http://mondodelbelli.blogspot.com/2010/10/...-piazza-di.htmlUn quartiere delle luci rosse a piazza di Spagna, anzi di Francia
(x le immagini andare al post originale, ndr)Come! Ner cor de Roma cuel’ inferno de le puttane de piazza de Spagna? (G.G.Belli)
Nel 1832 il Belli scriveva un sonetto sul problema del meretricio, attivissimo a piazza di Spagna e dintorni. In chiave moralistica e puritana, ma anche satirica, come si legge nell’ultima strofa (v. in basso). Ma perchè proprio in quella piazza, che doveva poi diventare un’icona nota in tutto il mondo?
Dopo il sacco di Roma del 1527 la città si era lentamente ripresa con la ricostruzione prima e la costruzione ex novo poi di edifici pubblici, soprattutto chiese, conventi, ospizi, anche con il contributo dei grandi paesi cattolici, sopratutto Francia e Spagna, che gareggiavano nell'affermare la loro presenza nella Città Eterna.
Goethe, Mozart, Stendhal, Montaigne, Montesquieu, Shelley, Keats, lord Byron, insieme a migliaia di meno famosi pellegrini del "viaggio in Italia", tanto in voga nei secoli dell'illuminismo e del romanticismo, venivano a visitare Roma, Caput Mundi per tanti secoli e presidio del cristianesimo per altrettanti. Il punto di arrivo era, attraverso la via Cassia, la Flaminia e la Porta del Popolo, proprio piazza di Spagna.
Gli alberghi, le locande, le osterie, le stalle per i cavalli, i parcheggi per le diligenze e le carrozze padronali (dice niente il toponimo “via delle Carrozze”?), le botteghe del caffè, e poi barbieri, farmacisti, calzolai, guide turistiche, “ciceroni”, scrivani, ciarlatani e botteghe di ogni genere, si insediarono rapidamente nella zona di piazza di Spagna. I ricchi viaggiatori dell’epoca erano una manna per tante nuove iniziative artigianali e imprenditoriali.
Le prostitute furono fra le prime ad operare in zona, attirate da due elementari considerazioni. I viaggiatori erano quasi tutti maschi e spesso soggiornavano a lungo. Inoltre, e sopratutto dalla fine del ‘600, la zona godeva della giurisdizione di extraterritorialità a favore della corona spagnola.
Un intero quartiere era sotto la giurisdizione e la protezione della Spagna, che aveva facoltà di escludere ogni ingerenza amministrativa e di polizia dello Stato della Chiesa. In pratica era una zona franca per ogni attività economica, compreso l’esercizio della prostituzione. La Spagna, pur potendo disporre di sue soldatesche con funzioni di polizia, si limitava al controllo della propria legazione e del grande complesso (chiesa e ospizio) dei Trinitari Scalzi, anch'esso di proprietà. Ma il "quartiere spagnolo” si estendeva in un ampio circondario che alla metà del ‘700 comprendeva piazza di Spagna, l'attuale attigua piazza Mignanelli, via Condotti, via della Mercede, via Mario de' Fiori, via Capo le Case, via Gregoriana, l'ultimo tratto di via Felice (ora Sistina), piazza Trinità dei Monti, via Vittoria, via della Croce, via Bocca di Leone, via Frattina. L'area contava alcune migliaia di abitanti. I confini furono codificati, come rivela uno studio di Alessandra Anselmi, in una mappa disegnata dall’architetto Antonio Canevari nel 1725 (v. in basso). Gli accordi raggiunti tra Spagna e Papato furono faticosi e contrastati, per la concorrenza della Francia che accampava analoghi diritti. Ovviamente i vari Papi mai giunsero ad un protocollo ufficiale, che avrebbe comportato nientemeno che la cessione a una potenza straniera di una parte della città. Tutto era stabilito alla stregua di un gentleman agreement. Ma tant’è, la Spagna di fatto esercitava il potere sulla sua giurisdizione, seppure con molta tolleranza verso tutte quelle attività che rendevano il “suo” quartiere il più cosmopolita e accogliente di Roma.
Un passo addietro, come direbbe il Belli.
La società misogina e maschilista nella Roma del Papa Re, relegava il ruolo della donna a moglie e madre, monaca o puttana. Rarissime erano le professioni in cui una donna poteva cimentarsi: in pratica la sarta, la "scuffiara" (artigiana di cuffie e cappelli femminili) e le poche serve che accudivano le mogli dei signori. Dimenticavamo le perpetue di preti e parroci, ma molte di esse avevano un doppio, equivoco, ruolo di donna “tutto fare”. La totalità delle altre professioni era riservata ai maschi, perfino il ruolo femminile nelle rappresentazioni teatrali e di musica (be’, proprio maschi no: era l’epoca dei castrati, che cantavano e figuravano come donne a teatro e nella cappella Sistina). Le donne ribelli che non volevano sottostare al maschilismo imperante non avevano molte chances: o puttane o streghe-fattucchiere. Ma quest'ultima professione era molto pericolosa: c’era il rogo, dopo un bel processo della Santa Inquisizione.
La prostituzione, invece, non portava al rogo, e rendeva (e rende) bene. Era l’unica alternativa, sempre illegale ma spesso tollerata, per le donne che non riuscivano o non volevano trovare un marito-padrone. E’ vero che il Cardinale Vicario vigilava sui costumi, “rivedeva il pelo alle puttane”, come diceva il Belli, ma nulla poteva nel quartiere spagnolo.
La prostituzione a Roma era una realtà talmente consolidata che esisteva un ospedale, il San Rocco, per le partorienti al di fuori del matrimonio, e un altro, il San Gallicano, per la cura delle diffusissime malattie veneree. Il “mal francese” o sifilide, era il più diffuso e pericoloso. Per non parlare dell’ospizio per il recupero delle “donne perdute” alle Scalette, in via della Lungara [non sarà, per caso, l’attuale Casa della Donna, sede delle femministe, a cui si accede da una vistosa doppia scalinata? Sarebbe una bella Nèmesi... NdR] e del Cardinal Vicario che vigilava al di sopra di tutto.
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La scalinata di Trinità dei Monti fu costruita su progetto di Francesco De Sanctis con un lascito di 20.000 scudi fatto nel 1655 ai frati Minimi di San Francesco da Paola da parte di un nobile francese, Etienne Gueffier, che aveva ricoperto incarichi all'ambasciata di Francia a Roma. E' interessante notare come i suddetti frati si fossero tenuti in cassa i denari per quasi tre quarti di secolo prima di rilasciarli per la costruzione della scalinata, in seguito alle insistenze del Papa Clemente XI.
La piazza fu terreno di battaglia diplomatica fra Spagna e Francia. In effetti nel '600 la parte nord, verso porta Flaminia, era "piazza di Francia", e quella su cui si affacciava la legazione spagnola, oggi piazza Mignanelli, era piazza di Spagna. Fu l'influenza di Isabella Farnese, moglie del re Filippo V di Spagna, insieme al potente ambasciatore cardinale Trojano Acquaviva d'Aragona, il cui segretario Giacomo Casanova amava definire "uomo che a Roma vale piu' del Papa", a far pendere la bilancia a favore della giurisdizione spagnola, relegando la zona francese in cima alla famosa scalinata.Nel corso di queste schermaglie della diplomazia, la Spagna vagliò addirittura l'ipotesi di chiudere la scalea con un colpo di mano a base di catene e lucchetti.
Anche prima della costruzione della scalinata di Trinità dei Monti, inaugurata dal Papa nel 1725, lungo il precario pendio alberato che collegava la chiesa francese dei Padri minimi di San Francesco da Paola (in alto) con la piazza della berniniana Barcaccia e col quartiere spagnolo (in basso), esistevano alcune casupole abitate da donne che praticavano la prostituzione, come documentano le proteste dei preti francesi agli inizi del ‘700, e come risulta da una stampa dell’epoca.
Ed ecco il sonetto del Belli, celebrativo dell’editto che vietava alle prostitute di adescare i clienti stando affacciate alla finestra appoggiate ad un esplicito cuscino, sovente decorato di merletti in modo vistoso, come avveniva senza ritegno nel quartiere di Piazza di Spagna. Strano, però, quello che non si può fare con le prostitute si può fare impunemente con la moglie, nota sarcasticamente il Belli:
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LA GIURISDIZZIONE
È un gran birbo futtuto chi sse lagna
de le cose ppiú mmejjo der Governo.
Come! ner cor de Roma cuel’inferno
de le puttane de Piazza de Spagna?!
S’aveva da vedé ’na scrofa cagna
d’istat’e utunno e pprimaver’e inverno,
su cquer zanto cuscino, in zempiterno
a cchiamà li cojjoni a la cuccagna?
Hanno fatto bbenone: armanco adesso
se fotte pe le case a la sordina,
e ccor prossimo tuo come te stesso.
Mo ttutto se pò ffà ccor zu’ riguardo
co cquella ch’er Zignore te distina;
e ar piuppiú cce pò uscí cquarche bbastardo.
Roma, 5 dicembre 1832
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Versione. E' un gran birbante fottuto chi si lamenta dei migliori provvedimenti del governo. Ma come, nel cuore di Roma quell'inferno delle puttane di piazza di Spagna? Si doveva vedere una scrofa sordida d'estate, autunno, primavera e inverno, su quel santo cuscino tutto il tempo, a chiamare i clienti alla cuccagna? Il governo ha fatto benone: almeno adesso si fa sesso per le case silenziosamente, con il prossimo tuo come con te stesso. Ora si può fare tutto col dovuto riguardo con tua moglie, e al massimo potrà venire fuori qualche bastardo.
Ma le puttane, nonostante editti e proclami, sono tranquillamente restate nella ex "zona spagnola" fino a tempi recenti. Anzi, vi misero casa. Chi non ricorda, fra i vecchi romani, le “case chiuse”, ipocritamente chiamate anche "di tolleranza", di via della Vite, via Belsiana, via Capo le Case, via Mario de' Fiori, via Borgognona (dov'era la "Giorgina", noto ritrovo di gerarchi fascisti) e di tutte le vie all'intorno? La legge Merlin che chiuse i "casini" è del 1958.
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http://mondodelbelli.blogspot.com/2010/11/...essa-donna.htmlPiazza Navona e donna Olimpia, papessa e perfida “pimpaccia”
(x le immagini andare al post originale, ndr)IERI E OGGI. Oggi è bella solo quando è del tutto deserta, nelle fredde notti d’inverno battute dalla tramontana. Altrimenti ci fa un po’ vergognare, finta, turistica e volgare com’è, con la paccottiglia di plastica del cattivo gusto e i pessimi dolci sulle bancarelle di Natale, e i quadri kitsch per turisti stupidi che amano essere ingannati. Ci vorrebbe una nuova crudele Donna Olimpia per cacciare via non solo i mercanti di robaccia, ma anche i tanti turisti e abitanti che la frequentano e l’insozzano, e non meritano le bellezze della piazza e del centro storico.
LA VERA PIAZZA DI ROMA. Eppure, nella città dalle cento piazze, dal Campidoglio a campo de’ Fiori, da piazza del Popolo a piazza Colonna, dalle più grandi alle più nascoste e piccole come cortili, una sola è stata la vera “piazza di Roma”, dove popolo, mercanti, preti e nobili hanno recitato ogni giorno mettendo in piazza la loro vita, la vita di Roma: piazza Navona.
Nella Roma dei papi descritta dal Belli la piazza fu sempre il luogo di giochi e divertimenti pubblici quali la cuccagna, la riffa, la tombola, e di spettacoli teatrali, giostre (storica fu una grandiosa edizione della giostra del Saracino) ed esibizioni di funamboli. Ma fu anche il luogo scelto dai nobili per esibirsi “passeggiando” in carrozza, e dal popolo minuto per incontrarsi, prendere appuntamenti, stipulare contratti o manifestare idee politiche e proteste. "Naturale" che in questo crocevia obbligato le guardie del Papa vigilassero in permanenza e ponessero un palco per le punizioni. A volte, come nel 1702, intervennero gli “sbirri” per sciogliere i capannelli di "coloro che volevano adunarsi per discorrere di novità". Sotto il Papa-re, come in tutte le dittature, le adunate non autorizzate erano vietate. Qui, ovviamente, durante i moti del Risorgimento, liberali esposero il tricolore in barba alla polizia.
INSIEME MERCATO E TEATRO. Ancora nel primo Rinascimento la piazza era un brutto e lungo campo in terra battuta (v. immagine n.4). Dal 1477 cominciò a tenervisi un affollato mercato quotidiano di frutta, verdura ed altri generi alimentari, e quello settimanale (al mercoledi) anche di utensili, cose vecchie, libri usati e lunari, questi ultimi molto di moda nell’Ottocento. Lo spettacolo, quindi, era assicurato.
Le erbe, i rigattieri e i cenciaioli ebrei col carretto, i contadini con le sporte di fichi e uva sull’asino, le ceste con le verdure e le uova, gli storpi, gli acrobati e i questuanti, le guardie civiche con gli alti chepì, il grido dell’arrotino, i cavalli, i nobili in carrozza, le balle di fieno accatastate accanto alle fontane, i preti con cappelloni e breviario, gli escrementi degli animali, il banchetto dello scrivano, il barbiere ambulante, i turisti inglesi e tedeschi col Baedeker in mano, il passeggio delle dame eleganti con l’ombrellino, i bambini a piedi nudi (ma anche i gelatai e cocomerai), il vociare delle popolane, i litigi e i tafferugli, i tavoli affollati delle trattorie, le feste, la musica all’aperto, la tombola (finiva sempre male, con feriti e arresti), le processioni, le maschere di Carnevale, le sfilate delle carrozze nell’acqua d’estate, il vedere e farsi vedere, l’incontrarsi, lo spettegolare, perfino il sadico spettacolo delle frustate in piazza (il palco del cavalletto eretto davanti a S.Agnese a perenne monito del popolo), tutto, insomma, ha dato forma alla rappresentazione realistica, colorita, insieme bonacciona e crudele, del popolo romano.
Nel 1651 papa Innocenzo X, Pamphilij, che aveva il più bel palazzo in piazza Navona, su consiglio della cognata Donna Olimpia, volle trasformare la piazza in un fondale di lusso per le passeggiate in carrozza dei nobili. Ordinò, perciò, di cambiare zona a “fruttaroli, regattieri, librai, et altri venditori di diverse robbe”, e molti ne mandò addirittura in prigione. Molte furono le proteste, represse con galera e torture. Tanto più che i costi dei dispendiosi lavori erano addossati sotto forma di pesanti tasse sul popolo. Il Belli dà un rapido bozzetto della piazza nel sonetto Piazza Navona:
PIAZZA NAVONA
Se pò ffregà Ppiazza-Navona mia
e dde San Pietro e dde Piazza-de-Spaggna.
Cuesta nun è una piazza, è una campaggna,
un treàto, una fiera, un’allegria.
Va’ dda la Pulinara a la Corzía,
curri da la Corzía a la Cuccaggna:
pe ttutto trovi robba che sse maggna,
pe ttutto ggente che la porta via.
Cqua cce sò ttre ffuntane inarberate:
cqua una gujja che ppare una sentenza:
cqua se fa er lago cuanno torna istate.
Cqua ss’arza er cavalletto che ddispenza
sur culo a cchi le vò ttrenta nerbate,
e ccinque poi pe la bbonifiscenza.
Roma, 1° febbraio 1833
Versione. Piazza Navona. Può ridersene, piazza Navona, di San Pietro e piazza di Spagna. Questa non è una piazza, è una campagna, un teatro, una fiera, un’allegria. Và da piazza S.Apollinare alla Corsia Agonale, corri dalla Corsia a via della Cuccagna: dappertutto troverai cose che si mangiano, dappertutto gente che le porta via. Qua ci sono tre fontane ritte come alberi: qua c’è una guglia [l’obelisco] che pare una sentenza: qua si fa il lago quando torna l’estate. Qua si alza il palco del cavalletto che dispensa a chi se l’è meritate trenta scudisciate sulle natiche, più cinque per la beneficienza.
AVEVA COMINCIATO DOMIZIANO. Se c’è stata, insomma, una piazza a Roma dove la vita si è fatta teatro quotidiano, questa è il lungo perimetro ricostruito sulle gradinate di quello che era nato proprio come un monumento allo spettacolo, sia pure sportivo, l’antico grande stadio di Domiziano. Era lungo 276 e largo 54 metri, e poteva contenere circa 30 mila spettatori, ed era dedicato all’atletica leggera e in particolare alle corse. Inaugurato nell’86 d.C. fu restaurato nel III sec. da Alessandro Severo. Con l’avvento del Cristianesimo moralista e oscurantista (non diversamente dall’islamismo di oggi), che disprezzava il corpo, il benessere fisico e l’igiene, lo stadio di Domiziano cadde in disuso, e i suoi marmi furono depredati per costruire chiese e palazzi. Già nel secolo XIII sulle sue gradinate cominciarono ad essere erette le prime abitazioni delle potenti famiglie baronali romane, che vennero a formare la “Platea (piazza) Agonale” o “in Agone”, dal greco agon (gara, lotta, competizione sportiva). Da “agone” per deformazione del popolino in tempi in cui non c’erano le targhe toponomastiche divenne prima “navone” e infine “Navona”. Ma le navi non c'entrano nulla. E proprio da quello Stadio, riccamente decorato con statue, viene la vicina statua cosiddetta del Pasquino, ciò che resta di un gruppo ellenistico che forse rappresentava Menelao che sorregge il corpo di Patroclo.
ERA UNA PIAZZA BRUTTA E SPORCA. Come si presentava anticamente piazza Navona? Fu desolata e bruttina per secoli, come mostrano le antiche illustrazioni del Medioevo e del Rinascimento. Era un grande campo in terra battuta, concavo, senza monumenti artistici, ma abbeveratoi. Fu lastricata di mattoni nel 1485, selciata nel 1488. Soltanto dal 1870, a Italia unita, quando arrivarono i liberali piemontesi, fu coperta di sanpietrini, munita di un rialzo centrale che la rese convessa. e di marciapiedi.
Nel Cinquecento vi fu trasferito il mercato delle erbe di campo de’ Fiori. E figuratevi il caos, le catapecchie e i tendoni dei mercanti (lo testimoniano varie stampe), i carri degli ambulanti, le brutture e la sporcizia. Finché non fu munita di tre semplici fontane non artistiche (papa Gregorio XIII Boncompagni), compreso un abbeveratoio per i molti animali che - non troppo diversamente dagli "animali" di oggi - la frequentavano.
Per secoli, dunque, piazza Navona è stata sporca, puzzolente, piena di rifiuti, di canestri e sporte, paglia, animali e resti di animali, degradata, con la sua prospettiva architettonica deturpata da tendoni, bancarelle e casupole.
Chi la ripulì? Donna Olimpia. Per volontà della “crudele” donna Olimpia, che aveva ottenuto il palazzo Pamphilj in regalo dal cognato papa, e voleva fare della “sua” piazza il salotto della città, quasi un gioiello personale, il rumoroso e sporco mercato fu trasferito di nuovo a campo de’ Fiori. E fece bene. Capiamo la prepotente donna Olimpia che cacciò dalla piazza i mercanti, ortolani, contadini e macellai che animavano, ma insozzavano anche le belle fontane, con rifiuti e animali d’ogni sorta.
Ma, come accade anche oggi, lo scontento “corporativo” di mercanti e popolo fu tale da obbligare i papi a ripristinare il mercato delle erbe, sia pure con inascoltate “severissime leggi” sull’igiene e il decoro della piazza. Fatto sta che il mercato a piazza Navona ci fu fino agli anni 60 del Novecento, quando la piazza era molto degradata, affollatissima e piena di automobili parcheggiate. Non vi si potevano ammirare né le fontane, né i palazzi. Evviva l’attuale isola pedonale!
Ai tempi del Belli era di nuovo “la piazza del mercato” più grande e rumoroso di Roma, che soprattutto al mercoledi si trasformava in una fiera caotica e multicolore dove si vendeva di tutto. Ma lo strano sonetto Er mercato de piazza Navona non parla di oggetti popolarissimi come scaldini, fusi, conocchie, scialli, berretti, seghe, martelli, casseruole e cùccume, e invece si concentra, pensate un po', sui libri, che i popolani ignoravano del tutto.
Un'ennesima prova, questa volta di argomento e non di lingua, della differenza nel Belli tra "popolare" e "popolaresco", tanto da avvalorare la tesi che i sonetti non sono soltanto, come invece egli asserisce, un "ritratto della plebe", ma soprattutto l'autoritratto del Belli, erudito e piccolo-borghese, che scrive à la manière de, e si nasconde dietro il popolino romano:
ER MERCATO DE PIAZZA NAVONA
Ch’er mercoledì a mmercato, ggente mie,
sce siino ferravecchi e scatolari,
rigattieri, spazzini, bbicchierari,
stracciaroli e ttant’antre marcanzie,
nun c’è ggnente da dì. Ma ste scanzie
de libbri, e sti libbracci, e sti libbrari,
che cce vienghen’ a ffà? ccosa sc’impari
da tanti libbri e ttante libbrarie?
Tu pijja un libbro a ppanza vòta, e ddoppo
che ll’hai tienuto per cquarc’ora in mano,
dimme s’hai fame o ss’hai maggnato troppo.
Che ppredicava a la Missione er prete?
“Li libbri non zò rrobba da cristiano:
fijji, per ccarità, nnu li leggete”.
(20 marzo 1834)
Versione. Il mercato di piazza Navona. Che il mercoledi al mercato, amici miei, ci siano venditori di ferri vecchi e di scatole, rigattieri, spazzini, bicchierai, stracciaroli e tante altre mercanzie, non c’è niente da dire. Ma queste scansie di libri, e questi libracci e questi librai, che cosa vengono a fare? Cosa impari da tanti libri e tante librerie? Prendi un libro a pancia vuota, e dopo che l’hai tenuto qualche ora in mano, dimmi se hai fame o se hai mangiato troppo. Che predicava il prete al Catechismo? “I libri non sono cosa da cristiano: figli, per carità, non leggeteli!”.
IL MERCATINO DEI LIBRI E LA CULTURA PER LA CHIESA. Sui libri il reazionario clero cattolico apostolico romano aveva molto da ridire, e metteva in guardia i giovani del catechismo dal leggere la carta stampata. Perché, si sa, la stampa insinua dubbi, fa pensare con la propria testa, smitizza i miti, scopre le bugie, diffonde nuove idee, giuste o sbagliate che siano. Insomma. è come il Diavolo: “Figli, non leggete i libri!” Sembra di ascoltare un politico di oggi messo alla berlina dalla stampa per qualche sua magagna: “Non leggete i giornali!”. Sono faziosi e intrisi d’odio”. Così era ed è per la Chiesa.
Balza sùbito agli occhi che l’atteggiamento culturale della Chiesa cattolica è diametralmente opposto a quello di protestanti ed ebrei, che della lettura personale, dell’abitudine all’interpretazione diretta dei Testi sacri, non mediata obbligatoriamente dalla casta dei sacerdoti, e quindi della cultura in genere, hanno sempre fatto una pratica quotidiana. Anzi, gli storici delle idee attribuiscono proprio a questa capacità di leggere e commentare per conto proprio, insomma a questa rivoluzione culturale individualista, non solo l’origine della Riforma protestante ma anche dello stesso Liberalismo. Ecco perché un popolano cattolico nella Roma dell’800 non sapeva né leggere né scrivere, anzi era tenuto dalla Chiesa - specialmente le donne -nella più vergognosa ignoranza, mentre protestanti ed ebrei sapevano leggere ed erano mediamente molto più colti. Una differenza che spiega tutto dell’arretratezza italiana per colpa della Chiesa.
MA IL BELLI DA CHE PARTE STA? Fatto sta che in questo sonetto, in cui piazza Navona è solo un fondale, un pretesto, Belli descrive efficamente un carattere tipicamente romano, che tocca tutti, popolo e nobiltà nera. E nella sua ben nota ambiguità, come spesso accade nei Sonetti, non si capisce bene “da che parte sta”. Sembra, è vero, in superficie, fare della satira, o meglio dell’ironia anti-Chiesa, ma il Belli è pur sempre l’uomo che sarà capo della Censura vaticana, severissimo e implacabile cancellatore di drammi, romanzi ed opere teatrali (anche Shakespeare e Verdi), per di più caduto in un astioso, cupo, patologico pessimismo senza speranza. Dunque il sospetto che in questo “no ai libri” e alla libertà della cultura vi sia già nel Belli una sorta di compiacimento sadico tra le righe, anzi, un’ombra di immedesimazione, potrebbe essere fondato.
LA PIAZZA, CAPOLAVORO DEL BAROCCO. Ma torniamo a piazza Navona. Un capolavoro di ambiente urbano barocco la piazza divenne solo con papa Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphilj), che negli undici anni di papato (1644-55) ne fece insieme il simbolo della grandezza della casata e il salotto della città, il centro della vita romana, partendo dalla residenza di famiglia, il grande palazzo Doria Pamphilj, davanti alla fontana del Moro e accanto alla chiesa di S.Agnese. I Rainaldi e il Borromini ingrandirono, restaurarono e abbellirono il palazzo, la chiesa e le costruzioni attigue, mentre il Bernini realizzò la decorazione di due delle tre fontane del 500, per renderle artistiche e imponenti. Ma solo nell’Ottocento, col completamento da parte di artisti minori della fontana a nord, quella “dei delfini”, il magnifico colpo d’occhio barocco della piazza, con le sue guglie e le sue imprevedibili linee curve, poteva dirsi perfetto. un continuum architettonico irripetibile, ben superiore alla somma dei singoli monumenti.
LA FONTANA DEI QUATTRO FIUMI. La fontana dei Quattro Fiumi al centro della piazza ha quattro statue (il Danubio, il Gange, il Nilo e il Rio della Plata) che rappresentano i quattro fiumi più lunghi e i quattro angoli della Terra. L’obelisco, ritrovato nel Circo di Massenzio sulla via Appia, allungato con un basamento svetta da una roccia di travertino su statue e leoni. L’architetto Bernini se l’aggiudicò, al posto del Borromini a cui era stata affidata in un primo momento, con lo stratagemma del regalino alla potentissima donna Olimpia, cognata e ascoltata consigliera di papa Innocenzo X. Le regalò un modellino-bozzetto in argento. Il papa lo potè ammirare, si disse, negli appartamenti di Olimpia e decise con lei di affidare la commessa al Bernini. Del resto era stata la stessa Donna Olimpia a proporre il Rainaldi per il rifacimento del palazzo. La Fontana fu inaugurata nel 1651, ma fu finanziata con nuove imposte sui proprietari di case e impopolarissime tasse su pane, vino e altri generi alimentari, che colpirono la povera gente.
UN ARCHITETTO CONTRO L'ALTRO. E lo scontro Bernini-Borromini? In parte è leggenda. Certo, tra i grandi architetti Bernini e Borromini c’era sicuramente concorrenza professionale, com’è naturale, e contrapposizione stilistica, tanto magniloquente, rotondo e grandioso è lo stile del primo (romano di origine napoletana), quanto introverso, eccentrico, nordico e amante delle guglie e delle facciate concave è il secondo (milanese originario di Lugano, Svizzera italiana). Ma la storiella raccontata da tutte le guide turistiche, secondo cui nella fontana del Bernini la mano alzata della statua del Nilo vorrebbe significare il timore che la prospiciente chiesa di S.Agnese, del Borromini possa cadere da un momento all’altro, è pura invenzione. La chiesa fu ricostruita dal Borromini intorno al 1653 e poi completata dal figlio del Rainaldi nel 1672, mentre la fontana del Bernini era già in costruzione dal 1648 al 1651.
BELLI: PIU’ GRANDE DEL MONUMENTO L'IRONIA SUL POPOLINO. Il Belli nel sonetto Er funtanone de piazza Navona è attratto, come al solito, più dalla plebe attorno che dal monumento in sé. Parla di un fatto di cronaca insignificante, non si sa se vero o inventato: un tumulto popolare per l’aumento dei prezzi alimentari, e una sassata che avrebbe troncato di netto il pollice d’una statua della fontana dei Quattro Fiumi del Bernini, lasciando la mano con quattro dita. Ammesso e non concesso che ciò sia accaduto, oggi il danno non è più visibile. Resta il sospetto dell'ironia sul popolino e il suo scontento. La solita riduzione delle grandi cose a cose minute. La conclusione è irriverente: le quattro dita (anzi, il numero 4) significano secondo la cabala e le superstizioni del popolino romano, nientemeno che il membro virile. Per cui l’epiteto “faccia de quattro”, usato in un altro sonetto belliano, sarebbe un’insultante “faccia di cazzo” (F.Ravaro, Dizionario romanesco, Newton Compton 2005, p.511). A questo punto, la sibillina espressione con cui si conclude il sonetto, “quattro der cazzo”, andrebbe letta come un rafforzativo dell’ingiurioso epiteto romanesco:
…ccor una serciata a cquer pupazzo
je fesceno sartà nnetto er detone.
Chi ddà la corpa a un boccio, chi a un regazzo:
ma er fatt’è cche cquell’omo ar funtanone
pare che ddichi: A vvoi; quattro der cazzo!
10 settembre 1830
Versione. Con una sassata a quella statua gli fecero saltare il pollice. Chi dà la colpa ad un vecchio, chi a un bambino: ma il fatto è che quell’uomo del fontanone sembra che dica: A voi, quattro del cazzo (teste di cazzo)!
LE DUE FONTANE MINORI. Nel 1653 il Bernini modificò la fontana a sud disegnata dal Della Porta nel 1575, aggiungendo un delfino che reggeva una lumaca sulla coda alzata. La composizione non piacque e la gente protestò: il Bernini vi montò allora il busto di un moro che accarezza un delfino. Fu soprannominata la fontana del Moro. Le sculture della fontana a nord, quella del Nettuno (in precedenza “dei calderari”, perché questi artigiani vi si radunavano attorno), è invece opera molto tarda, del 1873, fatta dopo regolare concorso dall'amministrazione di Roma “piemontesizzata” e liberale. E va detto che il buongusto dei misconosciuti scultori Zappalà (Nereidi, putti e cavalli marini) e Della Bitta (Nettuno che lotta con una piovra), che si sono così bene immedesimati nell’ambiente barocco, ha poco o nulla da invidiare all’autore della fontana gemella, il grande Bernini.
IL LAGO DI PIAZZA NAVONA. Prima che fosse costruito il marciapiedi e alzato il livello centrale (fine 800), la piazza era concava e si prestava ad essere allagata per dare frescura nei giorni d’estate. "S'atturava la chiavica della funtana de mezzo - ricorda Zanazzo - e la piazza ch'era fatta a scesa, s'allagava tutta". Per circa due secoli, a partire dal 1652, nei sabati e domeniche di agosto piazza Navona si trasformò in un lago. L’evento coinvolgeva tutti, dai nobili che vi accorrevano in carrozza ai popolani, ed era poi ingrandito nella memoria popolare e tramandato di cronista in cronista fino a tramutarsi quasi in leggenda. Certo, era anche teatro, secondo il gusto eccessivo del Barocco. Vere e proprie gare di invenzioni e sfarzo coinvolgevano le famiglie aristocratiche, che talvolta facevano teatralmente “solcare le acque” da calessi a forma di gondole o navi di legno e cartapesta, alcune con vele e rematori, musici e sirene. Bambini e perfino adulti del popolo vi si immergevano per fare il bagno, giocare e fare scherzi, dopo essersi spogliati, tanto che un editto proibì di denudarsi per entrare in acqua. Con i soliti metodi spicci e disumani, la giustizia dei preti comminava ai bambini frustate, ma per un adulto che si "metteva nudo o con le mutande per bagnarsi e notare", c’era la tortura in pubblico sul “cavalletto” nella stessa piazza o al Corso. Con le stesse pene erano colpiti i frequenti scherzi dei giovinastri ai danni dei nobili che prendevano il fresco. Col gusto sadico del marchese del Grillo, si narra che nel 1730 il figlio del re d'Inghilterra si divertisse a gettare monete nell'acqua per vedere i ragazzini buttarsi in acqua vestiti facendo a gara per ripescarle. Un po’ come più tardi sarebbe accaduto nella Fontana di Trevi. Nel 1717 alcune dame "forse scaldate dal vino, spogliatisi si tuffarono (!) in quelle acque". Una fu colta da malore e caduta in acqua fu salvata da alcune persone gettatesi in acqua vestite. E un cavallo del marchese Corbelli vi affogò, perché incastrò una zampa in una buca e cadde in acqua. Questi particolari descritti con parole esagerate e riportati in modo acritico dai soliti cronisti hanno alimentato la leggenda, assurda perché contrasta con tutte le stampe dell’epoca, che l’acqua potesse raggiungere in almeno un punto quasi l’altezza di un uomo, un metro e oltre. E’ nostra convinzione, invece, data la struttura della piazza e i livelli del basamento delle fontane e dei palazzi, che non potesse superare i 50 cm.
E le battaglie navali (naumachie) di cui pure parlano guide e siti web? Non c’entrano nulla: la memoria popolare mette tutto in un calderone: il nome "Navona" (che, come si è detto, non deriva da "nave", ma da "in Agone"), lo stadio di Domiziano (che ospitava solo atletica), il ben più profondo circo Colosseo, dove invece le vere naumachie erano possibili, e le allegorie con finte regate e "battaglie" di barche dei nobili sulla piazza Navona allagata in epoca papale dal 1600 in poi. Nella piazza, tra il 1810 ed il 1839, si tennero corse di cavalli con fantino, come nel Palio di Siena.
LA “PIMPACCIA DI PIAZZA NAVONA”. Ma chi era donna Olimpia, perché era così potente, e come mai si parla così tanto di lei a proposito di piazza Navona e di Roma? Per cominciare, abitava nel palazzo più bello della piazza, nel grandioso e sfarzoso palazzo Doria Pamphilj, che aveva suggerito di costruire e poi ingrandire (Rainaldi, Borromini) e abbellire di opere d’arte (affreschi di Pietro da Cortona), e che poi si era fatto regalare dal cognato papa. La viterbese di origine umbra Olimpia Maidalchini, donna di grande carattere e personalità, era molto più di una cinica e spregiudicata arrivista sociale: era sì una donna anticonformista, spietata e furba, ma anche molto intelligente, tanto da consigliare uno dei più intelligenti papi della storia.
Passò di tetto in tetto, di letto in letto, di trono in trono, pur di avere denaro, lusso, status e soprattutto potere. Non bellissima, ma affascinante e forse dotata di segrete attrattive sessuali, dai e ridai, dopo aver vagliato tanti aristocratici di potere e denaro, finalmente riuscì a sposare quello che le doveva apparire il partito giusto: il nobile Pamphilio della potente famiglia Pamphilj, più vecchio di lei di trent’anni, che ebbe il buon gusto di morire pochi anni dopo lasciandola ricca vedova.
Da qui cominciò la sua scalata. In pochi anni divenne non solo la donna, ma addirittura la personalità più potente e temuta a Roma, una vera e propria terribile “papessa”, capace di fare e disfare cardinali e papi, di far nominare vescovo il padre e cardinale il figlio, di dirigere la Chiesa e lo Stato del Papa attraverso il fratello del defunto marito, Giovanni Battista Pamphilj (papa Innocenzo X), un grande pontefice che pendeva dalle sue labbra e l’aveva come consigliera, e in gioventù, pare, anche come amante. Anzi, sembra che la lungimirante e decisionista Olimpia, l’unica a “portare i pantaloni” nella molle Curia romana, avesse perfino aiutato il cognato nella carriera ecclesiastica. Donna sicuramente di genio, sia pure con risvolti malefici, Olimpia fu abile non solo nell’usare uomini e donne come pedine di un suo gioco diabolico, ma anche nell’arricchirsi con le eredità, manipolando volontà, depredando tesori, e ricorrendo regolarmente anche alla vendita di raccomandazioni e benefici ecclesiastici (questi ultimi calcolati in 500.000 scudi d’oro). Insomma, un’anticipatrice, per conto proprio, dell’attuale tendenza economica dei Governi al più cinico “fare cassa”, svendendo un po’ di tutto. Morto il papa, però, e una volta svelati i suoi intrighi, il successore di Innocenzo X la esiliò. Ma alla morte di Olimpia, nel 1657, il notaio rese noto che aveva lasciato in eredità ben 2 milioni di scudi d’oro.
LA SATIRA POPOLARE CONTRO LA DONNACCIA. Il popolo le aveva attribuito già in vita ogni nefandezza, trasformandola da defunta in un fantasma, l’unico fantasma di Roma, come ha scritto Adele Cambria. E in effetti Donna Olimpia che fugge di notte in una nera carrozza in fiamme portando con sé tutto l’oro accumulato, finché i cavalli indiavolati vanno a gettarsi con lei e le sue ricchezze nel Tevere, è una drammatica raffigurazione romantica della Nèmesi storica, così come la poteva vedere il popolino romano.
La sua avidità, ingratitudine e crudeltà arrivarono al punto da spingerla ad impossessarsi perfino degli averi del papa appena deceduto, proprio il papa che si era fidato solo di lei, l'aveva protetta e resa tanto potente. Ora che non poteva essergli più utile abbandonò il suo cadavere. Per i funerali dovettero tassarsi di tasca propria alcuni monsignori di Curia.
La satira, naturalmente, si scatenò, e nessuna donna, anzi nessun personaggio romano, fu mai bersaglio di critiche e irrisioni più crude. A leggere i biglietti sulla statua del Pasquino, era la famigerata “Pimpaccia di piazza Navona”. E il nomignolo restò, fino a diventare proverbiale. Il suo nome, Olimpia (“Pimpa” in diminutivo romanesco), divenne pretesto per un efficace anagramma di qualche chierico latinista: “olim pia, nunc impia”, cioè un tempo pia, ora empia. Fu “un maschio vestito da donna” per la città di Roma, ma per la Chiesa “una donna vestita da maschio”, si leggeva negli epigrammi.
Veniva presa a pretesto anche la sua sessualità senza scrupoli, di volta in volta per arrivare al potere, per ereditare o per il puro piacere. Imitando le targhe che a Roma ricordano nel Centro storico le piene del Tevere, qualcuno la raffigurò nuda, una mano con l’indice puntato sul basso ventre, e la scritta uguale a quella delle inondazioni: “Fin qui arrivò Fiume”. Ma non era il Tevere, era il suo maestro di camera, un certo cavalier Fiume, con il quale se la intendeva.
MACCHE’, LA PAPESSA VA RIVALUTATA. Ma una figura così carismatica come quella della diabolica Donna Olimpia non può essere solo negativa. Ci devono per forza essere lati positivi. Sarà stata autoritaria, avida, crudele e bizzosa quanto si vuole, però è stata sicuramente una donna intelligentissima e versatile. Capace non solo di comandare agli uomini, e agli uomini potenti, ma anche di dirigere e consigliare in tutto uno dei papi più illuminati e attivi della storia della Chiesa. Altro che l'effimera o storicamente incerta papessa Giovanna. La "papessa" vera fu Olimpia Pamphilj, che dopo secoli di ingiurie conosce ora una seconda vita piena di riconoscimenti, se non di elogi. C’è chi, per dirne una, ne fa una sorta di eroina femminista ante litteram. Di sicuro, ebbe il merito di immettere vitalità e intelligenza nell’addormentata Curia romana, come adombrava la satira del “maschio vestito da donna” in Curia. La nota scrittrice femminista Adele Cambria sembra prendere donna Olimpia in simpatia attribuendole le virtù carismatiche della "donna di potere", cioè capace di imporsi sui maschi, e della donna che sfida le convenzioni col suo atteggiamento anticonformista. Tanto da sottolineare positivamente perfino un settore particolare del suo smodato senso degli affari molto criticato ai suoi tempi. Ripercorrendo le orme dell’imperatore e affarista Vespasiano (“pecunia non olet”, il denaro non ha odore, avrebbe risposto a chi lo rimproverava di far soldi con le latrine), la “Pimpaccia” sembra che riscuotesse personalmente le tasse dei bordelli. Tanto, si sa, “tra puttana e puttana” si intendono, avrebbe potuto commentare qualcuno del popolo. Ma almeno, “senza ostentare false pruderie da signora virtuosa”, aggiunge la savia Cambria. Infatti, aggiunge, “Donna Olimpia dava protezione alle prostitute, portandosele dietro in carrozza nei cortei solenni”. Come fare più contenta una femminista storica?
BRUTTURE DI IERI O DI OGGI? MEGLIO LE PRIME. Ecco la storia colorita a forti tinte di piazza Navona. E viste le sue vergogne moderne, “inutili” a differenza di quelle antiche, e dunque ingiustificabili e in contrasto vergognoso con la bellezza della piazza e di Roma, dal mercatino natalizio di plastica ai pittori di croste di cattivo gusto per turisti di bocca buona, agli invadenti tavoli di bar e ristoranti dove si mangia male e a caro prezzo, fino agli assordanti comizi politici e concerti di musica pop, tutti sconci che neanche il sindaco Argan, che era un critico d’arte, riuscì a vietare, nonostante i propositi (e noi della Lega Naturista gli avevamo inviato una lettera-denuncia), ecco che le “necessarie” vergogne antiche della piazza, come la sporcizia del mercato, la spocchia dei nobili, il palco della tortura, gli intrighi tra potenti, le invidie tra architetti, le inzaccherature e gli scherzi acquatici dei bulli, e le crudeli ambizioni della Pimpaccia, ci sembrano oggi poca cosa, e al posto del cattivo gusto moderno, anzi, danno gusto, fanno da piccante pepe culturale alla Storia di Roma.
Di papa Innocenzo X si parla anche nell'articolo dedicato ad un'altra "papessa", la papessa Giovanna, a proposito dell'increscioso "esame" manuale della sedia forata (escretoria) effettuato, secondo un testimone dell'epoca, alla sua incoronazione.