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Farmaci, sperimentazioni ed incidenti mortali, Mente e psiche - Blog - Le Scienze

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Adriano Pacifici1
view post Posted on 23/1/2016, 22:24




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Mente e psiche

Da due giorni a questa parte – da quando cinque volontari sani sottoposti in Francia a uno studio farmacologico di fase 1 sono stati ricoverati con gravi lesioni neurologiche – mi arrivano tramite i social media tante domande: di che farmaco si tratta, come possono accadere incidenti simili e come è possibile prevenirli (se è possibile). Provo a dare qui in pubblico le risposte sulla base delle informazioni finora disponibili, perché magari sono utili anche a chi vuole capire qualcosa di più di quanto è accaduto e non limitarsi a gridare allo scandalo o al complotto di Big Pharma.

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1. Come è possibile che cinque persone giovani e sane si ritrovino in questo stato per aver assunto un farmaco?

Per rispondere mi tocca spiegare, seppure per sommi capi, come si studia un nuovo farmaco. Chi già conosce la ricerca farmacologica può passare alla domanda successiva.

Una volta scoperto che un certo disturbo dipende dal funzionamento di determinate vie metaboliche, chi fa ricerca sui farmaci cerca di identificare una sostanza in grado di interferire con un passaggio chiave del processo. Può farlo attraverso banche dati di molecole già disponibili o attraverso un sistema più complesso chiamato drug design, che permette di creare al computer molecole virtuali che poi vengono sintetizzate in laboratorio e testate. In questo modo si cerca di agire sui sintomi o, meglio, direttamente sulla causa di una malattia.

La sostanza viene valutata dal punto di vista tossicologico sulla base di informazioni già disponibili: vi sono programmi appositi che fanno un primo screening e che sanno che determinate combinazioni o gruppi chimici possono dare effetti collaterali o essere tossici per organi o tessuti. Le sostanze identificate come potenzialmente tossiche vengono eliminate già in questa fase “virtuale”. Quelle che passano l’esame vengono sintetizzate e testate prima in vitro (per esempio su colture cellulari) poi nel modello animale più adeguato.

L’animale è tappa obbligata della ricerca perché una sostanza potrebbe agire in un modo sul tessuto isolato e in un altro in un organismo complesso, magari perché viene metabolizzato dal fegato e dà origine ad altre molecole che sono tossiche, anche se la molecola da cui provengono non lo è. A volte è disponibile un modello animale della malattia o del sintomo che si vuole curare, e in quel caso questa fase fornisce anche informazioni sulla potenziale efficacia come cura.

Solo dopo i test sugli animali si somministra il farmaco a volontari sani (con l’eccezione di alcune molecole che sono tossiche per loro natura, come i chemioterapici che, per evidenti ragioni, vengono testati fin dall’inizio sui malati). È questa la fase 1 in cui sono stati arruolati anche i volontari francesi, il cui scopo non è di valutare l’efficacia della cura ma la velocità con cui la molecola viene metabolizzata dall’organismo (la cosiddetta emivita) e la dose massima oltre la quale compaiono effetti collaterali. In genere la fase 1 coinvolge poche decine di persone.

Se tutto va bene, il farmaco viene somministrato ai malati, per valutarne l’efficacia: prima a piccoli gruppi (fase 2) poi, se non compaiono problemi, anche a gruppi più numerosi (fase 3). Un farmaco impiega circa 10 anni per arrivare dal laboratorio al letto del malato e viene tenuto sotto sorveglianza anche per cinque anni dopo la sua commercializzazione, perché effetti collaterali rari possono emergere solo dopo che molte persone ne hanno fatto uso. Questa è la fase di farmacovigilanza (che in realtà non cessa mai, perché i medici devono segnalare gli effetti collaterali inattesi ogni volta che ne incontrano uno). Vi sono stati diversi casi di farmaci ritirati dal commercio in fase di farmacovigilanza per la comparsa di disturbi in chi li usava: non si tratta di fallimenti della ricerca ma di una inevitabile conseguenza della rarità di certi effetti collaterali, a cui la farmacovigilanza stessa cerca di ovviare.

In fase 1 gli effetti collaterali vengono messi in conto, sebbene lo studio preliminare accurato abbia lo scopo di ridurli al minimo, andando a vedere con attenzione su quali sistemi agisce la nuova cura. Gli imprevisti sono però sempre possibili e, secondo i dati disponibili, compaiono effetti collaterali gravi nello 0,02 per cento di tutte le sperimentazioni di fase 1 (percentuale che comprende anche eventi gravi accaduti durante la somministrazione ma non necessariamente legati agli effetti del farmaco).

2. Perché queste persone si sottopongono alle sperimentazioni?

Partecipare a uno studio di fase 1 è un’attività che in alcuni Paesi (non in Italia) può essere retribuita. Il sito internet francese Breizh Info
ha pubblicato in esclusiva la descrizione e il contratto dello studio che ha provocato l’incidente di Rennes: l’autenticità non è stata confermata dalla casa farmaceutica, ma gli esperti si sono pronunciati positivamente. Pare si tratti di una copia consegnata a un volontario che alla fine è stato scartato.

La retribuzione per i volontari ammonta a 1900 euro per circa due settimane di ricovero, l’assunzione del farmaco a dosi elevate e l’esecuzione di una serie di esami clinici, tra cui ripetuti prelievi ematici. Anche altri Paesi europei accettano che questo impegno venga retribuito, seppure con tetti piuttosto bassi. La possibilità di retribuire i volontari fa discutere, perché rende la partecipazione alle sperimentazioni una forma di guadagno relativamente facile per persone giovani o senza lavoro, sollevando problemi etici. D’altronde anche in Italia, per incentivare la partecipazione, si ricorre a incentivi di tipo non economico (per esempio la concessione di crediti universitari agli studenti che accettano di sottoporsi a test o esperimenti): la scienza non può fare a meno dei volontari sani, e chiamarli cavie umane non rende del tutto giustizia al loro ruolo essenziale.

Nel nostro Paese, comunque, il divieto di retribuire i volontari rende molto difficile il loro reperimento (con l’esclusione di alcune categorie come i malati terminali, per i quali un nuovo farmaco può significare una possibilità in più di vivere un po’ più a lungo), e di fatto gli studi farmacologici di fase 1 sono da noi rarissimi.

3. Perché solo questi cinque stanno male anche se il farmaco è stato assunto da circa 90 persone?

La dinamica non è ancora del tutto chiara, ma sembra che il farmaco sia stato testato in dose singola in circa 90 persone, senza alcun effetto collaterale. Sei persone (le quattro che sono ricoverate con lesioni cerebrali da moderate a gravi, la persona in stato di morte cerebrale che, tra qualche ora, terminato il periodo di osservazione legale, verrà dichiarata ufficialmente morta e quella che per ora sta bene) hanno invece assunto più dosi, per vari giorni consecutivi. È possibile quindi che il danno (al momento sembra si tratti di emorragie cerebrali spontanee) sia l’effetto dell’accumulo della sostanza nell’organismo.

4. In questo farmaco c’è un derivato della cannabis. Anche fumare cannabis può provocare effetti simili?

Nel farmaco testato, contrassegnato dalla sigla BIA 10-2474, non c’è alcun derivato della cannabis. Si tratta di un inibitore delle idrolasi delle ammidi degli acidi grassi (più note con la sigla FAAH), enzimi che nel nostro cervello degradano l’anandamide, un cannabinoide endogeno, ovvero una molecola che agisce sugli stessi recettori su cui agiscono le sostanze attive contenute nella cannabis e che ha la funzione di combattere naturalmente il dolore, l’ansia e l’inappetenza.

Vi sono due diversi tipi di FAAH, l’1 e il 2. La maggior parte dei farmaci antidolorifici in corso di sperimentazione (quindi non solo quello testato in Francia) agiscono su FAAH1, con lo scopo di bloccarne l’azione, evitando così che gli endocannabinoidi vengano eliminati e aumentandone la concentrazione nel cervello. In pratica la speranza di chi sta testando questa categoria di sostanze è quella di utilizzare le molecole antidolorifiche che produciamo naturalmente per combattere i dolori che i farmaci attuali non sono in grado di lenire, in particolare il dolore cronico. In questo modo, tra l’altro, si hanno gli effetti positivi dei cannabinoidi senza avere quelli negativi (per esempio ottundimento e sonnolenza, come accade a chi fa fa ricorso alla cannabis terapeutica).

BIA 10-2474 non è il primo inibitore di FAAH testato sull’uomo: la Pfizer ne ha provato uno, noto con la sigla PF – 0445784 su 77 volontari sani senza effetti collaterali, e su 74 pazienti con artrosi, senza effetti collaterali ma anche, purtroppo, senza efficacia contro il dolore.

Gli inibitori di FAAH possono essere reversibili (cioè bloccare il recettore solo per un breve lasso di tempo) oppure irreversibili (cioè occuparlo a tempo indefinito). Sembra che il farmaco sotto accusa sia di tipo irreversibile, ma non ci sono conferme dalla casa farmaceutica, la portoghese Bial, né dall’azienda Biotrial
incaricata di portare avanti la sperimentazione. Il meccanismo d’azione è quindi del tutto diverso da quella della cannabis e non c’è alcun rischio, per chi ne fa uso, di incorrere in effetti simili.

È bene dire che altre molecole della stessa famiglia di BIA 10-2474 hanno superato senza danni la fase 1 (per esempio IW-6118 è in fase 2 per la cura del dolore dentale, SSR – 411298 ha completato uno studio di fase 2 nella depressione nel 2010 rivelandosi inefficace ma innocua, e ora è allo studio per il dolore da cancro). I ricercatori avevano quindi abbastanza precedenti su cui basarsi per somministrare una molecola analoga nell’uomo senza attendersi grossi guai. Che però sono accaduti.

5. Perché il farmaco ha avuto questo effetto inatteso?

È difficile dirlo, dal momento che mancano informazioni sulla molecola. Le ipotesi più accreditate sono due: una contaminazione della produzione (ovvero qualcosa di tossico che contamina le compresse in fase di fabbricazione) oppure un’azione off-target, ovvero un effetto della molecola stessa su un bersaglio molecolare diverso da quello previsto.

È questa l’ipotesi più accreditata secondo Sir Munir Pirmohamed, vice presidente della sezione clinica della British Pharmacological Society, interpellato dal Science Media Center
di Londra. “ È possibile che il farmaco abbia reagito con un altro enzima, recettore od obiettivo all’interno dell’organismo” ha dichiarato. D’altronde non sarebbe la prima volta che un farmaco disegnato a tavolino per colpire un bersaglio ben preciso riesce a interagire con altri organi o tessuti, in modo del tutto imprevedibile. Una terza ipotesi, per ora esclusa dai medici francesi, è che vi sia stato un errore nella somministrazione e che queste persone abbiano assunto molto più farmaco del previsto.

6. Questo farmaco è stato testato su animali, persino su scimpanzé. Vuol dire che la sperimentazione animale è inutile e non affidabile?

Il malaugurato incidente di Rennes dimostra esattamente l’opposto. Se casi del genere non accadono più spesso è proprio perché i farmaci vengono testati nel modello animale prima che nell’uomo. La molteplicità dei potenziali bersagli di una nuova sostanza non può emergere se non in un organismo completo, mentre non emerge certo né nei modelli simulati al computer né negli studi su singoli tessuti in vitro.

In questo caso specifico sono stati utilizzati addirittura gli scimpanzé. Si tratta di un evento piuttosto raro in quanto la sperimentazione sui primati è severamente regolata e molto costosa. Non sappiamo ancora quali ragioni hanno spinto la casa farmaceutica a ricorrere a un modello tanto complesso invece di accontentarsi di topi o ratti, ma possiamo ipotizzare una spiegazione. I primati hanno una barriera ematoencefalica simile alla nostra (ovvero un sistema di protezione del cervello simile al nostro, che va superato se vogliamo che un farmaco raggiunga l’obiettivo). Inoltre è molto difficile studiare i farmaci per il dolore in animali come i topi, sebbene di norma si faccia, perché il dolore è una sensazione composita, che coinvolge anche strutture cerebrali molto evolute che non tutti gli animali utilizzano come noi. Perché lo studio sugli scimpanzé non sia bastato a evitare il problema, non è possibile dirlo ora: forse il dosaggio usato negli animali era più basso oppure il farmaco agisce in modo inatteso su una via molecolare peculiare, non del tutto sovrapponibile nell’uomo e nel primate.

Edited by Adriano Pacifici1 - 23/1/2016, 23:25
 
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