http://www2.regione.veneto.it/videoinf/gio...9/forchetta.htmLa forchetta, da posata stravagante a strumento per mangiar civilmente
Esistono oggetti di uso comune che nessuno mai penserebbe possano essere stati di difficile e tormentata scoperta di questa nostra umanità pur così inventiva. Così come parrà difficile credere che gli Amerindi, all’arrivo di Colombo, non conoscessero l’uso della ruota, altrettanto risulterà difficile pensare che l’uso della forchetta, così come la conosciamo, fosse praticamente sconosciuto in Occidente almeno fino all’anno 1000.
La forchetta era sconosciuta agli antichi Greci ed ai Romani i quali mangiavano con le mani aiutandosi, tutt’al più, con dei coltelli o con altri strumenti vagamente rassomiglianti ai cucchiai. In questa situazione il confine che separava il commensale raffinato dal villano era unicamente il lavarsi più volte le mani, prima, durante e dopo i pasti, per togliersi l’untume dei cibi mentre, per asciugarsele (essendo del tutto sconosciuti anche i tovaglioli) si ricorreva alla mollica di pane oppure ad una speciale farina detergente.
In cucina, per la verità, si usavano degli enormi forchettoni a due punte, derivati evidentemente dai più antichi spiedi, ma il pur semplice passaggio dal forchettone ad un analogo strumento di dimensioni più ridotte non era stato affatto concepito.
Siamo a questo punto giunti all’epoca di Roma imperiale e, nonostante quel che si diceva prima, per evitare di sporcarsi troppo le mani, o di scottarsi i polpastrelli con il cibo caldo, in luogo della forchetta s’invitarono…..i ditali. Questi, per la verità, confinati all’uso dei nobili e patrizi più stravaganti, furono considerati un passo avanti rispetto agli espedienti più vari che venivano adottati per indurire la pelle dei polpastrelli in modo da portare il cibo alla bocca senza soffrire troppo per il loro calore.
La scoperta della forchetta, incredibilmente, continua a venir rinviato nonostante che, in tarda età imperiale, fossero comparsi piccoli attrezzi, ad una o due punte, chiamati “ligula” o “lingula”, che servivano esclusivamente per infilzare i datteri o piccole golosità al miele. I primi esemplari di questi oggetti avevano la forma di una piccola lancia e si presentavano leggermente concavi, con una vaga rassomiglianza con il cucchiaio.
Con la decadenza dell’impero d’Occidente anche questa piccola invenzione venne sommersa dagli usi barbarici che ne seguirono, ma ne persistette l’uso nell’impero d’Oriente come testimonia la storia della principessa Maria, nipote degli imperatori regnanti (in quel tempo si usava anche condividere il trono) Basilio II e Costantino VIII.
Questa principessa andò sposa, probabilmente nell’anno 1003, al diciannovenne Giovanni, figlio del doge veneziano Pietro Orseolo II, ed egli pure associato al dogado, così com’era facoltà in quel periodo. La giovane principessa e dogaressa fece giungere da Bisanzio i propri bauli colmi di oggetti dotali e, con essi, giunse anche una piccola forchetta d’oro a due rebbi che la giovane maneggiava con disinvoltura per portare il cibo alla bocca. Apriti cielo! Questa “stravaganza”, accompagnata alla diceria che usasse lavarsi solo con acqua di rugiada, le alienò le simpatie dei veneziani e, soprattutto, del clero che, dal pulpito, si scagliò contro l’arnese infernale ritenuto tale perché dotato di due corna così come si raffigurava il diavolo.
Per l’occasione si scatena anche lo sdegno di Pier Damiani (monaco fatto santo!) celebre per aver sostenuto la supremazia della religione sulla scienza, il quale condonò senza appello la povera donna per i suoi istinti peccaminosi e demoniaci. La storia ci tramanda un passo dello scritto di Pier Damiani la cui rilettura non può che risultare di particolare interesse ed amenità. Così diceva il monaco: “tale era la lussuria delle sue abitudini che disdegnava perfino dilavarsi nell’acqua e costringeva i suoi servitori a raccogliere la rugiada che cadeva dal cielo per farvi il bagno. E neppure si degnava di toccare il cibo con le dita, ma ordinava ai suoi eunuchi di tagliarlo in piccoli pezzi, nei quali conficcava un certo strumento d’oro con due rebbi e così se li portava alla bocca. L’aria delle sue stanze era pesante per l’incenso e altri profumi tanto che per me è nauseante parlarne e i miei lettori forse stenteranno a crederlo. Ma la vanità di questa donna era odiosa a Dio Onnipossente; e così, senza dubbio, egli prese la sua vendetta. Perché egli alzò su di lei la spada della Sua divina giustizia, cosicchè tutto il suo corpo imputridì e tutte le sue membra cominciarono a disseccarsi, riempiendo la sua camera da letto di un odore insopportabile, tanto che nessuno – non una serva e neppure una schiava – poteva resistere a quel terribile attacco alle narici; eccetto una ragazza di servizio che, con lo aiuto di misure aromatiche, rimase coscienziosamente a fare il suo dovere. Ma persino lei poteva avvicinarsi in fretta alla sua padrona e poi ritirarsi immediatamente. Poi, dopo un lento declino e tormenti angosciosi, con il felice sollievo dei suoi amici, ella esalò l’ultimo respiro”.
Giovanni Orseolo e sua moglie morirono a sedici giorni di distacco l’uno dall’altra a causa della peste e furono sepolti in una unica tomba nella chiesa di san Zaccaria a Venezia.
Potrebbe darsi che Pier Damiani non fosse a conoscenza della peste oppure, essendolo, l’abbia ignorata per la comoda ragione che avrebbe rovinato la sua storia della reclamata ed ottenuta punizione divina. Tracce degli usi e dei costumi dell’epoca emergono da preziosi scritti di autori dell’epoca. Ad esempio, Brunetto Latini, l’apprezzato maestro di Dante, ammoniva: “E quando siedi a mensa non fare un laido piglio!”, alludendo all’uso piuttosto spicciativo delle mani.
Di rincalzo, un poeta del tempo raccomandava ai cavalieri che avessero avuto occasione di trovarsi a tavola con delle dame, di non metterle in imbarazzo guardando le loro mani “che soglion vergognare” per l’untume del cibo che toccavano.
Così si può passare facilmente da aneddoto a storia e viceversa.
Fra gli oggetti più preziosi dell’imperatore Carlo V (1500-1558) si contavano una dozzina di forchette mentre, a Parigi, rientra fra le curiosità locali il ristorante “tour D’argent” costruito nel 1582 sulle rovine di un forte, ambiente dove Enrico III di Valois (1551-1589), figlio di Caterina de’Medici, adoperò la forchetta per la prima volta.
L’uso di questa posata era vista non per la sua utilità, ma come forma di civetteria, per non dire mania. Personaggi come lo scrittore Montaigne, ma anche lo stesso Molière, nonché il Re Sole, davano decisa preferenza alle dita piuttosto che alla forchetta. Un celebre dipinto di Ingrès ritrae Luigi XIV e Molière a cena e la tavola era chiaramente imbandita senza forchette; il sovrano venne convinto ad usarle (ma solo nei pranzi ufficiali) solo con il trasferimento della corte a Versailles. Siamo nel 1684.
Come abbiamo visto la forchetta in Francia incontrò notevoli difficoltà ad affermarsi; in Inghilterra rimase del tutto sconosciuta fino al ‘600 mentre in Italia ebbe sorte migliore ma servì anche come mezzo di riconoscimento tra Guelfi e Ghibellini, in tutto divisi dal loro secolare antagonismo. Mentre i primi posavano coltello, cucchiaio e forchetta dalla parte destra, i Ghibellini, per distinguersi, sistemavano la posateria sopra il tondo, nella parte che guarda il centro della tavola, dove oggi usiamo porre le posate da frutta e, se lo facevano, c’è da sperare che dovessero ricavarne una certa soddisfazione!.
Anche gli Austriaci ebbero delle diffidenze nei confronti della forchetta. Neppure un esemplare in legno venne concesso a certi prigionieri considerati pericolosi, come accadde al generale francese Lafayette ed al nostro Silvio Pellico che ebbe ad esclamare in proposito: ”crolla forse la monarchia austriaca se invece di mangiare con le dita lo fo con un pezzo di legno?”.
Le superstizioni religiose opposero la più strenua resistenza all’avanzare del progresso e della forchetta. Fu solo nel 1700 che le autorità ecclesiastiche ripresero in esame la dibattuta questione dell’infernale strumento, così come ritenuto da San Pier Damiani, il cui uso era ancora interdetto fra le mura dei conventi.
Non sappiamo bene come siano andate le cose, se il verdetto fu di assoluzione piena o per mancanza di prove, certo è che solo da allora la forchetta fu ammessa anche nei monasteri.