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Provenzano nascosto nel convento dei Frati Minori, Da Barcellona Pozzo di Gotto fece uccidere il medico che l'aveva operato

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view post Posted on 12/2/2022, 09:58

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Da Barcellona Pozzo di Gotto fece uccidere il medico che l'aveva operato

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21 SETTEMBRE 2017
12:35
La misteriosa morte di Attilio Manca: “Ucciso per aver operato Bernardo Provenzano”
Attilio Manca è stato trovato cadavere nella casa di Viterbo nel febbraio 2004. Alcuni mesi prima aveva operato un paziente ricoverato come Gaspare Troia, la cui vera identità era quella del boss Bernardo Provenzano.

La misteriosa morte di Attilio Manca: "Ucciso per aver operato Bernardo Provenzano"
Pubblicato da FabioGiuffrida

“Non vedrò mai la verità su mio figlio, ma i giovani sì, loro la vedranno”
Angelina Manca
Sdraiato a una manciata di chilometri da Messina, vicinissimo a quello Stretto che non è stretto mai abbastanza quando deve unire mandamenti e ‘ndrine, padrini e imprenditori, Barcellona Pozzo di Gotto è un paesone di quarantamila abitanti racchiuso tra i monti e il Tirreno. Per la sua posizione strategica è diventato crocevia di traffici ‘delicati’ tra la Sicilia e il continente. Armi e droga, dicono alcuni magistrati, ma nel paese di Emilio Fede e Domenico Scilitpoti, nessuno vuol sentir parlare di mafia. E nemmeno della permanenza di un certo ‘notabile'.
Zio Binnu

Per un po’ Zio Binnu aveva trovato rifugio nella solitudine nel convento dei Frati Minori di Sant'Antonio, nella città messinese. Voci di paese dicono che per un certo periodo si fosse nascosto anche nella zona della Tùnnaredda, non lontano da Barcellona. All’anagrafe, Bernardo Provenzano, Binnu, l'unico capo della Cupola, benché latitante, dall'arresto di Riina, poteva disporre del territorio come voleva: la mafia messinese era, all'epoca, il vero braccio destro di quella di Corleone. Da dove, se non da Barcellona, era partito il telecomando con cui Giovanni Brusca aveva azionato la carica esplosiva di Capaci? Dopo le stragi di Falcone e Borsellino, ‘U tratturi era diventato il boss intoccabile, unico garante della trattativa che i vertici del Ros avevano avviato con Cosa nostra per mettere fine a quella scia di sangue. Gli attentati erano terminati e Binnu continuava a vivere indisturbato a pochi passi da casa, beneficiando occasionalmente di trasferte all’estero. Tra il luglio del 2003 e il novembre del 2004, infatti, una patologia alla prostata diagnosticatagli da un medico locale lo aveva portato a Marsiglia per un delicato intervento chirurgico. Binnu si era fatto operare alla clinica Casamance di Aubagne, dove era ricoverato sotto il nome di Gaspare Troìa. Qualcuno lo credeva un testimone di giustizia, qualcun altro invece lo aveva riconosciuto, ma tutti sapevano che non dovevano parlarne.

Un professionista stimato
Nello stesso periodo un giovane urologo barcellonese soggiornava in Costa Azzurra per assistere ad un delicato intervento. Attilio Manca non aveva avvertito i colleghi di quel viaggio di lavoro; aveva, però, informato i genitori Gino e Angelina, ai quali telefonava ogni giorno. Non aveva saputo resistere nemmeno durante quel viaggio, tanto era attaccato alla famiglia. Tornato in Italia, il dottore riprese servizio all’ospedale ‘Belcolle' di Viterbo dove lavorava fianco a fianco con il primario Antonio Rizzotto. Al suo ritorno, mamma Angelina, a cui non sfuggiva neanche il minimo cambiamento di umore di quel figlio amorevole e gentile, non poté non notare un velo di tristezza e una vaga inquietudine. Nei suoi soggiorni a Barcellona, Attilio rifiutava di uscire, era ansioso, sfuggente. Un comportamento che diventa apertamente bizzarro quando, il 10 febbraio successivo, Attilio chiama un collega al Belcolle per chiedergli informazioni su come raggiungere via dei Serpenti e piazza del Popolo, a Roma. Due strade che lui, che aveva vissuto nella capitale per dieci anni, conosceva benissimo. L’indomani chiama sua madre a Barcellona chiedendole di far revisionare la moto che ha lasciato nella villa di famiglia a Tonnarella, in vista dell’estate. “Ma Attilio, mancano sei mesi!” gli fa notare perplessa mamma Angelina.

Aneurisma, ma forse no
Il 12 febbraio, mentre è affaccendata a preparare da mangiare nella casa di Barcellona, la signora Manca riceve una notizia scioccante: suo figlio Attilio è morto, sono i parenti a dirglielo mentre lei ha ancora le stoviglie tra le mani. È un sogno, un terribile incubo, sembra tutto irreale. Piatti e bicchieri restano sulla tavola apparecchiata, i Manca si mettono in viaggio per Viterbo, si muovono meccanicamente, senza capire cosa stiano facendo. A Viterbo Angelina chiede di vedere suo figlio, ma i medici la dissuadono: “Non è un bello spettacolo”. Perché non è un ‘bello spettacolo', se è stata una morte naturale? Ma i Manca non ci fanno caso, sono storditi, affranti. Mentre loro rimangono in ospedale, Ugo Manca, cugino di Attilio, fa il suo ingresso negli uffici della polizia locale. Chiede di togliere i sigilli alla casa di Attilio, ha urgenza di entrare, spiega, deve prendere gli indumenti per vestire il corpo. I Manca, però, hanno deciso di vestire Attilio con un abito nuovo. Cosa cerca il cugino Ugo? Perché l'appartamento è stato sequestrato, ma soprattutto, da chi?

Sospetti
Qualcosa non quadra. Il corpo di Attilio non viene restituito alla famiglia, ma lasciato a disposizione di Dalila Ranalletta, il medico legale incaricato di eseguire l'autopsia. La dottoressa, futura consulente di Massimo Bossetti per l'omicidio di Yara Gambirasio, è la moglie del primario con cui lavorava Attilio, il professor Antonio Rizzotto. Strano che l'incarico venga conferito proprio a una persona così vicina al giovane. I Manca, intanto, restano all'oscuro dei vari esami che vengono eseguiti e che giungono, infine, a una conclusione eclatante: la morte è sopraggiunta per overdose. Nonostante l'esame sia stato eseguito in maniera parziale (non è stata determinata neanche l’ora della morte, per la quale restano le sole indicazioni del medico del 118, intervenuto nell’appartamento, ndr) da una scienziata di nota professionalità, si determina che a uccidere Attilio sia stata una dose altissima di eroina che Attilio si sarebbe iniettato da solo.

Il mancinismo imperfetto
La procura di Viterbo apre un’inchiesta sostenendo ciecamente la tesi del suicidio. A nulla valgono gli sforzi dei Manca, che riferiscono che il giovane medico trovato con due buchi sul braccio sinistro, non solo non ha mai mostrato alcuna pulsione suicida, ma di certo non avrebbe potuto uccidersi iniettandosi la droga con la mano destra. Attilio, infatti, era un mancino puro, come confermano in molti. Colleghi, amici e parenti che gli inquirenti rinunciano incredibilmente ad ascoltare, così come i racconti di quanti giurano che Attilio, un medico stimato che conduceva interventi chirurgici di estrema precisione, non faceva uso di eroina.

La rivelazione
Un giorno accade qualcosa di imprevisto, qualcosa che rischiara improvvisamente la nebbia calata dal giorno della morte di Attilio. Angelina Manca si imbatte in un articolo che riporta un'intercettazione riguardante un ‘urologo siciliano' che avrebbe operato Provenzano. In quel momento le torna in mente un episodio avvenuto all'indomani della morte di Attilio, quando al cimitero, in visita alla tomba del figlio incontra Vittorio Coppolino, il papà del migliore amico di suo figlio, che le rivolge una domanda a bruciapelo: “Siete sicuri che Attilio non sia stato ‘suicidato’ perché ha operato Provenzano?”. Nella mente dell’insegnante in pensione, della madre di famiglia, della signora di provincia, si apre uno scenario inimmaginabile: è Attilio il medico di Zio Binnu? I fatti si mettono in ordine uno dietro l’altro: il viaggio in Costa azzurra, il segreto mantenuto coi colleghi, l’inquietudine degli ultimi tempi, la voglia di scappare (“Mi serve la moto di Tonnarella”).

Cugini
Inquietante, in questo quadro, diventa il comportamento di Ugo Manca, il cugino che due mesi prima si era fatto operare di varicocele e ora descriveva Attilio come un drogato; quello che aveva fretta di rientrare nel suo appartamento; quello che dopo i funerali non si era più fatto vivo con i Manca. Il radiologo era all’epoca sotto processo per traffico di stupefacenti dopo che il suo nome era finito nel registro degli indagati nell’ambito della maxi operazione ‘Mare nostrum'. Considerato vicino al boss Pippo Gullotti, Ugo Manca, che verrà poi prosciolto dall'accusa di traffico di droga, era all’epoca ritenuto figura contigua alla mafia.

Il processo (alla vittima)
La procura di Viterbo va avanti nelle indagini mentre i Manca si preparano alla battaglia in tribunale, assistiti dall’avvocato Fabio Repici. Nonostante le istanze del legale, i familiari della vittima vengono clamorosamente esclusi dal procedimento come parte civile. Archiviate, invece, le posizioni degli indagati per istigazione al suicidio, Ugo Manca, Angelo Porcino, pregiudicato dei “Barcellonesi”, Renzo Mondello, Salvatore Fugazzotto e Andrea Pirri sui quali erano inizialmente caduti i sospetti, non vanno neanche a processo.

Cherchez la femme
Allora chi siederà sul banco degli imputati? Esclusi i compaesani in odore di mafia – uno dei quali, Salvatore Fugazzotto aveva telefonato ad Attilio prima della morte – escluso il cugino la cui impronta è stata rinvenuta nel bagno della casa di Viterbo, chi resta? Lei, solo lei, Monica Mileti, 58enne romana conoscente di Attilio, accusata di avergli ceduto le due dosi letali di eroina. Il medico l'aveva incontrata il giorno prima della morte, quello strano 10 febbraio delle telefonate deliranti, poi era tornato a Viterbo. Era stato visto l'ultima volta da un collega intorno alle 20. Ventiquattrore dopo, era morto. Ebbene, per la corte Monica – nel cui appartamento viene trovato un cucchiaino sporco di eroina ritenuto la pistola fumante del caso, ma non gli strumenti per confezionare e spacciare droga – è colpevole. La donna viene condannata a cinque anni per spaccio. Attilio si è suicidato. Sipario.

I pentiti dicono

Ma la storia non finisce qui. Nel 2013 all'assistenza legale dei Manca si unisce un nuovo avvocato: l'ex pm di Palermo, Antonio Ingroia, anche lui convinto che il medico sia stato ucciso perché testimone della latitanza di Provenzano. Un esilio protetto a costo della vita di un professionista, secondo l'ex pm, ma da chi?

È una sfilza di testimonianze di pentiti a tracciare l'identikit dei killer di Attilio. Subito dopo la sua morte, Ciccio Pastoia, consigliori di Provenzano, viene intercettato mentre parla di un urologo ucciso per aver operato Binnu. Pastoia, però, si suicida nel 2005, la sua tomba viene data alle fiamme. Nel 2014 è il boss dei Casalesi, Giuseppe Setola a gettare fasci di luce sulla vicenda. Il pentito del clan del Casertano rivela di aver ricevuto in cella la confidenza di Pippo Gullotti, il quale, nel 2007, gli avrebbe confidato che fu uno dei suoi uomini a uccidere Attilio, simulando un suicidio. Un anno dopo Setola si ‘pente di essersi pentito' e interrompe la collaborazione con la giustizia. Nel 2015, mentre si celebra il processo ‘Borsellino quater', interrogato dall'avvocato Fabio Repici, il pentito Stefano Loverso fornisce un contributo che potrebbe ‘dare luce', come dice, alla morte del dottore. Racconta di una Madonnina con il bambino, un souvenir sacro regalatogli da Provenzano, presumibilmente al ritorno dalla Francia, sul quale potrebbe esserci materiale organico di prova, DNA utile a ricollegare l'operazione alla morte del dottore. La pista non viene seguita.

Nel 2016 una testimonianza altrettanto rilevante arriva dal pentito, Carmelo D’amico, che racconta un incontro durante il quale il medico Salvatore Rugolo, cognato di Pippo Gullotti, gli avrebbe confidato di essere adirato perché Saro Cattafi – l'avvocato Rosario Pio Cattafi finito poi al 41bis e da lì scarcerato – gli avrebbe ‘ucciso' l'amico, Attilio Manca. Una circostanza che purtroppo il Rugolo non può confermare, essendo morto in un misterioso incidente stradale a Tripi, nel 2008. L'ultima testimonianza è quella di Giuseppe Campo, che nel 2016 contatta l'avvocato Antonio Ingroia per informarlo di essere stato avvicinato, nel 2004, dal boss, Umberto Beneduce che gli chiese di diventare uno dei loro uccidendo Attilio Manca, salvo poi annunciargli che ci aveva già pensato uno dei suoi affiliati, Carmelo di Pasquale. Avrebbe agito insieme a Ugo Manca e un terzo uomo.

Attilio dice
Controverse o meno che siano, seguite da ritrattazioni e strani suicidi, le testimonianze sono piuttosto chiare. Certo, la voce di un pentito ha una credibilità che viene messa in discussione di volta in volta, ma quella di un medico? Quella di un professionista stimato, un figlio affettuoso, un uomo per bene, è degna di credito? Attilio, in questa storia, prende la parola come solo dopo la morte si può fare, attraverso ciò che resta e, di lui, restano quelle foto eloquentissime scattate dalla polizia al suo cadavere. Le immagini mostrano un corpo con indosso la sola Tshirt (che fine hanno fatto boxer e pantaloni?), il setto nasale deviato, lo scroto gonfio. È lo stato del corpo di un uomo che è stato percosso, a calci nei genitali e pugni in faccia, verosimilmente, ma non è tutto. Nel suo appartamento sono state trovate solo due siringhe (senza impronte): come può Attilio essersi inoculato la dose con la mano con cui era inabile, aver gettato via l'occorrente per sciogliere l'eroina e preparare le iniezioni ed essersi liberato dei suoi vestiti? La parola di Attilio, quella con cui parla da morto, dovrebbe essere più credibile di qualsiasi congettura.

Il movente
Arriviamo infine all'aspetto più importante: il movente. Chi avrebbe compromesso Attilio se fosse rimasto in vita? Certamente se stesso, avendo operato un latitante, anche se ciò fosse avvenuto sotto costrizione o inganno. Nessuno, tuttavia, avrebbe avuto interesse a ucciderlo per impedirgli di danneggiarsi. Provenzano? Il boss era latitante da tempo nelle terre dove tutti lo conoscevano, c'era dunque un altro cospicuo numero di persone che avrebbero dovuto essere eliminate per essere a conoscenza di quel segreto. A questo proposito è sempre il pentito D'Amico ad arricchire il quadro di particolari interessanti. "Antonino Rotolo (boss del mandamento di Pagliarelli) mi confidò che erano stati i Servizi segreti a individuare Attilio Manca come il medico che avrebbe dovuto curare Provenzano. Rotolo non mi disse chi fosse questo soggetto appartenente ai Servizi ".

Sulla corda
Ammettiamo per un attimo che il pentito dica il vero e tutto coincida: come avrebbe fatto un dirigente del Sisde a mettersi in contatto con Manca? Attraverso quali canali? E se fosse stato tale personaggio delle istituzioni a ordinare la morte di Attilio per insabbiare la protezione di cui il boss godeva da parte di alte cariche dello Stato, come e dove si sarebbe messo in contatto con la mano armata della mafia? La risposta porta dritto a un antico circolo ‘culturale' di Barcellona, l'associazione massonica Corda Fratres, al cui tavolo si erano seduti personaggi come Saro Cattafi e Pippo Gullotti. Era quello il maggior aggregatore di interessi politici, economici e criminali della Sicilia. Nella fratellanza trasversale che unisce giudici e preti, medici e boss, non esistono limiti sociali, tutti sono raggiungibili.

L'epilogo
A tredici anni dai fatti la Procura romana indaga finalmente per omicidio. Nessuno vorrebbe vivere in un Paese di stimati professionisti uccisi da personaggi dei Servizi in combutta con la mafia, di esami medici ciechi e incompleti, indagini pigre o viziate. Dimostrare che non è questo il Paese in cui viviamo, o indagare per farlo, sarebbe un atto da Terza Repubblica. Quella che finalmente si è gettata alle spalle sette e mafie.

http://archivio.antimafiaduemila.com/rasse...ia.html?start=4

Barcellona Pozzo di Gotto, il buco nero del crimine mafioso in Italia - Pagina 5
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Barcellona Pozzo di Gotto, il buco nero del crimine mafioso in Italia
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Ma oltre quello c´é anche un´altra risultanza e questa é addirittura, come dire, inequivoca. Perché data da una fonte assolutamente genuina ed impreparata: un´intercettazione raccolta nell´operazione “Vivaio”, il procedimento riguardante la mafia della discarica di Mazzarrà S. Andrea. Infatti c´é un secondo apparato economico che possiamo dire assolutamente intriseco agli affari di mafia. Chi fa soldi nel ciclo dei rifiuti é la mafia. Uno é il ciclo del cemento, l´altro é il ciclo dei rifiuti e chi formalmente gestisce il ciclo dei rifiuti lo fa per conto della mafia. L´operazione “Vivaio” riguardó il ciclo dei rifiuti della zona di Mazzarrá Sant´Andrea. Fu arrestato pure il cosiddetto “barone”, naturalmente poi scarcerato dal tribunale del riesame, tale Michele Rotella. In quel procedimento fu intercettata la sorella del boss Carmelo Bisognano, la quale, senza sapere naturalmente di essere ascoltata dagli investigatori, confermó il fatto che Bernardo Provenzano era stato latitante in questa zona e di averlo addirittura visto lei stessa. Riferiva della presenza di Provenzano anche a Portorosa.

Dopodiché ci sono dati inconfutabili. Inoltre dobbiamo considerare la situazione circa la mafiositá di questa cittá. Questo non é un modo per dire che tutti i barcellonesi sono mafiosi, perché solitamente parte il refrain “ah si butta fango sulla cittá”. No, sulla cittá fango lo buttano i mafiosi di questa cittá. Ma se per non buttare fango su Barcellona bisognerebbe evitare di parlare dei mafiosi e dei loro potentissimi protettori istituzionali, allora sarebbe meglio sbaraccare e scappare da questo posto. Ma l´unico modo per liberare questa cittá dalla mafia é se possibile additarli sia i mafiosi sia i loro protettori istituzionali. E poiché la cifra mafiosa della cittá é quella che da anni mi ripeto nel raccontare, mi permetto di fare un´altra riflessione. Prendetela con il benificio di inventario dovuto quando si ascoltano le parole di una persona indagata, nel senso che io sono stato querelato per diffamazione, forse mi fa compagnia la signora Angela, da un frate.

Barcellona é una cittá strana. A Villafranca mi ha querelato l´ex sindaco oggi consigliere provinciale dell´UDC Vincenzo La Rosa a proposito dei rapporti che egli servava con l´allora latitante ingegnere Cannata, qui a Barcellona invece mi ha querelato un frate. Io per caritá non sono come dire un praticante, peró ho grande rispetto per le istituzioni religiose e per le singole persone che in quelle istituzioni hanno il loro ruolo. Quindi mi sentirei giá in imbarazzo personalmente ad essere un soggetto querelato da un frate perché l´immagine di un frate che magari uno si fa é quella di una persona che cammina scalzo, bravo, dice la messa, che so. Naturalmente é pure possibile che la persona che mi ha querelato abbia queste caratteristiche e sia una persona strepitosamente di altissima dignitá umana e religiosa, peró ognuno di noi ha un cognome e perdonatemi la dico brutalmente. Al momento in cui il frate che mi querela si chiama Ferro, mi dispiace per lui perché ció che eventualmente ha fatto il padre o li cugino o il fratello non é colpa sua. Stiamo parlando, capirete bene, di uno stretto congiunto di don Antonio Ferro, il piú potente capo mandamento della storia di Cosa Nostra di Canicattí, uno stretto congiunto di Salvatore Ferro, il principale aiutante della latitanza di Bernardo Provenzano, di uno stretto congiunto di Giuseppe, Roberto, Gioacchino Ferro, cioé i successori della garanzia e dell´appoggio della latitanza di Provenzano. Giusto giusto avendo efflato religioso, essendo divenuto frate anziché essere spedito in Alto Agide a fare legittimamente il frate, giusto giusto doveva farlo nel buco nero della criminalitá mafiosa d´Italia. Allora a me, perdonatemi, pare una cosa che non dovrebbe essere consentita, tanto piú non dovrebbe essere consentita se, cosí come é stato e come ognuno di voi ricorderá, prima che ci venisse imposto il film “11 aprile 2006, Montagna dei Cavalli”, una delle principali piste di indagine circa i luoghi nei quali poteva trascorrere la latitanza Bernardo Provenzano erano proprio i conventi. Legittimamente tanti film venivano supposti perché con indagini giudiziarie e giornalistiche tante persone si adoperavano per cercare di capire chi fosse il latitante Bernardo Provenzano, che vita facesse e dove fosse nascosto. Voi sapete esattamente come me che fino al giorno in cui fu arrestato Bernardo Provenzano, una delle principali piste di indagine circa i luoghi nei quali poteva trascorrere la latitanza Bernardo Provenzano erano proprio i conventi. Ora capite che se uno mette assieme queste cose, la conclusione che raggiunge ciascuno non lo so. Io vi dico quella che raggiungo io e cioé che solo a Barcellona poteva stare quel frate il quale probabilmente non ha fatto nulla peró é un uomo della famiglia di sangue piú vicina a Bernardo Provenzano nella storia della sua latitanza.
A questo aggiungo che un qualche cosa dovette succedere nel convento dei frati minori di Barcellona, perché un bel giorno tutti i frati ospiti in quel posto furono trasferiti in blocco e senz´altro un accertamento di polizia giudiziaria in quel luogo fu fatto. Capite allora che i sospetti - io sono giá sospettoso per natura mia - si ingigantiscono.

Aggiungo l´ultima cosa; l´altra volta per battuta ad un amico dicevo che alla luce delle conoscenze odierne quasi quasi bisognerebbe chiedere scusa al piduista Umberto Federico D´Amato dell´Ufficio Affari Riservati perché forse erano quasi una casa di vetro e trasperenza rispetto a certe strutture di investigazione di oggi. Mi riferisco esclusivamente e naturalmente al ROS, il quale ROS é, per quanto é accaduto in provincia di Messina, lo stesso ROS che omise di catturare Santapaola pur avendo in diretta le intercettazioni ambientali di Santapaola e tante altre cose. Al momento in cui gli accertamenti di polizia giudiziaria fatti in quel convento non hanno portato a nessun risultato e tali accertamenti furono fatti dal ROS - proprio da quel ROS - voi capite che sospetto piú sospetto piú sospetto Agatha Christi de “I dieci piccoli indiani” avrebbe scritto la sentenza di Cassazione.
 
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