10-12 gradi in più. Se vivesse oggi a Roma, d'estate, Gregorovius scriverebbe solo grazie all'aria condizionata!

Un altro diario. "26 giugno 1801: fa da ieri in qua un grandissimo caldo". "1 luglio 1801: caldo grandissimo". Il principe Chigi, che registrava nel suo diario con maniacale fissazione aristocratica ogni variazione di calore e umidità, cercava refrigerio alla fontana di piazza del Popolo. Ebbene, per assicurarsi che ci fosse un refolo di vento vi immergeva, essendo il dito troppo proletario, la punta del bastone: osservando che una parte si asciugava prima dell’altra si accertava della direzione e dell’esistenza stessa del vento.

E dal caldo veniva il colera, si pensava allora. " 26 luglio 1831: oggi è cominciato un triduo nella chiesa dell’Anima con indulgenza per implorare la cessazione del flagello del cholera, che ha penetrato in qualche parte degli stati dell’Imperatore. 6 agosto 1835: oggi è cominciata una divozione di dieci giorni in 16 chiese dedicate alla Madonna, oltre alla chiesa di S Rocco, con indulgenza plenaria per chi v’interverrà 7 volte, ad effetto d’impetrare l’allontanamento del morbo che ci minaccia". 9 agosto 1835 Essendosi riconosciute insufficienti le 16 chiese destinate per l’indulgenza, ne sono state accresciute altre 8, delle più vaste. Nello stesso tempo si è annunziata la riduzione da 7 volte a 5 per l’acquisto dell’indulgenza (C.Fraschetti, Diario del Principe Agostino Chigi dal 1830 al 1855, con un saggio di curiosità storiche sulla vita della Roma dell’epoca (Tolentino 1906).

Insomma, sempre i soliti, i Papi Re! Il colera lo combattevano non con i medici o l’igiene, ma a colpi di massicce preghiere. Tridui e novene, anziché canalizzazioni agricole. Sconti last minute sulle indulgenze, anziché estratto di chinina. Tanto, si sa, malati o sani, sarebbero andati tutti comunque all'inferno.
Anche per questo, il colera terrorizzava tutti, preti, nobili e popolo. E la preoccupazione di Chigi era quasi un presentimento: la moglie muore di colera nell’epidemia del 1837, e anche lui morirà nel 1855, colpito probabilmente dallo stesso morbo (Ceccarius). E che l’estate romana equivalesse alle malattie, lo dice anche il Belli nel sonetto terroristico L’aria cattiva (5 giugno 1845) che oggi farebbe inviperire l'Ufficio del Turismo. E se pensiamo all'attuale Estate Romana, quant'è lontana la Roma di oggi dalle epidemie papaline!:
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Scappate via, sloggiate, furistieri:
fora, pe ccarità, cch’entra l’istate.
Presto, fate fagotto, sgommerate,
ché mmommò a Rroma so affaracci seri.

Ché cqui er callo è un giudizzio univerzale:
l’aria de lujji e agosto ammazza tutti.

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Così, da metà giugno a fine settembre Roma si svuotava di Papa, Sacro Collegio, alti prelati, diplomatici, aristocratici e borghesi benestanti, perché - altro che inverno - si riteneva che la "malaria" infuriasse col colera e altri morbi proprio nel mezzo dell'estate. Tutti quelli che potevano andavano ai castelli nelle ville di Albano, Castelgandolfo, Frascati, o ai bagni di mare. La malaria, in senso stretto, poi, era tipica dell’estate romana, le campagne essendo paludose e infestate di zanzare. Nessun quartiere romano ne era esente, soprattutto la periferia (Ceccarius).
Perciò, non appena un popolano diventava un minimo benestante, sùbito faceva mostra di "andare in villeggiatura", ai Castelli, come la "sora Irene" del sonetto seguente, che non avendo una carrozza privata ci va in diligenza. "Smanie della villeggiatura", le aveva chiamate Goldoni, graffiando anch’egli le tipiche pretese piccolo-borghesi dei neo-ricchi:
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LA PARTENZA PE LA VILLEGGIATURA
Sor’Irene, e ccusí? ss’arivà ffora?
E ss’è lléscito, indove? Eh ggià, a Ffrascati,
a cqueli belli crimi imbarzimati.
Ecco cqua che vvor dí dd’èsse siggnora.
Ma ssa cche cco ste sciarle è vventun’ora,
e li cavalli ggià stanno attaccati?
Anzi, in ner leggno sciò vvisto du’ frati
che la prèsscia d’annà sse li divora?
J’hanno messa la robba, eh sor’Irene?
Oh bbrava: ma jj’avverto che vvò ppiove:
veda che ttutto sii cuperto bbene.
Ôh, ddunque, arivedèndola; e co cquesto
facci bbon viaggio, sce dii le su’ nove,
se diverti, s’ingrassi, e ttorni presto.
24 settembre 1835
,
Versione. La partenza per la villeggiatura. Signora Irene, si va di nuovo fuori, è così? E dove, se è lecito? E già, a Frascati, con quel bel clima balsamico. Ecco che vuol dire esser signora. Ma sa che con queste ciarle siamo arrivati alle 21, e i cavalli sono già attaccati? Anzi, in carrozza ho visto due frati che la premura di andare si divora. Le hanno caricato i bagagli, eh, signora Irene? Oh, brava, ma l’avverto che sta per piovere: veda che tutto sia coperto bene. Oh, dunque, arrivederla; e con questo faccia buon viaggio, s’ingrassi e torni presto.
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E il popolo? L'unico refrigerio che gli era consentito era di andare a vedere i nobili che in carrozza "si rinfrescavano" con curiose e spettacolari passeggiate sull'acqua in una piazza Navona allagata (dove a bagnarsi, però, erano solo le ruote e le zampe dei cavalli). Altrimenti una bella fetta di cocomero, molto raramente un gelato, perché i sorbetti offerti dai "sorbettari ambulanti" del Centro costavano cari. Altrimenti, doveva industriarsi ad evitare il sole camminando acrobaticamente lungo le "linee d'ombra" dei palazzi nobiliari. Ma con un pizzico di conquista democratica che a Parigi e a Londra si sognavano, perché potevano godere del romanissimo diritto ai "trapassi". Per lunga tradizione, i grandi palazzi aristocratici con più portoni erano gravati da una singolare servitù di passaggio: chiunque vi poteva entrare, probabilmente sotto lo sguardo di occhiuti guardaportoni, poteva percorrere lunghi e freschi corridoi, cortili e giardini, e uscire da un altro portone. Perfino nel più grande di tutti, il palazzone papale del Quirinale, anche il giovane "cascherino" del fornaio col pane da consegnare, la lavandaia con la sporta o un ragazzino del popolo a piedi nudi, potevano entrare alle Quattro Fontane e uscire dalla porta della Dataria, praticamente su Fontana di Trevi. Lo scrive lo stesso Belli nel sonetto La strada cuperta.

Chi vvò vvienì da le Cuattro-Funtane
ssempre ar cuperto, ggiù a Ffuntan-de-Trevi
entri ar porton der Papa...
... Com'è arrivato a la Panettaria
... scappi dar porton de Dataria.

M.Bosi vi accenna nel saggio Un privilegio perduto: i trapassi dei portoni in "Strenna dei Romanisti", Roma 1972. Così il popolino evitava il caldo e il sole, e "tagliava" tortuosi percorsi sotto il sole cocente dell'estate nel Centro di Roma. E anche se le guardie civiche vigilavano e il "monsignor illustrissimo delle strade" in teoria vietava e puniva qualsiasi cosa, poteva sempre farsi un bel pediluvio nelle mille fontane romane. L'igiene dello Stato della Chiesa ne aveva tutto da guadagnare.
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IMMAGINI. 1. Piazza Navona allagata, una vecchia tradizione durata fino all'Ottocento che si ripeteva ad ogni estate come festa curiosamente riservata alle carrozze. 2. Il cocomeraro di piazza Navona (acquerello di A.Pinelli). 3. Il sorbettaro ambulante mostra ai passanti un gelato (stampa popolare). 4. Giovani giocatori di bocce. Tra urla, commenti e litigi, il clamore del gioco all'aperto rompeva la quiete dei caldi pomeriggi romani.

 
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Felipe-bis
view post Posted on 18/8/2010, 17:12




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mercoledì 30 giugno 2010
Commetti un reato? Rifùgiati in Chiesa e nessuno ti toccherà

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"Manco li giacubbini!", disse il card. Bernetti, segretario di Stato di papa Gregorio XVI, tradotto nella lingua del Belli. "Peggio dei regimi comunisti!", ha detto il card. Bertone, segretario di Stato di papa Benedetto XVI. Cambiano i papi e i loro primi ministri, ma non le invettive contro chi si permette di accusare la Chiesa, fossero pure i giudici.
La legge del contrappasso vuole che la Chiesa che ha inventato l’Inquisizione e gli "interrogatori stringenti" sempre sul punto di trasformarsi in tortura psicologica e fisica, ora si trovi male sul banco degli imputati. Chi di spada ferisce, di spada perisce.
De Troy come anti-Bellarmino? Be’, non esageriamo. Quest’ultimo, accusatore del Santo Uffizio, fece condannare ingiustamente Giordano Bruno e Galileo ("reo di aver visto la Terra girare attorno al Sole", recita ironicamente la famosa targa accanto a Villa Medici). Invece, il procuratore belga che ha duramente inquisito l’arcivescovado di Bruxelles arrivando perfino a far aprire una tomba, voleva rompere l’omertà cattolica e costringere i vescovi a fare i nomi dei tanti religiosi che con la scusa del messaggio cristiano "sinite parvulos venire ad me" (lasciate che i bambini vengano da me) avevano commesso gravi violenze su minori e atti di pedofilia. Chiesa, letteralmente, "refugium peccatorum"?

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La giustizia in un Paese cattolico ma laico, in cui cioè lo Stato – a differenza dell’Italia – è totalmente separato dalla Chiesa e dalle religioni, e i sacerdoti sono considerati cittadini qualunque, ha finalmente lanciato un "segnale chiaro: la Chiesa non è al di sopra della legge" (De Morgen, quotidiano fiammingo). E il quotidiano francofono Le Soir ha intitolato: "I religiosi, una casta superiore". "A quale gioco sta giocando la Chiesa quando sostiene che nel cercare di identificare i preti che hanno abusato di minori, la giustizia si rende colpevole di una doppia violenza?" Ma forse, aggiunge, "il Vaticano preferisce le tombe alle vittime".
E a proposito di tombe scoperchiate, il Belli si rivolterà nel suo loculo al Verano, e quasi quasi ritroverà la voglia di scrivere versi satirici sulla corruzione della Chiesa, come ai bei tempi (che poi sono i sette anni dal 1830 al 1837), se gli farete leggere i giornali del giugno 2010 che parlano del cardinal Segretario di Stato che dà dei "comunisti", cioè – tradotto in linguaggio belliano – dei "giacubbini", ai giudici di Bruxelles che indagano sui reticenti monsignori pedofili, e del cardinale del Pontificio Collegio urbano "de Propaganda Fide", coinvolto in un’oscura vicenda di appalti, mazzette e appartamenti di lusso concessi gratis ai potenti, che per non essere interrogato dai magistrati romani si rifugia sotto la protezione di Santa Madre Chiesa, con la scusa del Concordato. Stiamo tornando al "diritto di asilo" delle chiese, anzi, della Chiesa?

Al povero Belli tutta la faccenda sembrerà un déja vu. Lui queste cose le ha già denunciate nei sonetti. A suo modo, ovviamente: coprendosi dietro una presunta "voce del popolo". L'immorale morale della favola è: se vuoi fare quello che vuoi, devi indossare un abito talare, meglio se rosso. Il rosso, rubato come tante altre cose alla Roma pagana, per la Chiesa è il Potere, l'Autorità. E a proposito, vi ricordate il cardinale sorpreso in incognito nel casino, come mette in riga il poliziotto, semplicemente sostituendo lo zuccotto nero con quello violetto?
Insomma, direbbe il Grande Scorbutico e Misantropo, "si ci hai quarche viziaccio d’annisconne", insomma qualche reato grave, la Chiesa (con la maiuscola, com'è infatti nel nostro titolo) ti difenderà. Solo che a quei tempi serviva, almeno una chiesa (con la minuscola) o un convento, meglio se fuori mano. Oggi neanche più la fatica di salire a perdifiato i gradini del sagrato con la forza pubblica alle calcagna. Si fa tutto col telefonino: "pronto, Eminenza?". Tutti ricorderanno la figura di fra’ Cristoforo nei Promessi Sposi. Il Manzoni racconta che quando il cappuccino era solo il ricco mercante Lodovico, un giorno ebbe la sventura di non cedere la strada in uno stretto vicolo ad un nobile arrogante e attaccabrighe. Insomma, direbbe il cronista oggi, "una tragedia originata da futili motivi di viabilità". Apostrofato come "vil meccanico!" (cioè, uomo di bassa condizione) dovette difendersi dalla sua spada. Oggi i criminali del volante ricorrerebbero al cacciavite. Ucciso il suo famiglio e amico Cristoforo che si era generosamente interposto, Lodovico uccise a sua volta il signorotto (v. sopra, il particolare di un’antica incisione dei Promessi Sposi: Lodovico è lo spadaccino piumato a destra). Per sfuggire all'inevitabile giustizia ingiusta che avrebbe dato ragione al nobile, si rifugò in un vicino convento di cappuccini, dove fu indotto a pentirsi e a divenire monaco.
Ma, come mostrano le cronache giudiziarie di oggi, questo celebre esempio di "asilo", cioè di impunità per i criminali non ecclesiastici concessa da chiese e conventi, non deve far pensare che come fra’ Cristoforo gli odierni peccatori ecclesiasticii in abito talare nero, violetto, rosso o bianco, quelli cioè che nella Chiesa già ci sono e quindi non devono ricorrere all'asilo, si pentano allo stesso modo, e anzi diventino migliori. Tutt’altro, sembrano conservare la loro abituale arroganza, e chi con documenti alla mano li accusa si becca l'epiteto di "giacobino", "laicista", "illuminista", "liberale", "relativista", se non ateo o "senza Dio".
E allora su questi tanti furbi potenti per i quali la Chiesa cattolica è connivente e omertosa, con la comoda scusa del "refugium peccatorum", ci va benissimo il sonetto Er rifuggio:
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ER RIFUGGIO
A le curte: te vòi sbrigà d'Aggnesa
Senza er risico tuo? Be', tu pprocura
D'ammazzalla vicino a quarche chiesa:
Poi scappa drento, e nun avé ppavura.
In zarvo che tu ssei dopo l'impresa,
Freghete del mandato de cattura;
Ché a chi tte facci l'ombra de l'offesa
Una bona scomunnica è ssicura.
Lassa fà: staccheranno la licenza:
Ma ppe la grolia der timor de Dio,
C'è sempre quarche pprete che ce penza..
Tu nun ze' un borzarolo né un giudìo,
Ma un cristiano c'ha perzo la pacenza:
Dunque, tu mena, curri in chiesa, e addio.
Roma, 5 dicembre 1832

Versione. Il rifugio. Alle corte: ti vuoi liberare di Agnese senza rischiare di persona? Be’, tu fai in modo di ucciderla vicino a qualche chiesa: poi scappa dentro e non aver paura. Una volta in salvo dopo l'impresa, non preoccuparti del mandato di cattura, perché a chi ti facesse anche l'ombra di un'offesa una buona scomunica è assicurata. Lascia fare: spiccheranno il mandato: ma per la gloria del timor di Dio, c'è sempre qualche prete che ci pensa. Tu non sei nè un borseggiatore nè un ebreo, ma un uomo che ha perso la pazienza: dunque, tu colpisci, corri in chiesa, e addio.
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Ai tempi del Belli, però, questa scappatoia che la Chiesa cattolica offriva ai delinquenti rispondeva ad una logica cinicamente classista, di cui pochi parlano. I nobili che si erano macchiati di omicidio con l’asilo nelle chiese la facevano franca, ma il popolo quasi mai riusciva ad evitare la giustizia. A meno che, appunto, il reo non avesse scelto addirittura di farsi monaco per tutta la vita. E allora, prigione per prigione, meglio il chiostro.
L’assurdo e immorale privilegio della extraterritorialità rispetto alle leggi civili di cui godevano per disposizione della Chiesa conventi e chiese fu cancellato per la prima volta in Italia dal cattolicissimo "regno di Sardegna" (chiamato così perché i Savoia erano solo principi del Piemonte) con le leggi con cui il cattolico conte Siccardi abolì nel 1850 il diritto d’asilo, insieme con altri privilegi ecclesiastici. Manzoni, d’Azeglio e i tanti cattolici – veri cattolici – liberali che c’erano allora in Italia, furono contentissimi: la Chiesa doveva ritornare ad essere "morale", a distinguere gli onesti dai disonesti, ad occuparsi solo delle cose spirituali. La città di Torino eresse per gratitudine un obelisco alle leggi Siccardi. Inutile dire che, per aver eliminato le ingiustizie più odiose legate al potere e al Mondo dell’aldiquà, di chi andava dicendo invece - e dice tuttora - di occuparsi solo dell’anima e dell’Aldilà, tutti i politici coinvolti nella legge furono scomunicati dal "papa buono" Pio IX, a lungo ritenuto "liberale" dai liberali disinformati o ingenui.
In tempi più recenti, solo in casi eccezionali (antisemitismo, dittature, guerre civili) il diritto d'asilo è stato usato dalla Chiesa per salvare intere categorie di ricercati, spesso di opposte tendenze: come gli ebrei a Roma, nel convento di via Sicilia. Lo stesso convento - ha rivelato F.Nirenstein - dove dopo la guerra furono ospitati molti gerarchi nazisti prima di munirli di passaporti del Vaticano e farli espatriare in Argentina.
Ad ogni modo, a parte rari provvedimenti "umanitari", talvolta discutibili (SS e nazisti), certo, la Chiesa è stata ed è un "refugium peccatorum" anche per molti suoi papi, cardinali e vescovi – e il Belli ce lo dice in quasi ogni sonetto – ma questo lato nero, quasi un B side, della Chiesa cattolica, nonostante tutto è utile. Meno male che la Chiesa c’è: così può esistere questo blog. Un disegno machiavellico della Provvidenza. Se, infatti, si fosse sempre comportata bene, come sta scritto sul Vangelo, il Belli avrebbe scritto al massimo un quinto dei suoi sonetti, o forse non li avrebbe scritti affatto. Grazie proprio alle carognate di papi, cardinali, vescovi, monsignori, preti, frati, monache, sacrestani e chierichetti, l’Arte e la Letteratura hanno opere che si ricordano, dalla pittura, alla satira del Belli.

Grazie, perciò, Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana! Grazie di esistere! Malgrado il "diritto di asilo" che offri ai criminali (anzi, scusaci, ai "peccatori") esterni e soprattutto interni. Questo blog ti deve la sua esistenza. Senza i tuoi errori grandiosi, i tuoi peccati grandiosi, i tuoi ladrocini grandiosi (tutto in Te è grandioso), papi, cardinali, vescovi, monsignori, preti, monache e frati, grandiosamente prepotenti ed ottusi, Giuseppe Gioachino Belli non avrebbe scritto i migliori suoi sonetti, e sarebbe tutt’al più un autore minore, locale, e il presente sito non esisterebbe. Mentre molti tuoi antichi nemici ti debbono la morte, noi ti dobbiamo la vita.
E’ per questo che, neanche paradossalmente in fondo, ti vogliamo bene. Sei stata, sei e sarai sempre – i fatti di oggi lo dimostrano – una miniera inesauribile di spunti felici per la satira e la critica.
Un po’ quello che il Belli diceva del bruttissimo papa Gregorio XVI, monaco dei Camaldolesi, di Belluno e dunque all'epoca cittadino austriaco, che fu per decenni il "suo" papa di riferimento, criticato aspramente in ben 273 sonetti, considerato la causa dell’estendersi del malcostume morale, del dissesto economico, sociale e politico del Regno Pontificio, accusato di aver reso Roma una vera "stalla e chiavica der monno".
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E Rroma, indove viengheno a ddà ffonno,
e rrinnegheno Iddio, rubben’e ffotteno,
è la stalla e la chiavica der Monno.
(Li prelati e li cardinali, 27 maggio 1834) .
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[E Roma, dove vengono a depredare, e rinnegano Dio, rubano e scopano, è la stalla e la fogna del mondo].
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A questo Papa, quando morì, Belli dedicò un epigramma fulminante, tipicamente condotto sul gioco di parole, da geniale linguista qual era, ancor più che poeta:
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A Papa Gregorio je volevo bene
perché me dava er gusto de potenne dì male.
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Ecco, appunto, lo stesso sentimento che molti, noi compresi, provano per la SS (Santa Sede) e la SCCAR (Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana.
 
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Felipe-bis
view post Posted on 6/9/2010, 19:53




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venerdì 3 settembre 2010
Papa uomo o donna? Una sedia forata permette di accertarlo


Jean era una giovane donna inglese bella e colta. Come mai finì in un convento maschile travestita da monaco? Questo è il punto. Se riusciamo a trovare una risposta a questa domanda, poi non ci sarà difficile rispondere al secondo quesito: come diavolo fece a farsi eleggere Papa?
Dopo sette anni di ricerche, la scrittrice americana Donna Woolfolk Cross, docente di letteratura, fece uscire nel 1996 la prima edizione di un libro ("Pope Joan") sulla controversa figura della papessa Giovanna. Testo che è stato il soggetto del film di Sönke Wortmann "Die Päpstin" (La papessa), presentato al Festival di Berlino del 2009 e distribuito dal maggio di quest’anno (2010) in Italia.
All’inizio il libro non vendette molte copie: l’editore, come spesso accade, era troppo pigro. La Cross decise perciò di scendere in campo personalmente e di coinvolgere il pubblico sul tema intrigante e moderno della "giovane donna che cerca di superare le convenzioni sociali e gli stereotipi di genere facendo leva sulla sua intelligenza e tenacia". L’idea ebbe successo. C’era già stata, nel 1972, una prima trasposizione cinematografica della vicenda della papessa (con Liv Ullmann nel ruolo di Giovanna e con la partecipazione di Olivia de Havilland e di Trevor Howard nel ruolo di papa Leone). Ora è arrivato il lungometraggio presentato alla "Berlinale" basato sul libro della Cross. La scrittrice ha così potuto approfittare della notorietà che viene dal cinema per una ristampa riveduta e corretta della prima edizione (v. immagine della copertina).
Lo scrittore Lawrence Durrell, che non solo era inglese ma in gioventù era stato nei Servizi segreti, e dunque non abituato a bersi qualsiasi cosa, ha ricostruito l'ambiente medievale nel quale poteva essere possibile una storia che oggi sarebbe impossibile. Una fanciulla orfana ma di intelligenza acutissima, adottata da un monaco predicatore che viaggia in tutta Europa, la traveste da fraticello per proteggerla dagli stupratori, la fa entrare nel monastero di Fulda, la fa studiare a Magonza (Mainz, in Renania). A poco a poco diventa così erudita in teologia da impressionare vescovi, cardinali e Sacro Collegio, che mai avevano visto una meraviglia del genere. Ed eccola col nome di Johannes Anglicus fare una prodigiosa carriera ecclesiastica, fino a salire al soglio pontificio col nome di Giovanni VIII. (La Papessa Giovanna, Longanesi 1973).
La prima e unica papessa della Storia. Ma è proprio Storia? La vicenda sarebbe accaduta verso l’850-855 della nostra Èra, subito dopo il pontificato di papa Leone IV o comunque prima di Benedetto III, che nei pochi mesi di pontificato si sarebbe preoccupato – dice la tradizione popolare – di eliminare accuratamente ogni documento e testimonianza del nome stesso dell’intrusa. A completare la censura, il nome papale di Giovanni VIII, quello della papessa, venne utilizzato da un papa di poco successivo (nel 872). Segno che la ferita, la vergogna, bruciava ancora, altrimenti che bisogno c’era di riprendere lo stesso nome e numero? Un accanimento, una vera damnatio memoriae, su cui è lecito più d’un sospetto.
"Non ci sono abbastanza documenti certi", "impossibile", sostiene oggi la Chiesa ufficiale. Obiezione: e degli altri papi del medesimo periodo abbiamo documenti storici sicuri? Molti sono solo dei nomi. Era quello, non dimentichiamolo, uno dei periodi più oscuri e caotici della storia dell’Occidente. I famigerati "secoli bui" dell’Alto Medioevo, bui perché appunto se ne sa poco, pochissimo. Visti con gli occhi di oggi, tutto era possibile in quei lunghissimi 9 secoli, quando nel disfacimento dello Stato romano che proprio la Chiesa di Roma aveva fatto crollare con la carica eversiva del suo fanatismo religioso, i vescovi erano di fatto le uniche autorità politiche e amministrative sul territorio. La Chiesa si trovò a riunire nelle proprie mani l’unico vero potere politico ed economico della Penisola. La professione di ecclesiastico romano era una carica nient’affatto spirituale, che assicurava a chi li voleva oro, castelli, titoli e potere. L’elezione dei papi avveniva spesso in modo fortuito, quando non dipendeva direttamente dai rapporti di forza politici e militari di aristocratici e signorotti locali, per ragioni che nulla avevano a che vedere con la religione, tantomeno con la santità della vita di cardinali e papi.
Vista con gli occhi di oggi, e senza tener conto dell’avversione per la donna della Chiesa cristiana delle origini, una donna travestita da uomo in quell’ambiente, oltre ad essere tecnicamente possibilissima, vista l’effeminatezza di molti ecclesiastici, sarebbe stato, in fondo, lo scandalo minore, un peccato veniale. La storia dei papi di quel tempo è piena di ricatti, imposizioni e deposizioni violente, omicidi. Altro che mascherate. Basta scorrere la lista dei papi prima e dopo la "papessa" per notare un dato inquietante: quasi tutti stranamente sono restati in carica pochi anni o pochi mesi, spesso deposti con la forza o morti anzitempo in modo misterioso e sospetto. Eppure sappiamo che erano in media più giovani e vitali dei pontefici di oggi. La durata del pontificato della papessa Giovanna è del tutto in linea con la durata media dei papi dell’epoca: due anni.
La Chiesa oggi nega, ovviamente, che le centinaia di documenti, stampe e citazioni su una donna eletta papa siano fondate, e accenna ad una "campagna anti-papista", forse di stampo inglese. Esistevano già i Riformatori e gli anticlericali nell’800 d.C.? No, però la Chiesa fa notare che stampe e documenti risalgono per lo più al tardo Medioevo e al primo Rinascimento.
Vero è, invece, che i primi a darne notizia furono proprio i religiosi, e non i perfidi inglesi, ma i francesi don Giovanni di Metz, studioso domenicano della Lorena, nel 1240, e poi il confratello don Martino di Troppau che he nel suo Chronicon pontificum et imperatorum parla di Johanna, originaria di Mainz o dell'Inghilterra.
"Si trattava di un papa o piuttosto di una papessa, perché era donna. Travestendosi da uomo grazie al proprio ingegno diventò dapprima segretario della Curia romana, poi cardinale ed infine papa", si legge a proposito di una Johanna inglese o nativa di Mainz nella Chronica Universalis del frate Jean de Mailly (ca. 1250).
E centinaia sono le stampe, le citazioni, gli scritti, anche di intellettuali prestigiosi, che danno per davvero esistita la papessa Giovanna. Come quelli del famoso filosofo e teologo francescano Guglielmo di Ockham. Nel Duomo di Siena, la sua immagine appare tra quella dei veri pontefici. Il grande Boccaccio, padre della lingua italiana e grande raccoglitore di storie curiose nel Decamerone, ne scrisse nel suo De claris mulieribus (Le donne famose): dunque, anche per lui la papessa era una "donna famosa", realmente esistita. Ma ne parla anche il Plàtina, che non era un umanista qualunque, ma era intellettuale di fiducia di vari papi e fu fatto prefetto della Biblioteca Vaticana da Sisto IV.

Insomma, anche se non ci sono prove certe o se c’erano furono distrutte, le carte, le voci ricorrenti e tutte concordanti (nelle pure leggende, invece, le varianti sono infinite e alla fine discordanti), insomma tutte le citazioni che parlano di lei sono indizi troppo numerosi – direbbe un investigatore – perché la papessa Giovanna possa facilmente essere ritenuta, come ritiene oggi la Chiesa, un personaggio del tutto inventato, e non contenga molto o qualcosa di vero.
Intanto, mentre la Chiesa negava l’evento straordinario del papa-donna, prendeva provvedimenti per cautelarsi da possibili travestimenti futuri. L’immaginazione popolare ingigantì forse l’importanza della cerimonia, ma certo questa sembrava fatta apposta per rassicurare non solo il popolino ma anche i cardinali, la Curia e l’intera comunità ecclesiale. E se non ci fosse stato il precedente della papessa Giovanna – argomentarono i critici della Chiesa di Roma – l’intero rito sarebbe stato inutile, anzi grottesco e perfino offensivo per la dignità del papa neoletto e dei cardinali coinvolti.
In che cosa consisteva? In una prova molto rozza, al limite della volgarità. Il papa, dopo l’elezione veniva fatto sedere su un’apposita sedia di porfido rosso con un largo foro sul pianale. Un bell’esemplare è conservato nei Musei Vaticani (v. immagine). Si tratta di un’elegante sedia "escretoria" di origine romana, probabile reperto di latrine di lusso tolte da chissà quali settori termali riservati ai Vip d’allora, i ricchi patrizi, o secondo altri "sedile da parto" per gentildonne (nell’Antichità era molto usato il "parto seduto").
Ebbene, assiso sulla sedia speciale, il neo-papa veniva tastato, attraverso il foro, nelle parti basse da un diacono o dal più giovane cardinale del Conclave, che introduceva il braccio da un'apertura laterale. E se l’investigazione era andata a buon fine, esclamava ad alta voce: "Virgam et testiculos habet!" ("Ha il pene e i testicoli"). E tutti gli ecclesiastici rispondono in coro: "Deo Gratias". Solo allora procedono alla consacrazione del papa eletto. (F.Hamerlin, De Nobilitate et Rusticitate Dialogus (ca. 1490). "He has two balls, and they are well hung" ("Ha due palle e ben appese"), sarebbe stato invece il referto d'un cardinale, quasi di sapore medico, secondo il viaggiatore svedese L.Banck che aveva assistito all’incoronazione di papa Innocenzo X nel 1644 (v. l'antica stampa tratta dal suo rapporto), come riporta P.Stanford, The Legend of Pope Joan, Berkley Books, New York 1999, pp.11-12.
Infatti, esisteva il detto "Testiculos qui non habet Papa esse non posset" (F.Sorrentino, Prova di Virilità, in "Medioevo", De Agostini, n.7, 2008 pp.90 e ss.). Che vuol dire, tradotto in parole povere ad uso degli ecclesiastici ambiziosi di ieri e di oggi: puoi anche avere una grande testa, ma se non hai i testicoli, scòrdati il Papato! Il che è davvero un uso improprio delle gonadi. E per la legge delle "pari opportunità" pone inquietanti parallelismi. Sarebbe come dire che, se alcune categorie di uomini hanno il potere grazie ai testicoli, allora, trasportando il ragionamento al femminile, hanno ragione escort, stagiste o donne "di piccola virtù" a fare carriera, soldi o politica con la vagina.
Una conferma sulla funzione della sedia viene dalla Teologia portatile o Dizionario abbreviato della Religione Cristiana del barone d'Holbach, celebre redattore delle voci religiose della Encyclopédie di Diderot e d’Alembert. Definisce la sedia stercoraria come "sedia bucata su cui il pontefice appena eletto pone le sue sacre terga, affinché possa essere verificato il suo sesso, onde evitare l'inconveniente di una papessa".
Ma Bartolomeo Sacchi (il famoso "Plàtina" autore del libro di gastronomia De honesta voluptate et valetudine, tratto dal grande cuoco Martino da Como), era un umanista di Curia a stipendio dei Papi, e per di più prefetto della Biblioteca Vaticana. Quindi non poteva rischiare. E infatti, ricorda la sedia stercoraria in termini vaghi e ipocriti: "Questa sedia è stata così predisposta affinché colui che è investito da un sì grande potere sappia che egli non è Dio, ma un uomo, e pertanto è sottomesso alle necessità della natura".
Laddove per "natura" non si sa bene quale delle tre funzioni della sedia forata il Plàtina intendesse privilegiare, se il defecare, il partorire - ma allora, andava benissimo la papessa Giovanna! - o il possedere (e all’occorrenza usare) i testicoli al fine di generare. Generare? E sempre lì torniamo. La lingua della Chiesa batte dove il dente duole.
Fatto sta che perfino il fidatissimo Plàtina dove mette la fatidica sedia bucata? Nella sua Vita della Papessa Giovanna, guarda caso, rafforzando così e ad altissimo livello un collegamento che invece la Chiesa di oggi esclude. Anche per C.D'Onofrio il rito aveva carattere religioso, ma non potendosi arrampicare sugli specchi sale sulla sedia. Per lui è una "sedia da parto", e simboleggerebbe nientemeno la Santa Madre Chiesa che genera i suoi figli destinandoli alla vita eterna (Mille anni di leggenda: Una donna sul trono di Pietro, Romana Soc.Ed 1978). Nel Seicento inoltrato lo storico e pastore protestante D.Blondel smentì che la sedia forata servisse a provare l’esistenza dei testicoli del papa.
Il rituale della sedia forata sarebbe stato in vigore fino al 1513. Anzi i sedili su cui posare le terga pontificali erano due - ricordava A.Boureau - chiamati "seggi curuli" [ma la rituale sella curulis, riservata ai più alti magistrati Etruschi e Romani nelle cerimonie, non poteva essere di marmo, perché in origine era pieghevole a x, un sedile di legno intarsiato e dorato. NdR]. Ad ogni modo, sul primo sedile il neoeletto papa avrebbe ricevuto lo scettro del comando e le chiavi di S.Pietro, sul secondo una cintura rossa dalla quale pendevano dodici gemme. E’ probabile che gli antichi cronisti e il popolino siano rimasti impressionati da questi sedili forati e li abbiano collegati alla storia, anzi alla leggenda, della papessa Giovanna (La papessa Giovanna. Storia di una leggenda medievale, Einaudi 1991).
A proposito, come andò a finire la papessa? A Giovanna Angelica (così la chiama il Boccaccio) fu dato per segretario un giovane prete, erudito e raffinato, che standole sempre accanto finì per per scoprire il suo vero sesso. Così narra la storia. Ma il dramma, anzi il colpo di teatro, si compì in pubblico durante la processione di Pasqua. Tornando il Papa in Laterano, quando il corteo papale era vicino alla basilica di San Clemente, il cavallo che portava la Pontefice si imbizzarrì per la folla plaudente che stringeva la processione, e per lo spavento Giovanna ebbe doglie violente e un parto prematuro. Immenso lo scandalo. La folla - racconta la storia - fu impietosa, attribuendo il parto ad un prodigio del diavolo. La papessa fu fatta trascinare per i piedi da un cavallo e poi lapidata a morte nei pressi di Ripa Grande. Un dettaglio della leggenda vorrebbe che sulla sua tomba fosse stato inciso un verso che ricorda l’occultismo satanista: Petre Pater Patrum Papissa Pandito Partum. Parole attribuite ad un indemoniato durante il passaggio della papessa. Ma qui siamo in pieno esoterismo.
Sul luogo in cui fu svelata la vera natura della papessa, all’angolo tra via dei SS. Quattro Coronati e Via dei Querceti, fu eratta una piccola edicola votiva tuttora esistente, buia e in stato d'abbandono, nota come il "Sacello". E' chiusa da un'inferriata e risale almeno all’XI secolo. Ma nel Seicento anche l'itinerario dell'antica processione pasquale fu smentito da G.Blondel. A suo dire, la tradizionale processione papale di Pasqua verso l'800 non passava nella strada dove secondo la storia popolare - creduta vera da tutti fino alla fine del Rinaascimento - sarebbe avvenuto il parto della papessa Giovanna.
Vera, leggendaria o simbolico-pedagogica che sia questa vicenda, resta il suo trasparente significato semantico: l'ossessione del popolo della Chiesa e delle sue gerarchie, in un'epoca confusa e violenta in cui il potere ecclesiastico si imponeva sempre più come potere politico ed economico, per la sessualità del Papa, vicario di Dio, sì, ma anche pericolosamente uomo, e per la donna, nella quale Satana era sempre pronto ad incarnarsi. Tre paure - il sesso, la donna e il diavolo - che hanno alimentato fin quasi ai notri giorni il fanatismo della Chiesa di Roma, e che la storia di Giovanna ebbe il merito di sintetizzare e simboleggiare alla perfezione.
E Giuseppe Gioachino Belli come entra in questa contorta avventura? Come il Boccaccio, non poteva perdersi una tale bellissima storia dell'immaginario popolare, e la narra in un sonetto con la consueta sintesi scultorea d'un virtuale e ignorantissimo popolano romano:
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LA PAPESSA GGIUVANNA
Fu ppropio donna. Bbuttò vvia ’r zinale
prima de tutto e ss’ingaggiò ssordato;
doppo se fesce prete, poi prelato,
e ppoi vescovo, e arfine Cardinale.
E cquanno er Papa maschio stiede male,
e mmorze,[1] c’è cchi ddisce, avvelenato,
fu ffatto Papa lei, e straportato
a Ssan Giuvanni su in zedia papale.
Ma cquà sse ssciorze er nodo a la Commedia;
ché ssanbruto[2] je preseno le dojje,
e sficò un pupo llí ssopra la ssedia.
D’allora st’antra ssedia[3] sce fu mmessa
pe ttastà ssotto ar zito de le vojje
si er pontescife sii Papa o Ppapessa.
26 novembre 1831
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Versione. La papessa Giovanna. Fu proprio donna. Prima di tutto gettò via il grembiule e divenne soldato, poi si fece prete, poi prelato, poi vescovo e infine cardinale. E quando il papa maschio stette male e morì (c’è chi dice avvelenato) fu fatta papa lei e trasportata a S.Giovanni sulla sedia papale. Ma qui si sciolse il nodo della commedia, perché ex abrupto [all’improvviso] le presero le doglie e partorì un bambino là, sopra una sedia. Da allora un’altra sedia fu introdotta, per tastare sotto il sito delle voglie se il pontefice sia papa o papessa.
 
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Felipe-bis
view post Posted on 22/10/2010, 17:51




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martedì 28 settembre 2010
SPQR, Roma e i preti. Ecco che significa davvero questa sigla

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Che vuol dire? Che è un invito irresistibile per i giochi di parole. In ogni epoca gli spiritosi da taberna o thermopolium (oggi diremmo "da bar"), per lo più in provincia – ahimé, ingenuamente sicuri di sé, capaci di tutto e senza vergogna: tipico dei provinciali – si sono sempre esercitati sulla bellissima e orgogliosa sigla che denota la Res Publica, cioè lo Stato di Roma antica: SPQR.
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Che vuol dire questo acronimo formato dalle iniziali di altre parole (dal greco antico àkron=estremità e ònoma=nome)? Come tuttora pochi sanno, significa Senatus Populusque Romanus: il Senato e (è il que aggiunto in coda ad un nome, che vale et, atque o ac messi davanti ma staccati) il Popolo Romano, le due entità che avevano il potere costituzionale e politico. Una diarchia fondata sul diritto, che anticipa genialmente le liberal-democrazie moderne.
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Freud, creatore della psicanalisi, ha scritto un pregevole saggio sui "giochi di parole" e i "motti di spirito", specialità in cui l’italianuzzo medio, convinto a torto di essere spiritoso, crede di eccellere, come si ascolta nei corridoi di tutti gli uffici da Trepalle a Pantelleria. Non c'è impiegato romano di oggi, per esempio, che non dica ancora "olive dorci" (olive dolci) al posto di "arrivederci", imitando Stanlio e Ollio. E non parliamo delle insegne penosamente fantasiose dei negozi della Penisola, da "Scarpe diem" per una bottega di calzature, all'ironico "Non solo fiori" per un fioraio che vende invece soltanto fiori, fino al doppio Kitsch geniale di "Cinecittà" per un negozio di cose cinesi in una via dedicata ad un regista di cinema... A proposito di "Puntini, puntini...", è il negozio di sartoria di una mia amica. Ormai aprire un esercizio commerciale significa cadere in qualche gaffe lessicale, e fare una battuta quando si è inadeguati vuol dire cadere in una figuraccia.

Le sigle, poi, hanno sempre stimolato la fantasia satirica del popolo. La targa SCV della Città del Vaticano, di solito abbinata a lussuose automobili scure di rappresentanza, è ovviamente letta dai romani, che non sono mai stati teneri col clero, "Se Cristo Vedesse". Naturale che l'antichissima SPQR si sia prestata a innumerevoli interpretazioni. Una leggenda da internet, ovviamente infondata e anacronistica, vuole che cominciassero i Sabini, a nord di Roma, fieri e duri come la gente di montagna, ad interpretare SPQR come, nientemeno "Sabinis Populis Quis Resistet?", cioè "Chi potrà resistere ai popoli sabini?" Chiunque. Infatti, furono subito sconfitti e assimilati dai Romani. Che allora erano la gente più tosta di tutte, altro che quei mollaccioni di oggi. E guai a confondere, come fanno ancor oggi i provinciali nelle battute spiritose, i Romani di allora con i romani di oggi. Come passare dal fuoco all’acqua, dal ferro alla ricotta.

Ed è un vecchio vezzo: i soliti nullafacenti amanti della satira a buon mercato e senza conseguenze penali, sicuramente romani medievali, s’inventarono perfino uno "Stultus Populus Quaerit Romam", ovvero "La gente stolta ama Roma".

Noi tutti, da bambini, soprattutto a Roma, ma anche in parecchi luoghi al Sud e al Nord, abbiamo scherzato su una sigla per noi familiare che sta dappertutto: dal sinbolo del Municipio in Campidoglio, allo stemma dell’Azienda Tranviaria ATAC, fino ai tombini dell’acqua e delle fognature. Senza contare le iscrizioni su lapidi e architravi antichi. Ma da piccoli. Naturale che all’asilo, a sei anni di età, e proprio a Roma, ci si consideri spiritosi e anticonformisti con "Sono Porci Questi Romani". Non credo che a Bergamo, a Bari, Sassari o a Enna i bambini di sei anni farebbero altrettanto spirito con la sigla della propria città. C’è anche una graduatoria nella naturale stoltezza dei bambini: ebbene, i piccoli romani sembrano in questo un po' più saggi dei loro coetanei di provincia.

Di qui una nota obbligatoria di encomio per i bimbi "romani", pur con tutto il male possibile che pensiamo dei romani di oggi, cioè dei pugliesi, siciliani, napoletani, marchigiani, laziali, abruzzesi, calabresi, umbri, sardi ecc., che più o meno abusivamente vivono (viviamo), e senza ringraziare, a Roma. E, di contro, con tutto il bene possibile che pensiamo dei Romani antichi.

Quindi non impressiona che un politicante di provincia, anzi, il simbolo stesso dei provinciali "che hanno fatto furbamente carriera" passando dal paesotto alla grande città, dove possono finalmente comandare senza farsi ridere dietro da compaesani, figli, parenti e moglie (in questo caso, guarda caso, siciliana: province di Nord e Sud unite nella lotta e nella sottocultura), abbia fatto in ritardo lo spiritoso con una barzelletta di 80 o 250 anni fa, che già non faceva più ridere nell’800, e che oggi a Roma ripetono solo i bambini dell'asilo.

D’altra parte, perfino il Comune di Roma utilizza facendo lo spiritoso la propria sigla (impropria, perché ora Roma non è uno Stato a sé, ma è solo uno degli 8000 comuni dell’Italia, e quindi non ha un suo Senato, e neanche più i finti e ridicoli "senatori" del Medioevo), e si inventa la campagna di sensibilizzazione di giovani volontari per la tutela del patrimonio artistico e culturale, con tanto di errore d’italiano, un sostantivo anziché l’imperativo: "Salvaguardia, proteggi, qualifica Roma".

Evviva il Belli, allora, che nel suo periodo più fecondo dà alla sigla SPQR una geniale interpretazione satirica, quindi etico-politica, facendo parlare un prete istitutore. E come riferisce il grande Stendhal nel suo Viaggio in Italia, nel Regno Pontificio ad ogni stranezza, incongruenza, ingiustizia o prepotenza, c’era sempre un barbiere, un farmacista, un professore, un negoziante, un artigiano, che alla meraviglia o lamentela del forestiero o turista straniero, quasi a scindere le proprie responsabilità aprendo le braccia si scusava: "Che volete, signore, qui siamo governati dai preti!". Così qui. Con l’aggravante del cinismo, più che dell'autoironia: in questo caso a parlare, infatti, è addirittura un maestro-prete (visto il "don"):

SPQR
Quell’esse, pe, ccú, erre, inarberate
sur portone de guasi oggni palazzo,
quelle sò cquattro lettere der cazzo,
che nun vonno dí ggnente, compitate.
M’aricordo però cche dda regazzo,
cuanno leggevo a fforza de frustate,
me le trovavo sempre appiccicate
drent’in dell’abbeccé ttutte in un mazzo.
Un giorno arfine me te venne l’estro
de dimannanne un po’ la spiegazzione
a ddon Furgenzio ch’era er mi’ maestro.
Ecco che mm’arispose don Furgenzio:
“Ste lettre vonno dí, ssor zomarone,
Soli preti qui rreggneno: e ssilenzio”.
Roma, 4 maggio 1833

Versione. SPQR. Quell’esse, pi, qu, erre, inalberate sul portone di quasi ogni palazzo, sono tutte lettere che non valgono niente e compitate non significano nulla. Mi ricordo però che da ragazzo, quando leggevo a forza di frustate, me le trovavo sempre tutte insieme nell’abbeccedario. Un giorno finalmente mi venne il desiderio di chiederne la spiegazione a don Fulgenzio, [il prete] che era il mio maestro. Ecco che mi rispose don Fulgenzio: "Queste lettere vogliono dire, sor somarone, Solo Preti Qui Regnano". E silenzio".

 
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Felipe-bis
view post Posted on 21/12/2010, 21:01




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Un quartiere delle luci rosse a piazza di Spagna, anzi di Francia


(x le immagini andare al post originale, ndr)

Come! Ner cor de Roma cuel’ inferno de le puttane de piazza de Spagna? (G.G.Belli)

Nel 1832 il Belli scriveva un sonetto sul problema del meretricio, attivissimo a piazza di Spagna e dintorni. In chiave moralistica e puritana, ma anche satirica, come si legge nell’ultima strofa (v. in basso). Ma perchè proprio in quella piazza, che doveva poi diventare un’icona nota in tutto il mondo?
Dopo il sacco di Roma del 1527 la città si era lentamente ripresa con la ricostruzione prima e la costruzione ex novo poi di edifici pubblici, soprattutto chiese, conventi, ospizi, anche con il contributo dei grandi paesi cattolici, sopratutto Francia e Spagna, che gareggiavano nell'affermare la loro presenza nella Città Eterna.
Goethe, Mozart, Stendhal, Montaigne, Montesquieu, Shelley, Keats, lord Byron, insieme a migliaia di meno famosi pellegrini del "viaggio in Italia", tanto in voga nei secoli dell'illuminismo e del romanticismo, venivano a visitare Roma, Caput Mundi per tanti secoli e presidio del cristianesimo per altrettanti. Il punto di arrivo era, attraverso la via Cassia, la Flaminia e la Porta del Popolo, proprio piazza di Spagna.
Gli alberghi, le locande, le osterie, le stalle per i cavalli, i parcheggi per le diligenze e le carrozze padronali (dice niente il toponimo “via delle Carrozze”?), le botteghe del caffè, e poi barbieri, farmacisti, calzolai, guide turistiche, “ciceroni”, scrivani, ciarlatani e botteghe di ogni genere, si insediarono rapidamente nella zona di piazza di Spagna. I ricchi viaggiatori dell’epoca erano una manna per tante nuove iniziative artigianali e imprenditoriali.
Le prostitute furono fra le prime ad operare in zona, attirate da due elementari considerazioni. I viaggiatori erano quasi tutti maschi e spesso soggiornavano a lungo. Inoltre, e sopratutto dalla fine del ‘600, la zona godeva della giurisdizione di extraterritorialità a favore della corona spagnola.
Un intero quartiere era sotto la giurisdizione e la protezione della Spagna, che aveva facoltà di escludere ogni ingerenza amministrativa e di polizia dello Stato della Chiesa. In pratica era una zona franca per ogni attività economica, compreso l’esercizio della prostituzione. La Spagna, pur potendo disporre di sue soldatesche con funzioni di polizia, si limitava al controllo della propria legazione e del grande complesso (chiesa e ospizio) dei Trinitari Scalzi, anch'esso di proprietà. Ma il "quartiere spagnolo” si estendeva in un ampio circondario che alla metà del ‘700 comprendeva piazza di Spagna, l'attuale attigua piazza Mignanelli, via Condotti, via della Mercede, via Mario de' Fiori, via Capo le Case, via Gregoriana, l'ultimo tratto di via Felice (ora Sistina), piazza Trinità dei Monti, via Vittoria, via della Croce, via Bocca di Leone, via Frattina. L'area contava alcune migliaia di abitanti. I confini furono codificati, come rivela uno studio di Alessandra Anselmi, in una mappa disegnata dall’architetto Antonio Canevari nel 1725 (v. in basso). Gli accordi raggiunti tra Spagna e Papato furono faticosi e contrastati, per la concorrenza della Francia che accampava analoghi diritti. Ovviamente i vari Papi mai giunsero ad un protocollo ufficiale, che avrebbe comportato nientemeno che la cessione a una potenza straniera di una parte della città. Tutto era stabilito alla stregua di un gentleman agreement. Ma tant’è, la Spagna di fatto esercitava il potere sulla sua giurisdizione, seppure con molta tolleranza verso tutte quelle attività che rendevano il “suo” quartiere il più cosmopolita e accogliente di Roma.

Un passo addietro, come direbbe il Belli. La società misogina e maschilista nella Roma del Papa Re, relegava il ruolo della donna a moglie e madre, monaca o puttana. Rarissime erano le professioni in cui una donna poteva cimentarsi: in pratica la sarta, la "scuffiara" (artigiana di cuffie e cappelli femminili) e le poche serve che accudivano le mogli dei signori. Dimenticavamo le perpetue di preti e parroci, ma molte di esse avevano un doppio, equivoco, ruolo di donna “tutto fare”. La totalità delle altre professioni era riservata ai maschi, perfino il ruolo femminile nelle rappresentazioni teatrali e di musica (be’, proprio maschi no: era l’epoca dei castrati, che cantavano e figuravano come donne a teatro e nella cappella Sistina). Le donne ribelli che non volevano sottostare al maschilismo imperante non avevano molte chances: o puttane o streghe-fattucchiere. Ma quest'ultima professione era molto pericolosa: c’era il rogo, dopo un bel processo della Santa Inquisizione.

La prostituzione, invece, non portava al rogo, e rendeva (e rende) bene. Era l’unica alternativa, sempre illegale ma spesso tollerata, per le donne che non riuscivano o non volevano trovare un marito-padrone. E’ vero che il Cardinale Vicario vigilava sui costumi, “rivedeva il pelo alle puttane”, come diceva il Belli, ma nulla poteva nel quartiere spagnolo.
La prostituzione a Roma era una realtà talmente consolidata che esisteva un ospedale, il San Rocco, per le partorienti al di fuori del matrimonio, e un altro, il San Gallicano, per la cura delle diffusissime malattie veneree. Il “mal francese” o sifilide, era il più diffuso e pericoloso. Per non parlare dell’ospizio per il recupero delle “donne perdute” alle Scalette, in via della Lungara [non sarà, per caso, l’attuale Casa della Donna, sede delle femministe, a cui si accede da una vistosa doppia scalinata? Sarebbe una bella Nèmesi... NdR] e del Cardinal Vicario che vigilava al di sopra di tutto.
.
La scalinata di Trinità dei Monti fu costruita su progetto di Francesco De Sanctis con un lascito di 20.000 scudi fatto nel 1655 ai frati Minimi di San Francesco da Paola da parte di un nobile francese, Etienne Gueffier, che aveva ricoperto incarichi all'ambasciata di Francia a Roma. E' interessante notare come i suddetti frati si fossero tenuti in cassa i denari per quasi tre quarti di secolo prima di rilasciarli per la costruzione della scalinata, in seguito alle insistenze del Papa Clemente XI.
La piazza fu terreno di battaglia diplomatica fra Spagna e Francia. In effetti nel '600 la parte nord, verso porta Flaminia, era "piazza di Francia", e quella su cui si affacciava la legazione spagnola, oggi piazza Mignanelli, era piazza di Spagna. Fu l'influenza di Isabella Farnese, moglie del re Filippo V di Spagna, insieme al potente ambasciatore cardinale Trojano Acquaviva d'Aragona, il cui segretario Giacomo Casanova amava definire "uomo che a Roma vale piu' del Papa", a far pendere la bilancia a favore della giurisdizione spagnola, relegando la zona francese in cima alla famosa scalinata.Nel corso di queste schermaglie della diplomazia, la Spagna vagliò addirittura l'ipotesi di chiudere la scalea con un colpo di mano a base di catene e lucchetti.

Anche prima della costruzione della scalinata di Trinità dei Monti, inaugurata dal Papa nel 1725, lungo il precario pendio alberato che collegava la chiesa francese dei Padri minimi di San Francesco da Paola (in alto) con la piazza della berniniana Barcaccia e col quartiere spagnolo (in basso), esistevano alcune casupole abitate da donne che praticavano la prostituzione, come documentano le proteste dei preti francesi agli inizi del ‘700, e come risulta da una stampa dell’epoca.

Ed ecco il sonetto del Belli, celebrativo dell’editto che vietava alle prostitute di adescare i clienti stando affacciate alla finestra appoggiate ad un esplicito cuscino, sovente decorato di merletti in modo vistoso, come avveniva senza ritegno nel quartiere di Piazza di Spagna. Strano, però, quello che non si può fare con le prostitute si può fare impunemente con la moglie, nota sarcasticamente il Belli:
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LA GIURISDIZZIONE
È un gran birbo futtuto chi sse lagna
de le cose ppiú mmejjo der Governo.
Come! ner cor de Roma cuel’inferno
de le puttane de Piazza de Spagna?!
S’aveva da vedé ’na scrofa cagna
d’istat’e utunno e pprimaver’e inverno,
su cquer zanto cuscino, in zempiterno
a cchiamà li cojjoni a la cuccagna?
Hanno fatto bbenone: armanco adesso
se fotte pe le case a la sordina,
e ccor prossimo tuo come te stesso.
Mo ttutto se pò ffà ccor zu’ riguardo
co cquella ch’er Zignore te distina;
e ar piuppiú cce pò uscí cquarche bbastardo.
Roma, 5 dicembre 1832
.
Versione. E' un gran birbante fottuto chi si lamenta dei migliori provvedimenti del governo. Ma come, nel cuore di Roma quell'inferno delle puttane di piazza di Spagna? Si doveva vedere una scrofa sordida d'estate, autunno, primavera e inverno, su quel santo cuscino tutto il tempo, a chiamare i clienti alla cuccagna? Il governo ha fatto benone: almeno adesso si fa sesso per le case silenziosamente, con il prossimo tuo come con te stesso. Ora si può fare tutto col dovuto riguardo con tua moglie, e al massimo potrà venire fuori qualche bastardo.

Ma le puttane, nonostante editti e proclami, sono tranquillamente restate nella ex "zona spagnola" fino a tempi recenti. Anzi, vi misero casa. Chi non ricorda, fra i vecchi romani, le “case chiuse”, ipocritamente chiamate anche "di tolleranza", di via della Vite, via Belsiana, via Capo le Case, via Mario de' Fiori, via Borgognona (dov'era la "Giorgina", noto ritrovo di gerarchi fascisti) e di tutte le vie all'intorno? La legge Merlin che chiuse i "casini" è del 1958.

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Piazza Navona e donna Olimpia, papessa e perfida “pimpaccia”


(x le immagini andare al post originale, ndr)


IERI E OGGI. Oggi è bella solo quando è del tutto deserta, nelle fredde notti d’inverno battute dalla tramontana. Altrimenti ci fa un po’ vergognare, finta, turistica e volgare com’è, con la paccottiglia di plastica del cattivo gusto e i pessimi dolci sulle bancarelle di Natale, e i quadri kitsch per turisti stupidi che amano essere ingannati. Ci vorrebbe una nuova crudele Donna Olimpia per cacciare via non solo i mercanti di robaccia, ma anche i tanti turisti e abitanti che la frequentano e l’insozzano, e non meritano le bellezze della piazza e del centro storico.
LA VERA PIAZZA DI ROMA. Eppure, nella città dalle cento piazze, dal Campidoglio a campo de’ Fiori, da piazza del Popolo a piazza Colonna, dalle più grandi alle più nascoste e piccole come cortili, una sola è stata la vera “piazza di Roma”, dove popolo, mercanti, preti e nobili hanno recitato ogni giorno mettendo in piazza la loro vita, la vita di Roma: piazza Navona.
Nella Roma dei papi descritta dal Belli la piazza fu sempre il luogo di giochi e divertimenti pubblici quali la cuccagna, la riffa, la tombola, e di spettacoli teatrali, giostre (storica fu una grandiosa edizione della giostra del Saracino) ed esibizioni di funamboli. Ma fu anche il luogo scelto dai nobili per esibirsi “passeggiando” in carrozza, e dal popolo minuto per incontrarsi, prendere appuntamenti, stipulare contratti o manifestare idee politiche e proteste. "Naturale" che in questo crocevia obbligato le guardie del Papa vigilassero in permanenza e ponessero un palco per le punizioni. A volte, come nel 1702, intervennero gli “sbirri” per sciogliere i capannelli di "coloro che volevano adunarsi per discorrere di novità". Sotto il Papa-re, come in tutte le dittature, le adunate non autorizzate erano vietate. Qui, ovviamente, durante i moti del Risorgimento, liberali esposero il tricolore in barba alla polizia.
INSIEME MERCATO E TEATRO. Ancora nel primo Rinascimento la piazza era un brutto e lungo campo in terra battuta (v. immagine n.4). Dal 1477 cominciò a tenervisi un affollato mercato quotidiano di frutta, verdura ed altri generi alimentari, e quello settimanale (al mercoledi) anche di utensili, cose vecchie, libri usati e lunari, questi ultimi molto di moda nell’Ottocento. Lo spettacolo, quindi, era assicurato.
Le erbe, i rigattieri e i cenciaioli ebrei col carretto, i contadini con le sporte di fichi e uva sull’asino, le ceste con le verdure e le uova, gli storpi, gli acrobati e i questuanti, le guardie civiche con gli alti chepì, il grido dell’arrotino, i cavalli, i nobili in carrozza, le balle di fieno accatastate accanto alle fontane, i preti con cappelloni e breviario, gli escrementi degli animali, il banchetto dello scrivano, il barbiere ambulante, i turisti inglesi e tedeschi col Baedeker in mano, il passeggio delle dame eleganti con l’ombrellino, i bambini a piedi nudi (ma anche i gelatai e cocomerai), il vociare delle popolane, i litigi e i tafferugli, i tavoli affollati delle trattorie, le feste, la musica all’aperto, la tombola (finiva sempre male, con feriti e arresti), le processioni, le maschere di Carnevale, le sfilate delle carrozze nell’acqua d’estate, il vedere e farsi vedere, l’incontrarsi, lo spettegolare, perfino il sadico spettacolo delle frustate in piazza (il palco del cavalletto eretto davanti a S.Agnese a perenne monito del popolo), tutto, insomma, ha dato forma alla rappresentazione realistica, colorita, insieme bonacciona e crudele, del popolo romano.
Nel 1651 papa Innocenzo X, Pamphilij, che aveva il più bel palazzo in piazza Navona, su consiglio della cognata Donna Olimpia, volle trasformare la piazza in un fondale di lusso per le passeggiate in carrozza dei nobili. Ordinò, perciò, di cambiare zona a “fruttaroli, regattieri, librai, et altri venditori di diverse robbe”, e molti ne mandò addirittura in prigione. Molte furono le proteste, represse con galera e torture. Tanto più che i costi dei dispendiosi lavori erano addossati sotto forma di pesanti tasse sul popolo. Il Belli dà un rapido bozzetto della piazza nel sonetto Piazza Navona:

PIAZZA NAVONA
Se pò ffregà Ppiazza-Navona mia
e dde San Pietro e dde Piazza-de-Spaggna.
Cuesta nun è una piazza, è una campaggna,
un treàto, una fiera, un’allegria.
Va’ dda la Pulinara a la Corzía,
curri da la Corzía a la Cuccaggna:
pe ttutto trovi robba che sse maggna,
pe ttutto ggente che la porta via.
Cqua cce sò ttre ffuntane inarberate:
cqua una gujja che ppare una sentenza:
cqua se fa er lago cuanno torna istate.
Cqua ss’arza er cavalletto che ddispenza
sur culo a cchi le vò ttrenta nerbate,
e ccinque poi pe la bbonifiscenza.
Roma, 1° febbraio 1833

Versione. Piazza Navona. Può ridersene, piazza Navona, di San Pietro e piazza di Spagna. Questa non è una piazza, è una campagna, un teatro, una fiera, un’allegria. Và da piazza S.Apollinare alla Corsia Agonale, corri dalla Corsia a via della Cuccagna: dappertutto troverai cose che si mangiano, dappertutto gente che le porta via. Qua ci sono tre fontane ritte come alberi: qua c’è una guglia [l’obelisco] che pare una sentenza: qua si fa il lago quando torna l’estate. Qua si alza il palco del cavalletto che dispensa a chi se l’è meritate trenta scudisciate sulle natiche, più cinque per la beneficienza.

AVEVA COMINCIATO DOMIZIANO. Se c’è stata, insomma, una piazza a Roma dove la vita si è fatta teatro quotidiano, questa è il lungo perimetro ricostruito sulle gradinate di quello che era nato proprio come un monumento allo spettacolo, sia pure sportivo, l’antico grande stadio di Domiziano. Era lungo 276 e largo 54 metri, e poteva contenere circa 30 mila spettatori, ed era dedicato all’atletica leggera e in particolare alle corse. Inaugurato nell’86 d.C. fu restaurato nel III sec. da Alessandro Severo. Con l’avvento del Cristianesimo moralista e oscurantista (non diversamente dall’islamismo di oggi), che disprezzava il corpo, il benessere fisico e l’igiene, lo stadio di Domiziano cadde in disuso, e i suoi marmi furono depredati per costruire chiese e palazzi. Già nel secolo XIII sulle sue gradinate cominciarono ad essere erette le prime abitazioni delle potenti famiglie baronali romane, che vennero a formare la “Platea (piazza) Agonale” o “in Agone”, dal greco agon (gara, lotta, competizione sportiva). Da “agone” per deformazione del popolino in tempi in cui non c’erano le targhe toponomastiche divenne prima “navone” e infine “Navona”. Ma le navi non c'entrano nulla. E proprio da quello Stadio, riccamente decorato con statue, viene la vicina statua cosiddetta del Pasquino, ciò che resta di un gruppo ellenistico che forse rappresentava Menelao che sorregge il corpo di Patroclo.

ERA UNA PIAZZA BRUTTA E SPORCA. Come si presentava anticamente piazza Navona? Fu desolata e bruttina per secoli, come mostrano le antiche illustrazioni del Medioevo e del Rinascimento. Era un grande campo in terra battuta, concavo, senza monumenti artistici, ma abbeveratoi. Fu lastricata di mattoni nel 1485, selciata nel 1488. Soltanto dal 1870, a Italia unita, quando arrivarono i liberali piemontesi, fu coperta di sanpietrini, munita di un rialzo centrale che la rese convessa. e di marciapiedi.
Nel Cinquecento vi fu trasferito il mercato delle erbe di campo de’ Fiori. E figuratevi il caos, le catapecchie e i tendoni dei mercanti (lo testimoniano varie stampe), i carri degli ambulanti, le brutture e la sporcizia. Finché non fu munita di tre semplici fontane non artistiche (papa Gregorio XIII Boncompagni), compreso un abbeveratoio per i molti animali che - non troppo diversamente dagli "animali" di oggi - la frequentavano.
Per secoli, dunque, piazza Navona è stata sporca, puzzolente, piena di rifiuti, di canestri e sporte, paglia, animali e resti di animali, degradata, con la sua prospettiva architettonica deturpata da tendoni, bancarelle e casupole.
Chi la ripulì? Donna Olimpia. Per volontà della “crudele” donna Olimpia, che aveva ottenuto il palazzo Pamphilj in regalo dal cognato papa, e voleva fare della “sua” piazza il salotto della città, quasi un gioiello personale, il rumoroso e sporco mercato fu trasferito di nuovo a campo de’ Fiori. E fece bene. Capiamo la prepotente donna Olimpia che cacciò dalla piazza i mercanti, ortolani, contadini e macellai che animavano, ma insozzavano anche le belle fontane, con rifiuti e animali d’ogni sorta.
Ma, come accade anche oggi, lo scontento “corporativo” di mercanti e popolo fu tale da obbligare i papi a ripristinare il mercato delle erbe, sia pure con inascoltate “severissime leggi” sull’igiene e il decoro della piazza. Fatto sta che il mercato a piazza Navona ci fu fino agli anni 60 del Novecento, quando la piazza era molto degradata, affollatissima e piena di automobili parcheggiate. Non vi si potevano ammirare né le fontane, né i palazzi. Evviva l’attuale isola pedonale!
Ai tempi del Belli era di nuovo “la piazza del mercato” più grande e rumoroso di Roma, che soprattutto al mercoledi si trasformava in una fiera caotica e multicolore dove si vendeva di tutto. Ma lo strano sonetto Er mercato de piazza Navona non parla di oggetti popolarissimi come scaldini, fusi, conocchie, scialli, berretti, seghe, martelli, casseruole e cùccume, e invece si concentra, pensate un po', sui libri, che i popolani ignoravano del tutto.
Un'ennesima prova, questa volta di argomento e non di lingua, della differenza nel Belli tra "popolare" e "popolaresco", tanto da avvalorare la tesi che i sonetti non sono soltanto, come invece egli asserisce, un "ritratto della plebe", ma soprattutto l'autoritratto del Belli, erudito e piccolo-borghese, che scrive à la manière de, e si nasconde dietro il popolino romano:

ER MERCATO DE PIAZZA NAVONA
Ch’er mercoledì a mmercato, ggente mie,
sce siino ferravecchi e scatolari,
rigattieri, spazzini, bbicchierari,
stracciaroli e ttant’antre marcanzie,
nun c’è ggnente da dì. Ma ste scanzie
de libbri, e sti libbracci, e sti libbrari,
che cce vienghen’ a ffà? ccosa sc’impari
da tanti libbri e ttante libbrarie?
Tu pijja un libbro a ppanza vòta, e ddoppo
che ll’hai tienuto per cquarc’ora in mano,
dimme s’hai fame o ss’hai maggnato troppo.
Che ppredicava a la Missione er prete?
“Li libbri non zò rrobba da cristiano:
fijji, per ccarità, nnu li leggete”.
(20 marzo 1834)

Versione. Il mercato di piazza Navona. Che il mercoledi al mercato, amici miei, ci siano venditori di ferri vecchi e di scatole, rigattieri, spazzini, bicchierai, stracciaroli e tante altre mercanzie, non c’è niente da dire. Ma queste scansie di libri, e questi libracci e questi librai, che cosa vengono a fare? Cosa impari da tanti libri e tante librerie? Prendi un libro a pancia vuota, e dopo che l’hai tenuto qualche ora in mano, dimmi se hai fame o se hai mangiato troppo. Che predicava il prete al Catechismo? “I libri non sono cosa da cristiano: figli, per carità, non leggeteli!”.

IL MERCATINO DEI LIBRI E LA CULTURA PER LA CHIESA. Sui libri il reazionario clero cattolico apostolico romano aveva molto da ridire, e metteva in guardia i giovani del catechismo dal leggere la carta stampata. Perché, si sa, la stampa insinua dubbi, fa pensare con la propria testa, smitizza i miti, scopre le bugie, diffonde nuove idee, giuste o sbagliate che siano. Insomma. è come il Diavolo: “Figli, non leggete i libri!” Sembra di ascoltare un politico di oggi messo alla berlina dalla stampa per qualche sua magagna: “Non leggete i giornali!”. Sono faziosi e intrisi d’odio”. Così era ed è per la Chiesa.
Balza sùbito agli occhi che l’atteggiamento culturale della Chiesa cattolica è diametralmente opposto a quello di protestanti ed ebrei, che della lettura personale, dell’abitudine all’interpretazione diretta dei Testi sacri, non mediata obbligatoriamente dalla casta dei sacerdoti, e quindi della cultura in genere, hanno sempre fatto una pratica quotidiana. Anzi, gli storici delle idee attribuiscono proprio a questa capacità di leggere e commentare per conto proprio, insomma a questa rivoluzione culturale individualista, non solo l’origine della Riforma protestante ma anche dello stesso Liberalismo. Ecco perché un popolano cattolico nella Roma dell’800 non sapeva né leggere né scrivere, anzi era tenuto dalla Chiesa - specialmente le donne -nella più vergognosa ignoranza, mentre protestanti ed ebrei sapevano leggere ed erano mediamente molto più colti. Una differenza che spiega tutto dell’arretratezza italiana per colpa della Chiesa.

MA IL BELLI DA CHE PARTE STA? Fatto sta che in questo sonetto, in cui piazza Navona è solo un fondale, un pretesto, Belli descrive efficamente un carattere tipicamente romano, che tocca tutti, popolo e nobiltà nera. E nella sua ben nota ambiguità, come spesso accade nei Sonetti, non si capisce bene “da che parte sta”. Sembra, è vero, in superficie, fare della satira, o meglio dell’ironia anti-Chiesa, ma il Belli è pur sempre l’uomo che sarà capo della Censura vaticana, severissimo e implacabile cancellatore di drammi, romanzi ed opere teatrali (anche Shakespeare e Verdi), per di più caduto in un astioso, cupo, patologico pessimismo senza speranza. Dunque il sospetto che in questo “no ai libri” e alla libertà della cultura vi sia già nel Belli una sorta di compiacimento sadico tra le righe, anzi, un’ombra di immedesimazione, potrebbe essere fondato.

LA PIAZZA, CAPOLAVORO DEL BAROCCO. Ma torniamo a piazza Navona. Un capolavoro di ambiente urbano barocco la piazza divenne solo con papa Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphilj), che negli undici anni di papato (1644-55) ne fece insieme il simbolo della grandezza della casata e il salotto della città, il centro della vita romana, partendo dalla residenza di famiglia, il grande palazzo Doria Pamphilj, davanti alla fontana del Moro e accanto alla chiesa di S.Agnese. I Rainaldi e il Borromini ingrandirono, restaurarono e abbellirono il palazzo, la chiesa e le costruzioni attigue, mentre il Bernini realizzò la decorazione di due delle tre fontane del 500, per renderle artistiche e imponenti. Ma solo nell’Ottocento, col completamento da parte di artisti minori della fontana a nord, quella “dei delfini”, il magnifico colpo d’occhio barocco della piazza, con le sue guglie e le sue imprevedibili linee curve, poteva dirsi perfetto. un continuum architettonico irripetibile, ben superiore alla somma dei singoli monumenti.

LA FONTANA DEI QUATTRO FIUMI. La fontana dei Quattro Fiumi al centro della piazza ha quattro statue (il Danubio, il Gange, il Nilo e il Rio della Plata) che rappresentano i quattro fiumi più lunghi e i quattro angoli della Terra. L’obelisco, ritrovato nel Circo di Massenzio sulla via Appia, allungato con un basamento svetta da una roccia di travertino su statue e leoni. L’architetto Bernini se l’aggiudicò, al posto del Borromini a cui era stata affidata in un primo momento, con lo stratagemma del regalino alla potentissima donna Olimpia, cognata e ascoltata consigliera di papa Innocenzo X. Le regalò un modellino-bozzetto in argento. Il papa lo potè ammirare, si disse, negli appartamenti di Olimpia e decise con lei di affidare la commessa al Bernini. Del resto era stata la stessa Donna Olimpia a proporre il Rainaldi per il rifacimento del palazzo. La Fontana fu inaugurata nel 1651, ma fu finanziata con nuove imposte sui proprietari di case e impopolarissime tasse su pane, vino e altri generi alimentari, che colpirono la povera gente.

UN ARCHITETTO CONTRO L'ALTRO. E lo scontro Bernini-Borromini? In parte è leggenda. Certo, tra i grandi architetti Bernini e Borromini c’era sicuramente concorrenza professionale, com’è naturale, e contrapposizione stilistica, tanto magniloquente, rotondo e grandioso è lo stile del primo (romano di origine napoletana), quanto introverso, eccentrico, nordico e amante delle guglie e delle facciate concave è il secondo (milanese originario di Lugano, Svizzera italiana). Ma la storiella raccontata da tutte le guide turistiche, secondo cui nella fontana del Bernini la mano alzata della statua del Nilo vorrebbe significare il timore che la prospiciente chiesa di S.Agnese, del Borromini possa cadere da un momento all’altro, è pura invenzione. La chiesa fu ricostruita dal Borromini intorno al 1653 e poi completata dal figlio del Rainaldi nel 1672, mentre la fontana del Bernini era già in costruzione dal 1648 al 1651.

BELLI: PIU’ GRANDE DEL MONUMENTO L'IRONIA SUL POPOLINO. Il Belli nel sonetto Er funtanone de piazza Navona è attratto, come al solito, più dalla plebe attorno che dal monumento in sé. Parla di un fatto di cronaca insignificante, non si sa se vero o inventato: un tumulto popolare per l’aumento dei prezzi alimentari, e una sassata che avrebbe troncato di netto il pollice d’una statua della fontana dei Quattro Fiumi del Bernini, lasciando la mano con quattro dita. Ammesso e non concesso che ciò sia accaduto, oggi il danno non è più visibile. Resta il sospetto dell'ironia sul popolino e il suo scontento. La solita riduzione delle grandi cose a cose minute. La conclusione è irriverente: le quattro dita (anzi, il numero 4) significano secondo la cabala e le superstizioni del popolino romano, nientemeno che il membro virile. Per cui l’epiteto “faccia de quattro”, usato in un altro sonetto belliano, sarebbe un’insultante “faccia di cazzo” (F.Ravaro, Dizionario romanesco, Newton Compton 2005, p.511). A questo punto, la sibillina espressione con cui si conclude il sonetto, “quattro der cazzo”, andrebbe letta come un rafforzativo dell’ingiurioso epiteto romanesco:

…ccor una serciata a cquer pupazzo
je fesceno sartà nnetto er detone.
Chi ddà la corpa a un boccio, chi a un regazzo:
ma er fatt’è cche cquell’omo ar funtanone
pare che ddichi: A vvoi; quattro der cazzo!
10 settembre 1830

Versione. Con una sassata a quella statua gli fecero saltare il pollice. Chi dà la colpa ad un vecchio, chi a un bambino: ma il fatto è che quell’uomo del fontanone sembra che dica: A voi, quattro del cazzo (teste di cazzo)!

LE DUE FONTANE MINORI. Nel 1653 il Bernini modificò la fontana a sud disegnata dal Della Porta nel 1575, aggiungendo un delfino che reggeva una lumaca sulla coda alzata. La composizione non piacque e la gente protestò: il Bernini vi montò allora il busto di un moro che accarezza un delfino. Fu soprannominata la fontana del Moro. Le sculture della fontana a nord, quella del Nettuno (in precedenza “dei calderari”, perché questi artigiani vi si radunavano attorno), è invece opera molto tarda, del 1873, fatta dopo regolare concorso dall'amministrazione di Roma “piemontesizzata” e liberale. E va detto che il buongusto dei misconosciuti scultori Zappalà (Nereidi, putti e cavalli marini) e Della Bitta (Nettuno che lotta con una piovra), che si sono così bene immedesimati nell’ambiente barocco, ha poco o nulla da invidiare all’autore della fontana gemella, il grande Bernini.

IL LAGO DI PIAZZA NAVONA. Prima che fosse costruito il marciapiedi e alzato il livello centrale (fine 800), la piazza era concava e si prestava ad essere allagata per dare frescura nei giorni d’estate. "S'atturava la chiavica della funtana de mezzo - ricorda Zanazzo - e la piazza ch'era fatta a scesa, s'allagava tutta". Per circa due secoli, a partire dal 1652, nei sabati e domeniche di agosto piazza Navona si trasformò in un lago. L’evento coinvolgeva tutti, dai nobili che vi accorrevano in carrozza ai popolani, ed era poi ingrandito nella memoria popolare e tramandato di cronista in cronista fino a tramutarsi quasi in leggenda. Certo, era anche teatro, secondo il gusto eccessivo del Barocco. Vere e proprie gare di invenzioni e sfarzo coinvolgevano le famiglie aristocratiche, che talvolta facevano teatralmente “solcare le acque” da calessi a forma di gondole o navi di legno e cartapesta, alcune con vele e rematori, musici e sirene. Bambini e perfino adulti del popolo vi si immergevano per fare il bagno, giocare e fare scherzi, dopo essersi spogliati, tanto che un editto proibì di denudarsi per entrare in acqua. Con i soliti metodi spicci e disumani, la giustizia dei preti comminava ai bambini frustate, ma per un adulto che si "metteva nudo o con le mutande per bagnarsi e notare", c’era la tortura in pubblico sul “cavalletto” nella stessa piazza o al Corso. Con le stesse pene erano colpiti i frequenti scherzi dei giovinastri ai danni dei nobili che prendevano il fresco. Col gusto sadico del marchese del Grillo, si narra che nel 1730 il figlio del re d'Inghilterra si divertisse a gettare monete nell'acqua per vedere i ragazzini buttarsi in acqua vestiti facendo a gara per ripescarle. Un po’ come più tardi sarebbe accaduto nella Fontana di Trevi. Nel 1717 alcune dame "forse scaldate dal vino, spogliatisi si tuffarono (!) in quelle acque". Una fu colta da malore e caduta in acqua fu salvata da alcune persone gettatesi in acqua vestite. E un cavallo del marchese Corbelli vi affogò, perché incastrò una zampa in una buca e cadde in acqua. Questi particolari descritti con parole esagerate e riportati in modo acritico dai soliti cronisti hanno alimentato la leggenda, assurda perché contrasta con tutte le stampe dell’epoca, che l’acqua potesse raggiungere in almeno un punto quasi l’altezza di un uomo, un metro e oltre. E’ nostra convinzione, invece, data la struttura della piazza e i livelli del basamento delle fontane e dei palazzi, che non potesse superare i 50 cm.
E le battaglie navali (naumachie) di cui pure parlano guide e siti web? Non c’entrano nulla: la memoria popolare mette tutto in un calderone: il nome "Navona" (che, come si è detto, non deriva da "nave", ma da "in Agone"), lo stadio di Domiziano (che ospitava solo atletica), il ben più profondo circo Colosseo, dove invece le vere naumachie erano possibili, e le allegorie con finte regate e "battaglie" di barche dei nobili sulla piazza Navona allagata in epoca papale dal 1600 in poi. Nella piazza, tra il 1810 ed il 1839, si tennero corse di cavalli con fantino, come nel Palio di Siena.

LA “PIMPACCIA DI PIAZZA NAVONA”. Ma chi era donna Olimpia, perché era così potente, e come mai si parla così tanto di lei a proposito di piazza Navona e di Roma? Per cominciare, abitava nel palazzo più bello della piazza, nel grandioso e sfarzoso palazzo Doria Pamphilj, che aveva suggerito di costruire e poi ingrandire (Rainaldi, Borromini) e abbellire di opere d’arte (affreschi di Pietro da Cortona), e che poi si era fatto regalare dal cognato papa. La viterbese di origine umbra Olimpia Maidalchini, donna di grande carattere e personalità, era molto più di una cinica e spregiudicata arrivista sociale: era sì una donna anticonformista, spietata e furba, ma anche molto intelligente, tanto da consigliare uno dei più intelligenti papi della storia.
Passò di tetto in tetto, di letto in letto, di trono in trono, pur di avere denaro, lusso, status e soprattutto potere. Non bellissima, ma affascinante e forse dotata di segrete attrattive sessuali, dai e ridai, dopo aver vagliato tanti aristocratici di potere e denaro, finalmente riuscì a sposare quello che le doveva apparire il partito giusto: il nobile Pamphilio della potente famiglia Pamphilj, più vecchio di lei di trent’anni, che ebbe il buon gusto di morire pochi anni dopo lasciandola ricca vedova.
Da qui cominciò la sua scalata. In pochi anni divenne non solo la donna, ma addirittura la personalità più potente e temuta a Roma, una vera e propria terribile “papessa”, capace di fare e disfare cardinali e papi, di far nominare vescovo il padre e cardinale il figlio, di dirigere la Chiesa e lo Stato del Papa attraverso il fratello del defunto marito, Giovanni Battista Pamphilj (papa Innocenzo X), un grande pontefice che pendeva dalle sue labbra e l’aveva come consigliera, e in gioventù, pare, anche come amante. Anzi, sembra che la lungimirante e decisionista Olimpia, l’unica a “portare i pantaloni” nella molle Curia romana, avesse perfino aiutato il cognato nella carriera ecclesiastica. Donna sicuramente di genio, sia pure con risvolti malefici, Olimpia fu abile non solo nell’usare uomini e donne come pedine di un suo gioco diabolico, ma anche nell’arricchirsi con le eredità, manipolando volontà, depredando tesori, e ricorrendo regolarmente anche alla vendita di raccomandazioni e benefici ecclesiastici (questi ultimi calcolati in 500.000 scudi d’oro). Insomma, un’anticipatrice, per conto proprio, dell’attuale tendenza economica dei Governi al più cinico “fare cassa”, svendendo un po’ di tutto. Morto il papa, però, e una volta svelati i suoi intrighi, il successore di Innocenzo X la esiliò. Ma alla morte di Olimpia, nel 1657, il notaio rese noto che aveva lasciato in eredità ben 2 milioni di scudi d’oro.

LA SATIRA POPOLARE CONTRO LA DONNACCIA. Il popolo le aveva attribuito già in vita ogni nefandezza, trasformandola da defunta in un fantasma, l’unico fantasma di Roma, come ha scritto Adele Cambria. E in effetti Donna Olimpia che fugge di notte in una nera carrozza in fiamme portando con sé tutto l’oro accumulato, finché i cavalli indiavolati vanno a gettarsi con lei e le sue ricchezze nel Tevere, è una drammatica raffigurazione romantica della Nèmesi storica, così come la poteva vedere il popolino romano.
La sua avidità, ingratitudine e crudeltà arrivarono al punto da spingerla ad impossessarsi perfino degli averi del papa appena deceduto, proprio il papa che si era fidato solo di lei, l'aveva protetta e resa tanto potente. Ora che non poteva essergli più utile abbandonò il suo cadavere. Per i funerali dovettero tassarsi di tasca propria alcuni monsignori di Curia.
La satira, naturalmente, si scatenò, e nessuna donna, anzi nessun personaggio romano, fu mai bersaglio di critiche e irrisioni più crude. A leggere i biglietti sulla statua del Pasquino, era la famigerata “Pimpaccia di piazza Navona”. E il nomignolo restò, fino a diventare proverbiale. Il suo nome, Olimpia (“Pimpa” in diminutivo romanesco), divenne pretesto per un efficace anagramma di qualche chierico latinista: “olim pia, nunc impia”, cioè un tempo pia, ora empia. Fu “un maschio vestito da donna” per la città di Roma, ma per la Chiesa “una donna vestita da maschio”, si leggeva negli epigrammi.
Veniva presa a pretesto anche la sua sessualità senza scrupoli, di volta in volta per arrivare al potere, per ereditare o per il puro piacere. Imitando le targhe che a Roma ricordano nel Centro storico le piene del Tevere, qualcuno la raffigurò nuda, una mano con l’indice puntato sul basso ventre, e la scritta uguale a quella delle inondazioni: “Fin qui arrivò Fiume”. Ma non era il Tevere, era il suo maestro di camera, un certo cavalier Fiume, con il quale se la intendeva.

MACCHE’, LA PAPESSA VA RIVALUTATA. Ma una figura così carismatica come quella della diabolica Donna Olimpia non può essere solo negativa. Ci devono per forza essere lati positivi. Sarà stata autoritaria, avida, crudele e bizzosa quanto si vuole, però è stata sicuramente una donna intelligentissima e versatile. Capace non solo di comandare agli uomini, e agli uomini potenti, ma anche di dirigere e consigliare in tutto uno dei papi più illuminati e attivi della storia della Chiesa. Altro che l'effimera o storicamente incerta papessa Giovanna. La "papessa" vera fu Olimpia Pamphilj, che dopo secoli di ingiurie conosce ora una seconda vita piena di riconoscimenti, se non di elogi. C’è chi, per dirne una, ne fa una sorta di eroina femminista ante litteram. Di sicuro, ebbe il merito di immettere vitalità e intelligenza nell’addormentata Curia romana, come adombrava la satira del “maschio vestito da donna” in Curia. La nota scrittrice femminista Adele Cambria sembra prendere donna Olimpia in simpatia attribuendole le virtù carismatiche della "donna di potere", cioè capace di imporsi sui maschi, e della donna che sfida le convenzioni col suo atteggiamento anticonformista. Tanto da sottolineare positivamente perfino un settore particolare del suo smodato senso degli affari molto criticato ai suoi tempi. Ripercorrendo le orme dell’imperatore e affarista Vespasiano (“pecunia non olet”, il denaro non ha odore, avrebbe risposto a chi lo rimproverava di far soldi con le latrine), la “Pimpaccia” sembra che riscuotesse personalmente le tasse dei bordelli. Tanto, si sa, “tra puttana e puttana” si intendono, avrebbe potuto commentare qualcuno del popolo. Ma almeno, “senza ostentare false pruderie da signora virtuosa”, aggiunge la savia Cambria. Infatti, aggiunge, “Donna Olimpia dava protezione alle prostitute, portandosele dietro in carrozza nei cortei solenni”. Come fare più contenta una femminista storica?

BRUTTURE DI IERI O DI OGGI? MEGLIO LE PRIME. Ecco la storia colorita a forti tinte di piazza Navona. E viste le sue vergogne moderne, “inutili” a differenza di quelle antiche, e dunque ingiustificabili e in contrasto vergognoso con la bellezza della piazza e di Roma, dal mercatino natalizio di plastica ai pittori di croste di cattivo gusto per turisti di bocca buona, agli invadenti tavoli di bar e ristoranti dove si mangia male e a caro prezzo, fino agli assordanti comizi politici e concerti di musica pop, tutti sconci che neanche il sindaco Argan, che era un critico d’arte, riuscì a vietare, nonostante i propositi (e noi della Lega Naturista gli avevamo inviato una lettera-denuncia), ecco che le “necessarie” vergogne antiche della piazza, come la sporcizia del mercato, la spocchia dei nobili, il palco della tortura, gli intrighi tra potenti, le invidie tra architetti, le inzaccherature e gli scherzi acquatici dei bulli, e le crudeli ambizioni della Pimpaccia, ci sembrano oggi poca cosa, e al posto del cattivo gusto moderno, anzi, danno gusto, fanno da piccante pepe culturale alla Storia di Roma.
Di papa Innocenzo X si parla anche nell'articolo dedicato ad un'altra "papessa", la papessa Giovanna, a proposito dell'increscioso "esame" manuale della sedia forata (escretoria) effettuato, secondo un testimone dell'epoca, alla sua incoronazione.
 
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7 replies since 11/3/2010, 11:25   19387 views
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