Laici Libertari Anticlericali Forum

I falsi miti borbonici, dai prigionieri di Fenestrelle ai briganti di Pontelandolfo, La storia reinventata dai nostalgici di una dinastia ignorante, clericale e affamatrice

« Older   Newer »
  Share  
view post Posted on 10/11/2018, 06:37

Group:
Administrator
Posts:
8,011

Status:


La storia reinventata dai nostalgici di una dinastia ignorante, clericale e affamatrice

230201254-adf46137-29ea-416a-bf0d-8cd3ac38ba2b
Fenestrelle

https://torino.repubblica.it/cronaca/2011/...attro-18872501/


Repubblica Torino
27 Febbraio 2017 - Aggiornato Alle 08.54


I morti borbonici a Fenestrelle
non furono 40mila, ma quattro
Una ricerca di Bossuto dai registri parrocchiali del paese ridimensiona le cifre del revisionismo risorgimentale, i cui seguaci si sono ritrovati sabato al Forte per l'annuale cerimonia in ricordo di chi forse non è mai deceduto in quelle carceri
di MASSIMO NOVELLI
I morti borbonici a Fenestrelle non furono 40mila, ma quattro
TRA bandiere neo-borboniche e vessilli leghisti sanato si è reso omaggio a Fenestrelle ai soldati del Regno delle Due Sicilie ""detenuti e defunti" nel forte piemontese a cominciare dalla fine del 1860. Ma quanti furono i "napolitani" e i militi papalini morti di freddo o di fame, di malattie, nelle carceri sabaude? Storici e giornalisti, tanto meridionali quanto padani, hanno addirittura parlato di circa 40 mila vittime. Per Juri Bossuto, invece, già consigliere regionale di Rifondazione comunista e ora volontario proprio a Fenestrelle, che si è recentemente laureato in Giurisprudenza all'Università di Torino con una tesi su questo argomento, i fatti emersi dagli archivi locali e dall'Archivio di Stato torinese "disegnano una fortezza diversa da quella descritta da chi, forse, vorrebbe l'Italia nuovamente divisa in monarchie".
Le sue ricerche, soprattutto, ridimensionano in modo drastico e azzerano, anzi, le cifre spaventose care alla pubblicistica revisionista. Come spiega lui stesso: "Non si sa con esattezza quanti militari borbonici persero la vita al Forte San Carlo. Dai registri parrocchiali, però, precisi e puntuali, ne ho riscontrati davvero pochi. Ho trovato riferimenti a quattro morti nel novembre del 1860, in seguito a malattie polmonari". Aggiunge Bossuto: "I "napoletani" vennero alloggiati nei quartieri militari e nutriti fin da subito. La corrispondenza che ho potuto consultare cita i trasferimenti a Nizza dei prigionieri più anziani e cagionevoli, ma pure la preoccupazione per la nostalgia verso le proprie famiglie provata dai più".
Le nuove rivelazioni sul presunto "lager" dei Savoia, nella ricostruzione di Bossuto e del suo collaboratore Luca Costanzo,, poggiano su un altro punto fermo: "I borbonici furono suddivisi nelle varie compagnie disciplinari, in attesa dell'incorporazione nell'esercito, di lì a poco italiano". Nel dicembre del '60 "vennero trasferiti ai corpi di appartenenza, ed alcuni forse ritornarono al forte vestendo i panni e i gradi dei fanti Cacciatori Franchi. Rimasero alloggiati a Fenestrelle solo alcuni militari, ricoverati in infermeria per il freddo o per la sifilide. I decessi erano regolarmente annotati nei registri parrocchiali e nelle lettere inviate al comando di Torino". Tutto ciò non significa, ovviamente, che il numero dei morti sia limitato ai pochi nominativi di "napolitani" rinvenuti dal ricercatore torinese. Del resto "il vitto, unito al freddo costante della valle, non era sicuramente d'aiuto alla quotidianità dei soldati delle Due Sicilie".
Ma questo, conclude Bossuto, "non può rendere vero quanto è stato scritto, come nel caso di Lorenzo Del Boca, su "chissà quanti morti che neppure avranno registrato!". Sono concetti nati da suggestioni non avvalorate da alcun documento. La storia ci dice che Fenestrelle fu un carcere politico, militare e civile, molto complesso e di non facile vita. La storia documentata fa emergere poi le vicende di uomini e di donne protagonisti di quel luogo, così come il sacrificio di studenti, idealisti, combattenti libertari e prigionieri di guerra. La verità porta onore a tutti i i caduti, le bugie infangano tutti e ogni causa".
Sabato comunque al Forte di Fenestrelle si è celebrata una doppia cerimonia "anti risorgimentale" per i soldati del Regno delle Due Sicilie: la commemorazione dei caduti, con l’affissione di una corona d’alloro alla lapide che li ricorda, seguita da un convegno.

(08 luglio 2011)

https://it.wikipedia.org/wiki/Forte_di_Fen...igione_militare
Prigione militare
Il forte fu anche una prigione militare in cui furono rinchiusi, oltre ai militari che avevano commesso crimini o gravi infrazioni al regolamento, anche i soldati di quegli eserciti che erano stati attaccati dal Regno di Sardegna prima e dal Regno d'Italia in seguito, durante il Risorgimento e i primi decenni del XX secolo; in particolare austriaci ed italiani degli stati preunitari che avevano combattuto durante le guerre d'indipendenza, componenti del disciolto Esercito delle Due Sicilie fatti prigionieri durante gli anni dell'unificazione risorgimentale del Sud Italia, 6 garibaldini in seguito ai falliti tentativi di Garibaldi di occupare lo Stato della Chiesa, 462 soldati dell'Esercito pontificio dopo la presa di Roma, militari austro-ungarici durante la prima guerra mondiale. I detenuti del bagno penale erano reclusi in camerate comuni.

La definizione di Fenestrelle quale "campo di concentramento" da parte di autori revisionisti ha stimolato la ricerca storica da parte di studiosi accademici, che smentiscono gran parte delle accuse presentate da movimenti revisionisti che sarebbero state inverosimilmente ingigantite quando non direttamente inventate.[19]

Lo storico Alessandro Barbero, che ha definito la vicenda di Fenestrelle "un'invenzione storiografica e mediatica", consultando i documenti originali dell'epoca, ha verificato come i prigionieri dell'ex esercito borbonico effettivamente detenuti nel forte furono poco più di mille e di questi solo 4 morirono durante la prigionia. Barbero ha sostenuto quindi: che la fortezza fu solo una delle strutture in cui furono momentaneamente detenuti "anche" militari del Regno delle Due Sicilie; che le condizioni di vita non erano peggiori di quelle degli altri luoghi di detenzione; che la documentazione, sia militare, sia amministrativa, sia parrocchiale, sul numero dei detenuti, sul numero delle morti e loro cause, sulle modalità di seppellimento è ampia e rintracciabile.[20][21][22]

L'affermazione che con la morte i corpi dei detenuti venissero disciolti nella calce viva (collocata in una grande vasca situata nel retro della chiesa del Forte)[23] viene confutata con l'osservazione che la calce viva non fu utilizzata per fare scomparire i prigionieri, in quanto non capace di sciogliere cadaveri; il fatto che essa fosse bensì "posta sui cadaveri era la prassi cui tutte le sepolture dovevano essere soggette per motivi d'igiene, all'epoca"[24]. In sostanza, per Barbero, quanto avvenne a Fenestrelle deve essere molto ridimensionato e, comunque, ancora di più scientificamente studiato, sebbene egli riconosca che tali eventi siano da inquadrarsi nei sussulti, anche dolorosi, del neonato Stato italiano[25].

Juri Bossuto, consigliere regionale piemontese di Rifondazione Comunista, in un libro del 2012 ("Le catene dei Savoia", scritto con Luca Costanzo, Ed. Il Punto) ridimensiona notevolmente il numero delle vittime, riportandone solo quattro nel novembre del 1860 e tende a smentire il maltrattamento ai danni dei prigionieri borbonici, poiché sarebbero stati assistiti con vitto e cure sanitarie.[26][27]

Nonostante l'ampio debunking della vicenda, sulle mura del Forte è stata abusivamente affissa una targa a "ricordo" dei fatti denunciati mentre, nel 2016, il sito monumentale è stato addirittura oggetto di vandalismi ad opera di presunti autori neoborbonici.[28]
 
Top
view post Posted on 2/6/2020, 18:16

Group:
Administrator
Posts:
2,303

Status:


http://www1.adnkronos.com/Archivio/AdnAgen...VOCO_133900.php

GARIBALDI: FU UN NEGRIERO? RISOLTO IL MISTERO, SOLO UN EQUIVOCO
STUDIOSO INGLESE CHIARISCE L'ASPETTO BIOGRAFICO PIU' CONTROVERSO
Roma, 19 nov. - (Adnkronos) - E' stato risolto un mistero della biografia di Giuseppe Garibaldi, che gettava un'inquietante ombra sull'eroe risorgimentale. Il generale della Spedizione dei Mille non fu, infatti, mai un ''negriero'', a dispetto della voce raccolta dal suo primo e piu' noto biografo, Augusto Vittorio Vecchi, che nel 1882 pubblico' ''La vita e le gesta di Giuseppe Garibaldi''. Vecchi scrisse, e mai e' stato smentito, che tra il 1851 e il '53 Garibaldi comando' una barca peruviana, ''El Carmen'', trafficando con schiavi cinesi. A togliere l'infame macchia al patriota italiano per antonomasia e' ora uno studioso inglese Philip Kennet Cowie, autore di un articolo per la ''Rassegna storica del Risorgimento'', diretta dal professor Giuseppe Talamo. E' stato solo un equivoco, afferma Cowie: il biografo Vecchi tradusse in modo sbagliato dallo spagnolo la testimonianza da lui raccolta a Lima dalla viva voce di Pedro De Negri, l'armatore e proprietario del vascello ''El Carmen''.

Nella celebre biografia garibaldina si legge che De Negri avrebbe detto: ''M'ha sempre portati i cinesi nel numero imbarcati e tutti grassi ed in buona salute; perche' li trattava come uomini e non come bestie''. Il professor Cowie, con una ricerca d'archivio nella capitale del Peru', ha accertato che la nave comandata da Garibaldi non aveva mai trasportato cinesi, ma solo carichi di ''cineserie'', soprattutto prodotti tessili. Sulla base degli elenchi relativi agli imbarcati, risulta che sul cargo del ''Carmen'' non erano mai saliti schiavi, ma al massimo ''26 hombres de mar'', cioe' marinai, dei quali almeno sei erano italiani: il vascello non era, infatti, destinato al trasporto dei passeggeri.

Ma allora com'e' stato possibile che Vecchi abbia riferito quelle parole di De Negri, che hanno contribuito ad accreditare l'immagine di Garibaldi come avventuriero capace di qualsiasi espediente per guadagnarsi il pane? E' stato solo un equivoco linguistico, assicura Cowie: il biografo ottocentesco tradusse il termine spagnolo ''chino'', pronunciato dall'armatore, con ''cinesi'', mentre in Peru' all'epoca aveva il significato di indigeno. Secondo la tesi formulata dallo studioso britannico, gli indigeni citati dal proprietario del vascello altri non erano che i marinai peruviani, quindi non schiavi.

(Pam/Zn/Adnkronos)
 
Top
view post Posted on 1/6/2021, 11:19

Group:
Administrator
Posts:
8,011

Status:


https://www.indygesto.com/dossier/12009-qu...haZt46D4UmlEfYY

Querele e social, tre “suddisti” costretti alle scuse
MAGGIO 31, 2021
SAVERIO PALETTA


Raffaele Vescera, Nando Dicè e Antonio Ciano sono finiti a giudizio con l’accusa di aver diffamato l’avvocato e scrittore Josè Mottola. Risultato: hanno dovuto rimangiarsi insulti e insinuazioni. Morale della favola: le multinazionali del web non sono più una zona franca. Neppure per i neoborb

L’episodio in sé è piccolo: tre persone lanciano insulti attraverso Facebook, ricevono (giustamente) una querela e, dopo un decreto di condanna, chiedono scusa per evitare il peggio in una sentenza.

Una storia ordinaria delle intemperanze e delle scostumatezze che avvengono in rete.

Ma se facciamo i nomi dei protagonisti, questo fatto diventa particolarmente pruriginoso.

Josè Mottola, ovvero: il target reattivo
Sono il napoletano Orlando Dicè, detto Nando, leader del movimentino suddista Insorgenza Civile, Antonio Ciano, decano dei revisionisti antirisorgimentali, e Raffaele Vescera, scrittore e giornalista pugliese e animatore delle pagine social legate in maniera più o meno diretta a Pino Aprile (il quale, va detto per dovere di cronaca, in questa vicenda non c’entra perché il fatto è accaduto sulla bacheca di Vescera).

Il bersaglio degli insulti è José Mottola, avvocato del Foro di Bari e cultore di storia appassionato e competente. E proprio questa passione lo ha reso bersaglio degli strali dei tre neoborb.

Vediamo come.

La vicenda risale al 2014, un eone fa considerata la velocità della rete. Quell’anno il dibattito sugli aspetti più controversi dell’Unità nazionale, innescato dal successo di Terroni di Pino Aprile era in fortissima crescita, sia sui media tradizionali sia nel web. Mottola vi aveva partecipato con due libri interessanti: Fanti e briganti nel Sud dopo l’Unità (2012) e Il “primato” del Regno delle Due Sicilie (2014) pubblicati entrambi dall’editore Capone.

L’incidente è avvenuto in seguito a un articolo, È il «sudismo» il problema del Sud, pubblicato da Mottola sul Corriere del Mezzogiorno del 14 marzo 2014, che conteneva una replica a un altro articolo, pubblicato dallo storico Paolo Macry, il quale a sua volta aveva replicato a Pino Aprile.


Raffaele Vescera, il primo tiratore
Fin qui, un’ordinaria querelle a mezzo stampa: Aprile aveva rievocato le presunte atrocità del Regio Esercito impegnato nella repressione del brigantaggio; Macry, nel rispondergli, aveva fatto alcune concessioni alla narrazione neoborb (in particolare, aveva concordato sulla pesantezza a volte eccessiva delle repressioni militari e sulle iniquità sociali scaturite dal processo di unificazione); Mottola, a sua volta, aveva fatto alcune precisazioni, tra l’altro documentatissime: le repressioni militari furono la risposta senz’altro dura e a volte oltre i limiti della legalità alle atrocità commesse dalle bande dei briganti a danno dei soldati e delle stesse popolazioni.

La discussione sarebbe potuta finire qui.

Ma nel 2014 il terronismo era in ascesa e trovava orecchie pronte un po’ dappertutto. Perciò i suoi capofila non avevano messo da parte solo le buone creanze (per le quali, a rivedere alcune polemiche, non risultano troppo portati) ma anche la prudenza.

Infatti, Vescera prende l’articolo di Mottola, lo pubblica sulla propria bacheca Facebook e accompagna il post con un commento pesantissimo, di cui riportiamo gli stralci più significativi:

«Vi è sempre una quota di intellettuali opportunisti passati nelle fila nemiche per denigrare la propria gente, ricevendone in cambio baronie universitarie e prime pagine sui giornali milanesi. E’ il caso di José Mottola, il quale, pur conoscendo la verità (…) giustifica gli scellerati massacri (…) Il negare o minimizzare queste stragi compiute da un esercito regolare non è pari, forse, al negazionismo dei neonazisti ?».


Nando Dicè, il rivoluzionario al babbà
In un colpo solo, Vescera ha attribuito al suo corregionale opportunismo, brame (e risultati) accademici, velleità giornalistiche, fremiti neonazisti e, accusa tipica di certi ambienti, il tradimento del proprio sangue.

Il giornalista foggiano avrebbe fatto meglio ad approfondire un po’ la bibliografia di Mottola, prima di azzardare certi paragoni: si sarebbe accorto che, prima di dedicarsi al brigantaggio e al debunking sui presunti primati duosiciliani, l’avvocato barese aveva pubblicato per Bastogi una biografia di Zygmunt Keltz, un sopravvissuto alla Shoah. Un’iniziativa non proprio da revisionista neonazi.

Ma ormai la frittata era fatta: Dicé aveva pensato bene di dare manforte al giornalista con un commento ultra trash, degno del Monnezza degli anni ruggenti:

«Innanzi a cotanta tracotanza ed ignoranza cazzimmosa, non posso che citare il sommo Confucio: Mapigliatolonculo!».

Ciano, arrivato terzo in tanto raffinato dibattito, ha lanciato una fatwa contro il Corriere del Mezzogiorno e il suo direttore Antonio Polito:

«Questa è solo feccia, dovete boicottare questo giornale. Polito? se lascia pubblicare la Munnezza, ha delle responsabilità».

Antonio Ciano, il “revisionista” decano
Polito, da giornalista di razza, non ha battuto ciglio. Anzi, il 18 marzo successivo ha cavalcato il dibattito con un servizio intitolato Neoborbonici ci scrivono. Per un dibattito senza censure.

Il report è costituito da stralci di mail a dir poco aggressive, con cui vari neoborb avevano inondato la casella del giornale, più un pezzo di Polito, che invitava alla calma e al confronto civile.



Parole al vento: Vescera ha fotografato la pagina del Corriere e quindi ha puntato il dito sulle «farneticazioni giustificazioniste dei massacri piemontesi perpetrati contro i meridionali di José Mottola».

Quanto bastava per colmare la misura: Mottola, infatti, si è rivolto a un suo collega, l’avvocato Federico Straziota, e ha querelato i Tre Moschettieri.

Le indagini sono durate un po’ più a lungo del previsto: la Procura di Napoli, competente su Dicè, e quella di Formia, competente su Ciano, hanno traccheggiato su questioni di competenza territoriale e quindi archiviato.

(Finalmente…) Le scuse di Vescera
Al contrario, quella di Foggia si è attivata nei confronti di Vescera e, per completezza, ha valutato le posizioni degli altri due querelati.

Con un risultato inequivocabile: i Trettrè hanno ricevuto i loro bravi decreti penali di condanna.

Il resto è cronaca: i condannati hanno fatto opposizione e si sono costituiti in giudizio.

Ma di fronte alle balle e agli insulti espliciti non c’è dibattimento che tenga. Per fortuna dei tre, Mottola non è arrivato in fondo e ha accettato le loro scuse, inoltrate a mezzo dei propri legali e ripetute sulle stesse bacheche Facebook in cui anni prima erano volate le pezze.

Giusto una curiosità: per Ciano essere costretto alle scuse non è una novità, visto che già nel 2000 aveva dovuto cospargersi il capo di cenere per evitare una condanna per diffamazione (leggi qui).

Morale della favola: a differenza di chi promette querele con annessa richiesta di lussuosi risarcimenti (da devolvere in beneficienza, si capisce), Mottola la querela l’ha fatta e ha ottenuto la riparazione senza bisogno di infierire, perché, ha spiegato, «in presenza di scuse non vi è più motivo di proseguire azioni legali».

E ha commentato:

«Tengo a sottolineare che l’ordinamento liberaldemocratico – succeduto nel Mezzogiorno a quello assolutista con l’unificazione nazionale nel 1861 – da un lato tutela l’onore e il decoro delle persone dalle aggressioni morali, dall’altro garantisce appieno diritto di critica e libertà di pensiero, non conculcabili con l’uso intimidatorio di azioni giudiziarie».

Una lezione di stile da non sottovalutare e, aggiungiamo, di cui non approfittare troppo.

https://www.indygesto.com/dossier/3507-sto...i-antonio-ciano
Storia e querele, le balle spaziali di Antonio Ciano
NOVEMBRE 14, 2018
SAVERIO PALETTA

2 COMMENTI

Il revisionista Antonio Ciano fu querelato da un erede del sindaco storico di Pontelandolfo per diffamazione proprio per aver scritto cose non vere sulla tragedia del 1861 e fu costretto a chiedere scusa per evitare la condanna. Ciononostante, il tabaccaio-scrittore ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Casalduni e continua coi toni di sfida verso il mondo della cultura…



Paese che vai, usi che trovi. A Pontelandolfo, il piccolo Comune del Beneventano protagonista di uno degli episodi più controversi del brigantaggio, hanno deciso di nominare, a inizio millennio, cittadino onorario Ferdinando Melchiorre Pulzella, un medico di Benevento scomparso nel 2014 alla non tenera età di 91 anni.


IL “REVISIONISTA” ANTONIO CIANO
Quanti bastavano per ricordarsi di un nonno, Lorenzo Melchiorre, che fu sindaco di Pontelandolfo proprio nella terribile estate del 1861, quando il paesino fu prima oggetto delle scorribande dei briganti di Cosimo Giordano, che culminò nel massacro di una colonna di quarantuno militari, tra bersaglieri e carabinieri, e poi del duro intervento dell’Esercito, che provocò un’ulteriore strage di quindici morti tra i paesani.

Melchiorre nipote, che tra l’altro era un appassionato cultore di storia locale, dedicò a fine millennio un libro piuttosto ponderoso a questa tragedia.

Nel vicino Casalduni, anch’esso interessato dal brigantaggio e dalla repressione militare, nel 2016 hanno conferito la cittadinanza onoraria a Povia, il cantante milanese convertitosi alla causa sudista, e ad Antonio Ciano, tabaccaio di Gaeta e, con il suo I Savoia e il massacro del Sud pubblicato in prima edizione nel 1996, si può considerare il precursore dell’odierno revisionismo antirisorgimentale, che ha toccato il massimo successo con la produzione editoriale di Pino Aprile.


LA COPERTINA DEL LIBRO DI ANTONIO CIANO
Una contraddizione non da poco e non solo perché i due, Melchiorre e Ciano, si trovano su barricate opposte, l’uno in quanto discendente ed erede di un esponente della prima classe dirigente liberale dell’Italia unita, l’altro perché a dir poco critico verso il processo storico di unità nazionale.

Infatti, il contrasto non fu solo ideale, ma finì addirittura davanti al Tribunale di Latina, dove Melchiorre trascinò Ciano con l’accusa di aver diffamato il proprio antenato.

Non è il caso di entrare troppo nel merito della vicenda storiografica di Pontelandolfo e Casalduni, tornata ad essere oggetto di cura degli storici e su cui il giornalista, scrittore e studioso Giancristiano Desiderio sta per intervenire con un saggio di prossima pubblicazione. Semmai, val la pena di soffermarsi sul curioso duello giudiziario, che ha il merito quantomeno di consigliare un po’ di prudenza agli storici improvvisati che si dedicano a quel campo impervio che è la storia contemporanea: la diffamazione non riguarda solo i vivi, perché anche i defunti possono avere qualche erede pronto a far valere i diritti all’onore e alla reputazione eventualmente lesi da ricostruzioni fantasiose o tendenziose. O palesemente false, come risulta quella di Ciano sul trapassato sindaco Melchiorre.

Forse proprio con riferimento a questa vicenda, il tabaccaio-scrittore ha dichiarato più volte di essere stato querelato ed stato assolto, per la sola colpa di aver detto cose scomode alla storiografia ufficiale.


LA COPERTINA DEL LIBRO DI MELCHIORRE
Dalla ricostruzione fatta da Melchiorre nipote nel suo Storia dei fatti di Pontelandolfo dell’agosto 1861, uscito in terza edizione nel 2004, risulta altro e quest’altro non risulta smentito: Ciano avrebbe diffamato con l’intento di diffamare, pubblicando cose non vere a carico del sindaco Melchiorre. Per farsi un’idea basta consultare una pagina del sito telefree.it, in cui appare un articolo intitolato L’eccidio di Pontelandolfo e Casalduni di Antonio Ciano, da “I Savoia e il massacro del Sud”.

Per chi vuole approfondire: la pagina web di telefrree.

Occhio alle date: l’articolo di Ciano, in cui sono riportati vari passaggi del libro finito sub judice, risale al 12 aprile del 2007, quindi tutto lascia supporre che questi passaggi, pepatissimi, siano stati tratti dalla prima edizione del libro. Sulle altre edizioni, uscite dalla fine dello scorso decennio in avanti di cui le più recenti curate proprio da Pino Aprile, non c’è da mettere la mano sul fuoco, perché forse emendate.

Ma torniamo al duello nell’aula di giustizia. Questo si concluse l’8 maggio del 2000 con una dichiarazione scritta e firmata, rilasciata da Ciano a Melchiorre davanti al Tribunale penale di Latina, presieduto da Massimo Procaccini e composto dagli a latere Nicola Iansiti e Vincenzo Guercio.

Questa dichiarazione evitò la condanna di Ciano e Melchiorre ritirò la querela accontentandosi della cifra simbolica di una lira a titolo di risarcimento.

Si riporta per intero la dichiarazione, acquisita agli atti del procedimento penale 420/99T:

«Illustre dr Ferdinando Melchiorre,

faccio riferimento al procedimento penale pendente innanzi al Tribunale di Latina, per il quale, come risulta dal capo di imputazione, a seguito della querela da Lei sporta nei miei confronti in data 21 novembre 1996, sono accusato di diffamazione per aver, quale autore del libro “I Savoia e il massacro del Sud”, offeso gravemente la reputazione di Lorenzo Melchiorre, Sindaco di Pontelandolfo nel 1861, attribuendogli comportamenti ed atteggiamenti non rispondenti al vero (PROC. 420/99T).

Accolgo l’invito rivoltomi dall’Ill.mo Signor Presidente del Tribunale e, pertanto, nel formulare le mie formali e più ampie scuse a Lei ed ai discendenti tutti della famiglia del Sindaco di Pontelandolfo nel 1861 Lorenzo Melchiorre, Le dichiaro che ho sì offeso, ma non era nelle mie intenzioni offendere la memoria del defunto Sindaco Melchiorre e dei suoi congiunti e discendenti. Riconosco che le frasi e le espressioni da me riportate nel libro “I Savoia e il massacro del Sud” non compaiono in alcuna delle fonti bibliografiche da Lei riportate in Tribunale, né in alcuna delle 63 opere (testi e riviste storiche) da me indicate nella “Bibliografia” in calce al mio libro, pubblicato nel luglio del 1996, né nella serie di articoli della “Civiltà Cattolica”, che vanno dal 1860 al 1866, né in alcun altro testo in mio possesso e/o da me consultato. Escludo, quindi, nel modo più assoluto, che possano attribuirsi a Lorenzo Melchiorre i comportamenti negativi, da cui la diffamazione, da me esposti nel libro e che in nessuna fonte storiografica sono riportati.



Non è sfuggito alla mia attenzione, e quindi riconosco, che la figura storica di Lorenzo Melchiorre è stata significativa in quanto Sindaco del Comune di Pontelandolfo sia sotto il governo dei Borbone che, poi, sotto il governo post-unitario, avendo il Melchiorre aderito all’idea dell’Unità d’Italia.

L’intento con il quale ho scritto il libro era solo quello di esprimere una forte critica storico-politica dei fattori e degli eventi che portarono all’Unità d’Italia e di sottolineare i forti profili di contrasto tra i rappresentanti del pensiero liberale ed i briganti che vi si opponevano: nella foga della esposizione mi sono invece lasciato imprudentemente andare, nei confronti di Lorenzo Melchiorre, a quegli immotivati ed offensivi giudizi che riconosco privi di fondamento perché non rispondenti al vero.

Nel rinnovarle le mie più profonde scuse per aver inconsapevolmente, quanto imprudentemente, prodotto grave turbamento a Lei ed alla Sua famiglia per quanto ingiustamente attribuito a Lorenzo Melchiorre, L’autorizzo preventivamente alla pubblicazione di questa mia, a mezzo manifesti ed anche su giornali e riviste, in ogni caso quando e dove e con le modalità che riterrà opportune in goni tempo.

Firmato: ANTONIO CIANO».

Non c’è altro da aggiungere: Ciano ammise di aver sbagliato e di averlo fatto quantomeno per sciatteria. Ma ciò che conta è che, senza questa lettera, pubblicata da Melchiorre anche nel suo libro, il tabaccaio-scrittore avrebbe subito una condanna più che sicura, con un risarcimento tutt’altro che simbolico.


PINO APRILE
Non si sa che atteggiamento abbiano tenuto gli eredi di Melchiorre nipote. Sicuramente sono stati più blandi di quelli dello scomparso medico, visto che il tabaccaio ha continuato a scrivere.

Certo è che la sua ricostruzione della tragedia di Pontelandolfo non ha trovato accoglienza né nei libri di Aprile, che da consumato professionista si è ben guardato dal citare una fonte così bruciata, né in quelli di Gennaro De Crescenzo, che si sono limitati a ripetere le cifre iperboliche dei morti riportate senza vaglio critico da Ciano, sebbene la storiografia più accorta le abbia ridimensionate parecchio.


ANTONIO CIANO ELEGANTE
Ma evidentemente gli amministratori dei piccoli Comuni del Sud sono di bocca piuttosto buona e, pur di promuovere i loro territori, desertificati più dalle responsabilità del presente che dai presunti crimini del passato, non vanno per il sottile. Ed ecco che uno storico sedicente e improvvisato può diventare cittadino onorario assieme a una ex gloria della canzone italiana, che ha avuto l’unico merito di mettere in musica certe tesi.
 
Top
view post Posted on 6/4/2022, 08:55

Group:
Administrator
Posts:
8,011

Status:


https://www.indygesto.com/indybooks/320-po...l-falso-dautore
Pontelandolfo, dagli svarioni storici al falso d’autore
LUGLIO 11, 2018
SAVERIO PALETTA

8 COMMENTI


Rate this post
Dopo cinque anni di polemiche, un paese dedica una piazza a un brigante che fu colpevole della strage nel Beneventano



Nelle guerre civili c’è un tratto inquietante, che ritorna sempre: la difficoltà estrema a rintracciare i veri colpevoli degli episodi più cruenti. È capitato per le due terribili vicende, collegate l’una all’altra, di via Rasella e delle Fosse Ardeatine. Capita per episodi più lontani nel tempo: in questo caso, la strage di Pontelandolfo.

La vicenda è piuttosto nota, grazie soprattutto al battage dei revisionisti di ispirazione neoborbonica, che dura dal 2010: due paesi del Benventano, Pontelandolfo e Casalduni, appunto, furono dati alle fiamme il 14 agosto del 1861 dai bersaglieri per rappresaglia, in seguito a un’imboscata in cui caddero 41 militari italiani, tra bersaglieri e carabinieri, andati in esplorazione nei pressi di Pontelandolfo, che era stato occupato dalla banda di briganti Frà Diavolo, comandata da Cosimo Giordano.

Oggi, anche in seguito alla riscoperta della strage di Pontelandolfo, raccontata dai revisionisti come se fosse una prova tecnica di genocidio, Giordano è considerato un eroe in certi ambienti, purtroppo anche politici, ispirati non poco dalla retorica neoborbonica. Infatti, a Cerreto Sannita, il paese che diede i natali al celebre brigante, la giunta comunale, guidata da Pasquale Santagata, ha deciso, oltre un anno fa e a dispetto delle polemiche finite al vaglio della prefettura di Benevento, di dedicare una piazza al brigante.

Questione di punti di vista: se si scorre il casellario giudiziario grazie al quale finì all’ergastolo, si scopre che Giordano fu processato e condannato per molti reati simili a quelli dei mafiosi contemporanei: estorsioni, omicidi, anche su commissione, sequestri di persona e via discorrendo. E si scopre pure che Giordano continuò a commettere molti di questi delitti anche quando la fase calda, più politicamente ispirata, del brigantaggio era cessata. Infatti, il brigante, che aveva un passato da militare come carabiniere a cavallo dell’esercito delle Due Sicilie, fu pizzicato a Marsiglia, dov’era latitante, e processato da una Corte ordinaria, perché, cessata l’emergenza, i suoi erano considerati reati comuni.

Sempre per restare ai punti di vista: per altri, che considerano il brigantaggio come una forma di insorgenza civile (una resistenza, insomma), Giordano è un eroe di cui giustificano tutto, comprese le peggiori atrocità della sua banda.

Tra queste atrocità c’è l’episodio iniziale delle vicende violente che culminarono nell’eccidio di Pontelandolfo e nell’incendio di Casalduni: appunto, il massacro dei militari italiani (e non piemontesi).

Molta della verità storica sta nei documenti conservati nell’archivio parrocchiale di Pontelandolfo e pubblicati nel 2000 da padre Davide Fernando Panella, un religioso che fa lo storico con la stessa passione con si dedica alle cose sacre, cioè con fede, rigore e pignoleria. Da questi documenti risulta che i morti di quel terribile Ferragosto furono 13 e non le migliaia vagheggiate dai revisionisti antirisorgimentali. La tragedia c’è, ma l’ordine di grandezza è diverso. Ciononostante, molti media hanno insistito sull’ipotesi, piuttosto inverosimile del genocidio. Vi hanno insistito, per un certo periodo, anche testate serie, come il Corriere del Mezzogiorno, dove Pino Aprile e le sue tesi erano ben ospitati.

In tutto questo, sorge spontanea la domanda: perché questa ossessione coi numeri di una strage, che comunque ci fu, di 155 anni fa?

I numeri sono tutto in questi casi: se le vittime della rappresaglia furono nell’ordine delle migliaia, l’eccidio di Pontelandolfo è stato per davvero un massacro infame dell’esercito italiano e Giordano e chi per lui era l’eroe che si opponeva a tutto questo. Se i morti, invece, sono calcolabili nell’ordine delle decine, emerge la realtà più complessa di una guerra civile, in cui è difficile distinguere i buoni dai cattivi e in cui, senza nulla togliere al dolore di nessuno, emerge un dato: il maggior numero di vittime fu quello subito dall’esercito italiano (e non piemontese). Emerge anche che i briganti, dopo aver occupato Pontelandolfo e Casalduni, si ritirarono sull’Appennino e lasciarono soli i due paesi che li avevano accolti. Un comportamento non proprio eroico…

Ora, visto che nessuno ha smentito i dati di padre Panella, occorre farsi un’altra domanda: come mai si è insistito in questo falso storico?

La colpa principale è, naturalmente, dei media, compreso il Corriere del Mezzogiorno, a cui si può imputare un errore in buonafede, commesso per ossequio professionale nei riguardi di Pino Aprile e Gigi Di Fiore (al contrario, resta censurabilissimo il comportamento della Gazzetta del Mezzogiorno, orchestrato, parrebbe, dal suo ex direttore Lino Patruno).

Su questa vicenda, infatti, sono state dette un sacco di balle. La più grossa l’ha sparata Aprile, secondo cui il massacro di Pontelandolfo sarebbe stato addirittura quasi occultato dalla cultura ufficiale.

Per smentire, basta sfogliare la Storia del brigantaggio dopo l’Unità di Franco Molfese, un classico sull’argomento: tra pagina 99 e 100 (il riferimento è all’ultima edizione del 2012, curata da West Indian) c’è un riferimento alla vicenda che prova come sin dagli anni ’50 le problematiche del brigantaggio fossero pane quotidiano per gli storici. Celebre è anche il richiamo fatto dagli Stormy Six, rockband milanese piuttosto nota nella scena underground italiana degli anni ’70. Infine, le ricerche di padre Panella risalgono a tempi non sospetti: il 2000, quando le polemiche editorial-commerciali del 150 dell’Unità d’Italia erano lì da venire e il dibattito era riservato agli studiosi, visto che il peso dei movimenti neoborbonici era minimo.

A parlare di questa tragedia nei termini deformanti del tentato genocidio erano autori come Carlo Alianello, noti soprattutto a nicchie ridotte di lettori.

Lo slancio è stato propiziato da certa stampa, anche griffata, che ha fiutato l’affare: per vendere qualche copia in più o per tamponare la crisi della carta stampata molte firme illustri hanno pensato di infilarsi nel filone del sudismo 2.0 (sarebbe un’offesa al meridionalismo considerare meridionalisti certi revisionisti) e di vellicare i bassi istinti di alcuni settori dell’opinione pubblica del Mezzogiorno.

Alla fiera degli svarioni storici hanno partecipato in tanti: tra questi Paolo Mieli, che ha preso per buona sulle colonne del Corsera l’ipotesi del migliaio di morti. Il tutto nell’indifferenza dei direttori di testata. Ed ecco che, sulla scia dell’onda emotiva creata da questo battage mediatico, anche Giuliano Amato, all’epoca responsabile delle celebrazioni del 150esimo dall’Unità, ha preso per buona la tesi genocida e ha chiesto scusa ai pontelandolfesi a nome dell’Italia.



Intendiamoci: ha fatto comunque bene, perché i 13 morti erano inermi vittime civili di una rappresaglia militari. Ma aver chiesto scusa per migliaia di morti, che quel 14 agosto non ci furono, resta gravissimo: significa che un uomo delle istituzioni ammette colpe che non esistono.

Proprio questa vicenda ha consentito di risolvere l’equivoco, generato da un grave squilibrio: mentre i ricercatori scrupolosi come padre Panella, amanti più della verità che delle vendite, hanno a disposizione piccoli editori dai mezzi limitati, la pattuglia neoborbonica ha impazzato a lungo nell’editoria mainstream, che ha fornito megafoni altrimenti insperati e di sicuro immeritati. Per questo, a fianco del religioso, è intervenuto Mario Pedicini, già provveditore agli studi di Benevento e funzionario vecchia maniera, tutto rigore, precisione e, visto che siamo in Campania, cazzimma. Dopo aver bussato invano ad Antonio Polito, che all’epoca dirigeva il Corriere del Mezzogiorno dopo aver mollato Il Riformista per ottenere spazio a favore delle ricerche di padre Panella, Pedicini si rivolge a una firma di primo piano: Giancristiano Desiderio, giornalista e studioso di vaglia. Desiderio pubblica un articolo chiarificatore l’11 marzo 2014 e, cosa curiosa, dal Corriere sparisce letteralmente la firma di Aprile, che pure vi figurava come ospite più che gradito.

A leggere con una certa malignità i risvolti di questa vicenda, si possono cogliere alcuni dettagli di certe logiche perverse che impazzano sulla stampa di largo consumo: forse Polito, uscito non benissimo dall’esperienza de Il Riformista, non si sentiva abbastanza forte da contraddire firme blasonate come Aprile, Mieli o Di Fiore; oppure il neodirettore, distratto da altro, si preoccupava più di controllare i corrispondenti e i redattori, che fanno i conti in tasca ai vivi e rischiano le querele, mentre i morti non querelano; o infine, è stato semplice disinteresse perché il Corriere del Mezzogiorno era, per Polito, solo la tappa intermedia per arrivare ai vertici del Corsera. Difficile scegliere tra queste tre ipotesi, una meno lusinghiera dell’altra. Fatto sta che il mostro è stato creato prima dal web e poi dalla stampa. E per mostro non si intende la collezione di svarioni storici, che hanno fatto fare ai giornalisti che li hanno propagati la figura dei calzolai che vanno oltre la scarpa, ma l’aver soffiato sul fuoco delle frustrazioni del Sud.



Per fortuna la verità si è vendicata con un contrappasso beffardo: cioè attraverso l’opera di un religioso, alla faccia dei neoborbonici che cercano di cattivarsi a suon di preghiere il favore della Chiesa. Pregano, pregano sempre, senza rendersi conto che il Padre Eterno, nella Sua infinita tolleranza, sa distinguere la preghiera dallo stalking.

È il caso, a proposito di Chiesa, di ricordare a costoro che la Curia si era già espressa sulla tragedia di Pontelandolfo nel lontano 1973, per bocca di monsignor Raffaele Calabria, allora arcivescovo di Benevento: «Noi, stasera, mentre ricordiamo i nostri caduti, proprio in aderenza a questo spirito di comune fratellanza, che la rievocazione storica sottolinea come doveroso, e chiede a noi a gran voce, noi ricorderemo anche gli altri, i cari bersaglieri di Cialdini». Un bel monito a chi macina odio, o no?

Saverio Paletta
 
Top
3 replies since 10/11/2018, 06:26   417 views
  Share