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I 4000 bimbi italiani rubati e venduti dalla Chiesa in USA dagli anni '50 ai '70, Crimini impuniti: carte false per dichiarare orfani i "figli della colpa"

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view post Posted on 6/1/2024, 10:07

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Storia di John Campitelli, il bambino «rubato» dalla Chiesa Cattolica, che ha passato la vita a cercare la madre biologica
È uno dei 4mila italiani, figli di ragazze madri, che nel Dopoguerra furono «venduti» dalla Chiesa Cattolica a coppie americane. John Campitelli ha passato metà della vita a cercare la sua mamma biologica e oggi si batte per aiutare altri come lui
DI NINA VERDELLI

3 GENNAIO 2024
Chiesa Cattolica
Questo articolo sulla Chiesa Cattolica è pubblicato sul numero 2-3 di Vanity Fair in edicola fino al 16 gennaio 2024

«532. Questo era il mio numero. O meglio: io sono stato questo numero, per due anni e mezzo. Due anni e mezzo in cui venivo preso in braccio solo per il cambio del pannolino, in cui mi mi nutrivo afferrando il biberon che le suore avevano legato alla mia spalla, in cui mi è venuta la testa piatta a furia di essere lasciato tutto il giorno steso in una culla con le sbarre. Guardi, la testa piatta ce l’ho ancora».

Mentre parla, John Campitelli si accarezza la nuca, segno visibile del tempo in cui è stato un bambino invisibile. Ingegnere informatico italo-americano, 60 anni, aveva quattro giorni quando è diventato il numero 532. La sua mamma biologica, Francesca detta Franca, l’ha stretto a sé un’ultima volta, prima di affidarlo alle non amorevoli cure dell’Istituto provinciale per l’infanzia di Torino, il brefotrofio in cui venivano parcheggiati neonati illegittimi, bambini non riconosciuti, figli di ragazze madri non in grado di occuparsene. O, peggio, obbligate a nasconderli.

John Campitelli oggi.

Franca è una di loro: «Era una raccoglitrice di olive in Puglia. Si era innamorata del latifondista: Stefano, uomo piacente e benestante. Una sera lui la accompagna a casa, ma fa una deviazione. Finiscono in un trullo e lei rimane incinta. Lui è sposato con figli e non ha nessuna intenzione riparatrice. All’inizio lei cerca di nascondere la gravidanza alla famiglia: ogni mese, mostra alla madre gli assorbenti usati della sorella. Poi la pancia cresce, e con quella la vergogna. Suo fratello, un carabiniere di stanza al nord, torna a casa e minaccia mio padre: gli voleva addirittura sparare. Anzi, l’ha fatto, ma per fortuna un amico ha deviato il colpo. Gli intima di non farsi mai più rivedere in paese e così mio padre se ne va in Basilicata. Poco dopo lascia la Puglia anche mia madre, costretta dai famigliari a trasferirsi in Piemonte, a partorire in anonimato e ad abbandonare il bambino, cioè io».

Francesca la mamma biologica di John da giovane.

John nasce all’ospedale Sant’Anna di Torino il 23 settembre 1963. Nome all’anagrafe: Piero Davi. Generalità della madre: «Donna che non consente di essere nominata». Per tre giorni Franca lo coccola e lo allatta. Poi, tra le lacrime, lo consegna al brefotrofio. Ma non perde la speranza di poterlo rivedere: non riparte subito per la Puglia, trova un lavoro in città come tata e, regolarmente, va a bussare alle porte dell’istituto. Infastidite dalla sua insistenza, a un certo punto le suore le suggeriscono di mettersi il cuore in pace, suo figlio è stato adottato. Mentono: passeranno altri due anni prima che Piero, alias 532, venga spedito a New York e diventi John Pierre, figlio degli americani Barbara e Russell Campitelli.

John è uno dei 4mila bambini italiani che, dagli anni ’50 ai ’70, sono stati sottratti alle madri, spesso con l’inganno, e dati in adozione, previa lauta donazione, a famiglie statunitensi che promettevano di crescerli nella fede cattolica. Il tutto con la complicità del Vaticano che, violando la legge italiana, etichettava come «orfani di guerra», e poi semplicemente come «orfani», bambini che orfani non erano. Come racconta Maria Laurino ne Il prezzo degli innocenti (Longanesi 2023), due erano i burattinai: a Roma, monsignor Andrew P. Landi gestiva il programma guidato da monsignor Ferdinando Baldelli, vicino a papa Pio XII; a New York, monsignor Emil N. Komora collocava i piccoli espatriati su tutto il territorio nazionale.

Monsignor Andrew P. Landi che da Roma gestiva le adozioni dei bambini italiani in America.

Una pratica simile si è registrata in Irlanda, con 2200 bambini «rubati», e in Belgio, dove si arriva a 30mila, come denuncia il podcast Kinderen van de Kerk (Figli della Chiesa), pubblicato pochi giorni fa dal quotidiano Het Laatste Nieuws. Il meccanismo era simile nei tre Paesi, impoveriti dalla guerra e piagati da un sistema patriarcale che vietava aborto e contraccezione, e stigmatizzava il concepimento fuori dal matrimonio. Per alcune delle figure coinvolte – suore, assistenti sociali – l’intento era caritatevole: regalare una vita migliore ai «figli del peccato». Per altri, lo scopo era politico: la Chiesa Cattolica voleva evitare che i ragazzi abbandonati andassero, un domani, a ingrossare le fila del Partito comunista. Per altri ancora si trattava di un business crudele: alle madri si diceva che il bambino era nato morto, oppure le si convinceva a firmare documenti per affidi provvisori, che invece si rivelavano adozioni definitive. E profittevoli: «Oltre ai 75 dollari per ogni mese trascorso in brefotrofio, 50 per i vestiti, 280 per il viaggio, i miei genitori adottivi hanno passato all’istituto almeno 2mila dollari di allora, sotto forma di donazioni non registrate». Il tutto, oggi, ammonterebbe a circa 70mila euro.

Negli anni, il meccanismo è stato perfezionato con malizia machiavellica: «All’istituto c’erano bambini di serie A e di serie B. I migliori, cioè i più piccoli, i più bellini e sani, venivano selezionati per essere spediti oltreoceano. La scelta era suggellata da una gita per scattare le fototessere. Quello era il punto di non ritorno: significava che la burocrazia per il trasferimento era stata avviata e che l’imbarco su un volo di linea per New York, e da lì per chissà dove, era solo questione di tempo».

John atterra a Manhattan che non ha neanche tre anni. Lo accolgono papà Russell, italoamericano professore di arte alla Nyu, mamma Barbara, tessitrice, e due fratelli gemelli, Paul e David, anche loro adottati dal medesimo brefotrofio. Poco dopo, sempre da Torino, li raggiungerà Sara. La famiglia Campitelli trascorre i primi anni in una fattoria a Poughkeepsie, a nord di New York, all’insegna della libertà («avevamo spazi infiniti per giocare») e della verità: «Ho sempre saputo di essere stato adottato. Tutte le sere, i miei genitori mi leggevano la favola di un anatroccolo nero in mezzo agli anatroccoli bianchi, diverso da loro ma non meno desiderato». E in effetti era così, John era molto amato, e anche lui amava molto, solo che faticava a dimostrarlo: «Abbandonato una volta, inconsciamente temevo che potesse capitare di nuovo. Avevo una ferita primaria che non si rimarginava, nonostante le quotidiane iniezioni di affetto. Questo mi ha spinto a cercare la mia famiglia biologica».

A 11 anni, il primo tentativo di mettersi sulle tracce di mamma Franca. A quel tempo, siamo negli anni ’70, la famiglia dall’America si era trasferita a Firenze: un giorno John chiede di poter vedere il suo certificato di nascita, memorizza il suo primo nome, Piero Davi. Poi, di nascosto, va negli uffici pubblici della Sip, prende l’elenco telefonico di Torino e comincia a chiamare tutti i Davi che trova. 35 tentativi, zero risultati. Ma non demorde. Le ricerche proseguono negli anni, con sorti altalenanti. Tornato negli Usa, durante gli studi di ingegneria alla Cornell University, John scopre ARPAnet, precursore di Internet, e lo usa per contattare gli atenei italiani nella speranza che «qualcuno conosca qualcuno» che gli possa dare una mano. Niente da fare.

Sarà più fruttuosa, invece, la sua partecipazione, nel 1989, a un convegno dell’American Adoption Congress: lì conosce Diana Smithson, un’altra «italiana d’America», e Florence Fisher, paladina dei diritti delle persone adottate. Con la prima, fonda Italiadoption, associazione che tutt’oggi si occupa di aiutare gli italiani adottati negli Stati Uniti a ricongiungersi con i genitori biologici. Grazie alla seconda, che a lungo aveva scartabellato nell’ufficio di un ente cattolico di New York, comincia a capire una verità semplice: il suo non era un caso eccezionale, lui era uno dei tanti, dei troppi, «bambini rapiti». Fisher, poi, lo esorta anche a superare l’allora diffusa credenza che indagare sulle proprie radici fosse un gesto di ingratitudine verso i genitori adottivi. Per fortuna, Barbara e Russell erano dello stesso avviso: «Mi hanno sempre detto: “Siamo con te”. E l’hanno dimostrato, aiutandomi a scrivere tante delle lettere con cui chiedevo l’autorizzazione per incontrare persone o visionare documenti, luoghi, reperti legati alla mia storia».

John con i genitori adottivi Russell e Barbara Campitelli.
John, infatti, ha impiegato anni a ricomporre, tessera per tessera, il mosaico delle sue origini: nel 1991 ottiene, dall’azienda per cui lavora, un trasferimento temporaneo in Italia dove, ogni giorno, colleziona un nuovo pezzo del puzzle. Va a vedere l’aereo che l’ha portato a New York, contatta gli assistenti sociali che hanno facilitato la sua adozione, incontra l’ostetrica che l’ha messo al mondo, torna al brefotrofio di Torino che, nel contempo, è diventato un centro per persone con disabilità: «Lì ho avuto dei flashback: gli ippocastani nel giardino, i grossi cappelli delle suore, la lanterna a forma di drago che, a lungo, mi ha perseguitato nei sogni». Il pezzo più importante del puzzle, però, lo trova all’ospedale in cui è nato. Forse intenerito dalla sua pervicacia, il direttore sanitario gli dà una dritta fondamentale: «Non devi cercarla in Piemonte, tua madre veniva dal meridione».

John contatta La Repubblica e rilascia un’intervista. Appena l’articolo esce, alla redazione arriva il messaggio che lui aspettava da sempre: «C’è una donna che dice di conoscere tua mamma». Qualche verifica dopo, e arriva il recapito di Franca: «Nel frattempo, la mia permanenza in Italia era terminata ed ero rientrato in America. Compongo il numero in piena notte. Risponde lei, mi sembra di sentire me stesso. Parliamo due ore al telefono, piangiamo. Io voglio saltare sul primo aereo per la Puglia, lei mi frena: era sposata e aveva altri cinque figli. Il marito sapeva tutto, i miei fratelli no. Serviva un po’ di tempo per prepararli». Passano tre mesi in cui la corrispondenza diventa epistolare: il figlio racconta alla madre gli anni passati a cercarla; la madre, gli anni passati a pregare che il Signore li facesse rincontrare.

Un’immaginetta della parrocchia di Grottaglie dove Francesca andava a pregare. Per coincidenza, si chiama Santa Maria in Campitelli.
Poi arriva il gran giorno. John ha 28 anni. «Sull’aereo per Brindisi ero in preda all’ansia. Continuavo a pensare alle parole da dirle. Quando sbarco, al controllo passaporti mi chiedono se sono in Italia per piacere o per lavoro. Rispondo che sono venuto per conoscere mia madre. Il doganiere mi fa sbirciare tra la gente che attende agli arrivi: “La vede?”. Passo tutti in rassegna, poi eccola: l’avrei riconosciuta tra un milione. Esco, le corro incontro. La stringo, mi stringe, in un abbraccio cosmico. Siamo come un sistema solare, diviso troppo a lungo, che finalmente si riunisce. Accanto a lei, per la prima volta, sento i miei vuoti riempirsi». Accanto a lei, per la prima volta, il bambino numero 532 smette di piangere.

John e Francesca durante il loro primo incontro.
 
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view post Posted on 6/1/2024, 10:25

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Vergogna italiana che reclama una commissione di inchiesta indipendente.
 
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