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La Confraternita del Santo Prepuzio di Viterbo, L'imbroglio dei 12 prepuzi di Cristo dispersi per il mondo.

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GalileoGalilei
view post Posted on 3/11/2010, 11:11 by: GalileoGalilei
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Mazzano Romano. Ancora un documento sul santo prepuzio

Giuseppe De Santis martedì, 2 novembre 2010

*
o Abitare a Mazzano Romano
*
* 1 commento


Tanto per completare le nostre curiosità sulla reliquia del santo prepuzio, custodita a Calcata prima che sparisse misteriosamente (quanto?), riporto il brano del libro “Le chiavi di San Pietro” di Roger Peyrefitte che ho recuperato tra i vecchi libri della mia biblioteca. La visita dei due prelati di cui si parla in questo viaggio a Calcata non era esattamente ispirata a devozione, ma piuttosto da una strana curiosità nonché dalla smania di ricerca di rare reliquie che potessero essere fonte di fruttuosi pellegrinaggi, e quindi di affari.

“”… Un culto nascente non può dar luogo da un giorno all’altro a fruttuosi pellegrinaggi. Ci vorrebbero miracoli più clamorosi di quelli che mi hanno permesso di riuscire. Verranno, non dubitatene. In attesa, ho cercato una reliquia abbandonata, un pellegrinaggio in decadenza a cui ricondurre le folle. Non è cosa facile, credetemi, perché tutte le fonti della pietà sono accuratamente sfruttate. Ma poiché ne vengono create delle nuove, vuol dire che ad alimentarle ci sono acque inesauribili.

Un vecchio libro mi rivelò l’esistenza del santo prepuzio. Ebbi un’illuminazione. Come aveva detto l’arcivescovo di Seleucia d’Isauria, avevo quello che faceva al caso mio: una reliquia di Gesù Cristo a chilometri da Roma, reliquia sconosciuta a tutte le guide. In un paese come l’Italia, dove si ha il culto dei Bambini Gesù miracolosi e dove il turismo è all’agguato delle curiosità religiose, era una miniera d’oro. Continuando a sognare, per quanto sveglio, mi vedevo già cappellano del santo prepuzio. Sarebbe stata una bella conclusione della mia carriera.

«Il giorno dopo partii per Calcata e per prima cosa seppi che la mia chiesa e la mia carica di cappellano erano in pericolo. Il curato mi avvisò che era proibito parlare del santo prepuzio ‘sotto pena di scomunica del Santo Padre, di dannazione eterna ed altre bagattelle’, come diceva Casanova, e che per vederlo ci voleva l’autorizzazione dell’ordinario della diocesi. Né la mia veste di gesuita, né i miei capelli bianchi ottennero eccezione a questa regola. Lo stesso giorno mi recai a Civita Castellana dove l’ordinario, uomo fine ed intelligente, nel consegnarmi l’autorizzazione non poté che confermarmi tutti questi misteri. La visita alla reliquia mi premeva meno del desiderio di emanciparla. Non avevo tempo di tornare a Calcata, che del resto è scomoda da raggiungere, e tornai a Roma. Speravo di superare tutti gli ostacoli grazie al cardinal Canali, con il quale sono in rapporti per il mio domicilio, per fortuna non in Vaticano, ma egli mi ha indirizzato al Santo Uffizio. Il solo risultato è stato l’aggravarsi dei provvedimenti. Non volendo più ricorrere a chi mi ha messo su di una strada sbagliata, vengo a sollecitare al prefetto dei riti, per vostra intercessione, una consolazione: quella di vedere alfine il santo prepuzio»

«E la vostra autorizzazione, padre, non vale più? »

«Per tornare a Calcata, avevo atteso l’esito della mia richiesta, e il curato, in virtù delle nuove istruzioni, ha dichiarato di ritenerla scaduta, perché anteriore. Ammettete che ci sono cose ben custodite. Si direbbe che la salvezza della Santa Romana Chiesa dipenda dal santo prepuzio, come quella di Troia dipendeva dal palladio. Non volevo disturbare I’amabile vescovo e rompermi la testa una terza volta con l’implacabile curato e rimetto quindi nelle vostre giovani mani la sorte della spedizione»

L’abate era combattuto tra la curiosità, l’emozione e lo stupore. Quell’uomo, che non aveva mai visto, gli aveva fatto una simile confessione sul retroscena d’una canonizzazione; il suo stupore era giustificato. Ma il suo caso commuoveva: indovinava le lotte e le angosce di un’esistenza che avevano maturato tale disinvoltura. Era la prima volta che incontrava un vecchio diavolo divenuto eremita.

In una bella mattinata di luglio l’abate Mas e il padre de Trennes si incontrarono alla stazione sotterranea della Roma-Viterbo per andare a Calcata. Vedendo che il giovane francese non. era meno ansioso dell’altro, di contemplare una reliquia che aveva strappato i Papi ad Avignone, il cardinale li aveva raccomandati tutti e due al vescovo di Civita Castellana, che aveva risposto con premura ricordando all’attenzione di Sua Eminenza la causa del venerabile Tenderini. I due viaggiatori si sistemarono I’uno di fronte all’altro in uno scompartimento quasi vuoto. L’abate affettava un certo riserbo; il gesuita era di umore scherzoso e pareva ringiovanito.

«Mi fate venir voglia di cantare, anche se non sono un piccolo cantore dalla croce di legno: II n’est qu’un bien que j’envie:/Je Ie cherche, il me le faut…/ «È il santo prepuzio disse l’abate».

«Naturalmente.»

«Ma il cantico ha altre rime: C’est de voir couler ma vie/ Sous les tenles du Très Haut.

«Lo cantavamo nel collegio della mia gioventù. Sono versi di un poeta cattolico chiamato Dumast, il Claudel dell’epoca, e mi hanno sempre divertito. Sono come un collegiale in vacanza. »

Batté allegramente sulle ginocchia dell’abate, che si tirò un po’ indietro, e gli chiese perché il giorno prima non si fosse fatto vedere all’ambasciata di Francia. L’abate rispose che vivendo senza contatti con la colonia francese, aveva dimenticato la festa nazionale. Aggiunse che aveva però accompagnato il cardinale al ricevimento offerto tre settimane prima per la canonizzazione di san Chanel.

«Non ci sono andato: che cosa me ne importava di un Chanel quando c’era un Giacinto? »

«Non avete perduto niente: tra gli invitati c’era soltanto gente di chiesa e i signori d’Ormesson hanno fatto far Ioro penitenza»

«Ieri avete perduto una bella scenetta: c’era un buflet, come dire, per il comune dei martiri; ma qualcuno in vena di scherzi si è accorto che ce n’era un altro per i santi di prima classe e tutti si sono indignati di tale mancanza di fraternità in un giorno come quello; hanno ristabilito I’eguaglianza non senza far degenerare la libertà in licenza. Sotto i miei occhi stupefatti la scena del pranzo di santa Lucia si svolse come è ,stata descritta in una celebre pagina del presidente des Brosses, il che prova come le ambasciate di Francia non cambino mai. L’assalto fu generale e fu fatta piazza pulita come dopo un’incursione di cavallette; il piatto dell’ambasciatore fu vuotato sotto il suo naso, la tazza dell’ambasciatrice rovesciata nella sua scollatura; la barba del cardinal Tisserant gocciolava gelato, e monsignor Pimprenelle e il suo collega del Laterano si ritrovarono a terra, uno sull’altro, tra i cocci di un vaso di Sèvres.»

Il treno uscì dalla lunga galleria che passa sotto i Monti Parioli. Forse fu la luce viva a ispirare a padre de Trennes la domanda:

« Credete alla purezza? »,

«Ci avete fornito un nuovo santo che ci aiuta a credervi»

«Che bella cosa la purezza! La carne è tanto triste!»

«La chair est triste, hélas! et j’aí lu tous les livres! »

«Non credo abbiate letto Le Paradis des garçons, molto adatto a rallegrare lo spirito, tanto sublima la carne. È un’opera latina di un gesuita del diciassettesimo secolo. Contiene meravigliose storie di una folla di giovani santi e di alcune giovani sante. Ne ho fatto il mio libro de chevet. È diviso in tre parti che ricordano i tre gradi di sant’Ignazio ‘ per la contemplazione destinata ad ottenere I’amore, l’amore divino, beninteso: l’ingresso al paradiso dei ragazzi, i frutteti, le aiuole e gli alberi potati, i segreti interiori. Sentite com’è rapido il preludio:

“Je veux attirer les vieillards,/ Je veux attirer les hommes /Je veux attirer les gargons,/Dans un iardin de roses./Accourez, accourez,/Douce couronne de Petits garçons”

È il compagno cristiano de La Musa puerile di Stratone di Sardi. Che dico? Sembra di ascoltare un’eco di Petronio: ‘Accorrete, accorrete, libertini e cinedi ‘… Questo dimostra ,soltanto che i buoni spiriti si incontrano>

«Il capitolo della purezza ha questa. graziosa introduzione: “I teneri spiriti dei giovani essendo fortemente inclini alla lussuria per la debolezza dell’umana natura, per il prestigio dei desideri che sono maggiori alla loro età, per le imboscate preparate da ogni parte al giglio del loro pudore…” Roba da far venire l’acquolina in bocca ai demoni. Il primo capitolo dell’ingresso al paradiso dei ragazzi si apre proprio sul santo prepuzio-ed è qui che ne ho àppreso la storia, prima di completarla altrove. Ma fra tutti i graziosi racconti di questo libro incantevole, amo quello dei sette baci. Lo si direbbe ricavato dalla Ciropedia. Sant’Emeric, giovanissimo fìglio del re santo Stefano di Ungheria, aveva accompagnato suo padre ad un convento. Si mise a baciare tutti i monaci, alcuni li baciava una volta, altri due o tre e altri quattro o cinque volte. Uno solo, Mauro, venne baciato sette volte di fila. Quando santo Stefano gli chiese perché non li avesse trattati tutti alla stessa stregua, il dolce fanciullo, rispose che Dio gli. Aveva rivelato il grado della loro continenza e li aveva baciati in proporzione: colui che aveva baciato sette volte era vergine. Il beato Pietro del Lussemburgo ci è portato ad esempio per aver fatto voto di verginità all’età di sei anni. Era molto precoce. Ma santa Francesca Romana, ancora in fasce, manifestava un divino pudore: strillava quando la spogliavano e si copriva con le piccole mani. Il capitolo dei portentosi allattamenti dei santi bambini non è meno ammirevole: san Sisia, per penitenza, poppava soltanto a giorni alterni, san Nicola ancora meno. San Roberto e santa Caterina di Svezia, la figlia di santa Brigida, rifiutavano il latte delle loro balie quando avevano peccato. Se pensate che tutto questo è stato scritto per i bambini del diciassettesimo secolo, concluderete che i miei confratelli, con i loro racconti sulla purezza, erano di tre secoli in anticipo sull’educazione sessuale d’oggigiorno.»

Come per cambiare discorso, il padre indicò il paesaggio,dove si succedevano querce, olivi, granturco e vigne. La ferrovia passava accanto alla via Flaminia e si vedevano ogni tanto gli antichi lastroni conservati nel mezzo dell’asfalto. Vicino a quell’ansa del Tevere e alla stazione di Prima Porta c’era l’antica ‘ stazione ‘ romana delle Rocce Rosse. Sulle colline, in mezzo alle borgate, i castelli feudali, i palazzi del Rinascimento e gli edifici nuovi testimoniavano la continuità delle civiltà.

«Salutiamo il Soratte», disse il padre, indicando la montagna che appariva alla destra.

L’abate citò un verso di Orazio. Come si avvicinavano, la montagna pareva mutar forma, a momenti massiccia come un blocco, a momenti allungata in una serie di cime, ma quello che non mutava era la sua aridità, uguale sotto tutti gli aspetti. Qualche albero appariva soltanto lungo la pendice che unisce il Soratte al villaggio di Sant’Oreste, situato su di un’altura vicina il cui nome ricordava all’abate una delle prime serate presso il cardinale. Una linea bianca, tracciata nel fianco della montagna all’altezza del villaggio, segnava. i rifugi che i tedeschi vi avevano scavato undici anni prima.

Padre de Trennes e l’abate Mas erano arrivati. Presero l’autobus che univa la stazione di Rignano a Calcata a quest’ultima situata a sette od otto chilometri di distanza. In una nuvola di polvere essi seguirono la strada incassata, attraverso una campagna ondulata. Calcata sorgeva sulla sommità di un colle all’uscita di una gola. Le sue case grigie dai tetti verdastri si ammassavano su quel cono evocatore circondato da un muro.

«Ci sono luoghi predestinati a certe reliquie », disse il padre.

«Non trovo meno strano che una reliquia così strana sia venuta a finire qui»

« Ricordate il veiso del sonetto in cui s’esprime il crociato appena giunto a Betlemme: Et s’étonnant que Dieu fut allé naître Ià.»

Scesero alla porta del villaggio, sul terrapieno che aveva preso il posto del ponte levatoio. La porta era sormontata da una Madonna e da un blasone. Il campanile merlato della chiesa che vi si appoggiava, pareva una torre di scolta dalla quale le sentinelle del santo prepuzio fossero intente a sorvegliare I’orizzonte. Padre de Trennes si chinò per osservare il borro che circondava il villaggio. Sulla riva di un ruscello alcuni giovani bagnanti stavano rivestendosi. Il vento che si era levato faceva svolazzare le loro camice ed agitava le canne attorno a loro.

«L’Amabile Giacinto non è venuto a Calcata: i ragazzi fanno il bagno», disse l’abate.

«Ma all’ombra di quale reliquia» disse padre de Trennes

Passarono sotto la volta scavata nella muraglia e seguirono una strada aperta nel tufo. Una targa informava che era la strada degli Anguillara; fin dall’ingresso veniva reso omaggio agli antichi signori, eroi del ritrovamento del santo prepuzio. La via sbucava in una piccola piazza irregolare. A destra la chiesa, molto semplice e intonacata di fresco, I’umile municipio la cui facciata si adornava dello stemma comunale e, tra i due, l’antico palazzo baronale dove si poteva leggere un motto del defunto regime: “credere, obbedire, combattere”. Anche queste parole sembravano ridipinte di fresco: forse il Santo Uffizio era passato di là per rinnovare a suo nome delle consegne d’interesse non soltanto locale, ma universale. A sinistra, alcune case decorose con scale esterne e panche ricavate nel basamento: su queste panche erano seduti uomini e giovanotti.

« Che cosa fanno? » chiese l’abate. «Non lavorano?»

«Aspettano il lavoro», disse il padre. «Questi paesi sono molto poveri. Ma la gioventù dovrebbe richiamare dei pittori, è così bella. »

Salutò due chierichetti di tredici o quattordici anni, graziosissimi nelle loro tonache nere con bottoni rossi. Gli vennero incontro a precipizio, tutti commossi dell’onore, e corsero ad avvertire il curato.

«Due visite a Calcata mi hanno ambientato», fece il padre. «Il pudore di questi fanciulli è incantevole e quasi degno del Paradiso dei ragazzi»

Il curato arrivava a lunghi passi, con in mano la chiave della chiesa. Giovane ed energico lo si indovinava inattaccabile dai tentativi di corruzione. Come per dimostrare al suo gregge che due ecclesiastici non bastavano a convincerlo, lesse attentamente il biglietto del vescovo; poi lo mise nel suo portafogli. Si scusò con padre de Trennes per averlo costretto a ritornare, ma dichiarò che gli ordini del Vaticano erano formali e che non c’era da scherzare con le scomuniche.

«Non voglio essere sospeso a divinis o ridotto allo stato laico», aggiunse.

« Siete voi che avete fatto mettere là quell’avviso per i curiosi? » chiese il padre per alleggerire l’atmosfera. Indicò il braccio di ferro dell’antica forca, ancora infisso all’angolo di un muro, pronto a sospendere altrimenti che a divinis. Il parroco sorrise senza rispondere. Seguito dai due ospiti e dai due ragazzi, si diresse verso la chiesa. Mentre infilava la chiave nella serratura, guardò il cielo dove si ammassavano grosse nubi nere.

«Cadranno dei preti », disse.

Una folata di vento si infilò sotto le cinque tonache e le sollevò come le camicie dei giovani bagnanti e permise di vedere le gambe nude dei due chierichetti. Chissà se sarebbero stati ammessi a passeggiare nei giardini del Papa? Il curato richiuse a chiave dall’interno. Nella chiesa, a prima vista, regnava la stessa semplicità che all’esterno: una sola navata, un soffitto liscio, le pareti imbiancate a calce. Tuttavia dinanzi all’altare era stato eretto un arco di trionfo ornato da ghirlande di stucco, e fiancheggiato dalle statue di san Cornelio Papa e di san Cipriano vescovo di Cartagine, personaggi inattesi per Calcata. In fondo all’abside si scorgeva un riquadro barocco di marmi multicolori, dono di un cardinale spagnolo del XVII secolo. Sull’architrave si leggeva questa iscrizione: «Qui è racchiuso il santissimo prepuzio di N.S.G.C.» Nel mezzo era steso un drappo di seta bianca. Oltre gli stucchi dell’arco trionfale c’erano quelli dell’abside, che rappresentavano con eleganza alcune scene evangeliche. La Circoncisione era la principale: san Giuseppe e la Vergine guardavano sullo sfondo due angeli che reggevano fiaccole; il Bambino Gesù era tenuto dal gran sacerdote e una donna gli tagliava il prepuzio che un giovane sorridente riceveva in una mano.

Il curato era andato a mettersi la cotta.

« Il santo prepuzio si mostra così », disse.

Salì sulla scala che uno dei due chierici aveva appoggiato contro il tabernacolo. I1 temporale che minacciava parve pronto a scoppiare. I lampi brillarono, il tuono rombò, come nelle memorie citate sulla scorta del Santo Uffizio.

«Il santo prepuzio», disse l’abate« è indubbiamente legato a fenomeni atmosferici»

-«’Quanto rumore per una frittata al lardo! ‘ avrebbe detto Desbarreaux»,- fece padre de Trennes.

Il curato, scostando la tenda di seta bianca, aveva scoperto una porticina di bronzo, ma pareva esitante ad aprirla. Ascoltava la pioggia torrenziale che batteva sulle vetrate.

« Ci sono cose misteriose », disse.

« Hai paura del tuono? » chiese il padre ad uno dei chierichetti accarezzandogli una guancia. « Non bisogna aver paura del tuono. Soprattutto non bisogna suonare le campane: attirano il fulmine.»

L’abate toccò il portafogli in cui teneva l’agnus Dei che proteggeva dal fuoco del cielo. L’oscurità era aumentata è un chierico accese la luce elettrica che subito si spense. Accese due ceri ed erano uno strano spettacolo quei cinque con la tonaca riuniti davanti all’altare nel fragore del temporale. I due chierichetti tenevano ciascuno un cero con una mano e la scala con l’altra, il curato in cotta stava aprendo la porta del tabernacolo, mentre l’abate lo osservava e padre de Trennes osservava i due chierichetti che incarnavano i due angeli di stucco della Circoncisione. Ma gli altri due personaggi della scena vivente avrebbero sfigurato nella scena del Vangelo: uno dei due, benché suddiacono,era l’amante di una ragazza, l’altro puzzava di eresia, anche se aveva fatto un santo. Il Parroco, che aveva preso con rispetto il reliquiario e vi aveva soffiato sopra per toglierne la polvere, scendeva lentamente. L’abate e il padre contemplavano quell’oggetto in cui si rispecchiava la luce dei ceri e di cui non si erano aspettati né l’eleganza né il valore: su di una base di rame due angeli d’argento dorato sostenevano con le loro ali un piccolo globo d’oro intarsiato di smeraldi e con in cima una croce di diamanti. Il curato invitò i suoi ospiti ad avvicinarsi, mentre i due ragazzi si allontanavano. Mostrò loro la data, 1725, incisa sotto il globo, abbassò il coperchio e si segnò: due membrane grigiastre, sfumate di rosa e accartocciate a pallottola, giacevano sotto un disco di cristallo.

«Riflettiamo su quello che vediamo!» esclamò con fuoco padre de Trennes. «Non è forse la visione più straordinaria del mondo? Non è inaudito sottrarla all’umanità?»

«Signori », disse gravemente il curato «Godete il vostro privilegio»

«Una particella del corpo di Cristo»

Nella loro commozione, i due francesi non pensavano più alla tempesta che infuriava. Colpi violenti scuotevano la porta, ma non erano quelli del vento. Il curato mandò un chierico ad informarsi: sotto I’imperversare della pioggia si era riunita una folla che protestava perché la reliquia veniva mostrata: il cielo non voleva.

«Scusatemi» disse il curato «ma le apparenze danno ragione a loro»

Fece loro contemplare ancora per un attimo quella che senza dubbio era la cosa più straordinaria del mondo, poi la portò via. Mentre i colpi si ripetevano, il chierico andò alla porta a gridare che la reliquia era tornata al suo posto. L’abate pensava a quei paesani che non avevano avuto paura di bagnarsi per imporre di rimettere sotto chiave il santo prepuzio, con tanta imperiosità, come se fossero stati membri del Santo Uffizio. I vecchi cardinali, il padre Garrigou-Lagrange e i suoi due reverendissimi compagni, il promotore di giustizia, rappresentavano in quel caso il vero popolo cattolico poiché, senza saperlo, avevano per alleati le anime semplici di Calcata.

«Il temporale rovinerà il raccolto», disse il curato «Cercheremo di placarlo con i mezzi che Dio ci concede.»

Indossata la stola violetta, il curato si inginocchiò ai piedi dell’altare tra i due preti e iniziò le litanie. La sua voce rude intonava le invocazioni: la voce cantante del padre, la voce giovanile dell’abate, la voce argentina dei ragazzi si mescolavano per rispondere. Fuori, l’uragano imperversava come se fosse stata la fine del mondo, ma era un uragano che stava per finire.

Se mai Victor Mas si era sentito nel cuore della sua religione, era proprio in quel momento e quella stessa religione non l’aveva forse mai sentita tanto nel profondo del suo cuore. La solitudine di quella piccola chiesa di campagna, la singolarità della reliquia che custodiva, lo scatenarsi della natura, si univano per dargli l’impressione di una divinità che sa mostrarsi con tutti i mezzi: i più terribili, i più commoventi e i più assurdi. Un giorno si era divertito nell’apprendere che c’era un’orazione contro i terremoti, ma oggi capiva come ci fosse gente che poteva recitare davvero quella preghiera quando la terra si metteva a tremare. «Abbiamo nella notte soltanto una piccola luce che ci fa da guida», ha detto un filosofo, «e la religione la spegne» ma è la religione quella piccola luce nelle tenebre.

La terra a Calcata non tremava e i due ceri brillavano sempre sull’altare. Ma i vetri tremavano un po’ meno sotto quel diluvio estivo, che diminuiva a poco a poco. Il cielo si rischiarò. Un raggio di luce entrò nella chiesa dei santi Cornelio e Cipriano e accarezzò il parroco, i due chierichetti e i due pellegrini del santo prepuzio.

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