https://www.italiaoggi.it/news/il-prete-ch...difende-2458256ItaliaOggi - Numero 152 pag. 13 del 30/06/2020
Monsignor Paolo Piccoli, condannato a 21 anni e 6 mesi, va in Appello: «Sono innocente»
Il prete che uccise un prete si difende
Libero, continua a celebrare messa. Anche in San Pietro
di Stefano Lorenzetto
H o trascorso quasi tre ore a tu per tu con un assassino, condannato a 21 anni e 6 mesi di reclusione, ma tuttora a piede libero in attesa del processo d'appello e poi della sentenza definitiva in Cassazione. L'aggravante, se mai può esistere qualcosa di più pesante di un omicidio, è che si tratta di un prete. «Simpatico, amichevole, frizzante e generoso», anzi di più, «bravo, bravissimo», così lo descrisse Marta Marzotto su Chi nell'aprile 2003, dopo averlo conosciuto in crociera, e se dovessi aggiungere qualcosa all'encomiastico giudizio della defunta contessa potrei solo dire che mi è parso afflitto da una smodata propensione alla pomposità, non contemplata dal codice penale. Insomma, uno snob inoffensivo, più che un bieco omicida.
Eppure lo scorso 13 dicembre la Corte d'assise di Trieste ha individuato in monsignor Paolo Piccoli il killer che all'alba del 25 aprile 2014, nella Casa del clero del capoluogo giuliano, soffocò e strozzò il confratello don Giuseppe Rocco, 92 anni, per derubarlo di tre carabattole prive di valore, che mai avrebbero potuto figurare nella sua abitazione veronese di via Giovanni Prati, trasformata in un museo domestico, dove sono allineati ostensori, reliquiari, calici da messa, patene, pissidi, aspersori, paramenti liturgici, candelabri, tutti antichi e tutti di pregevole fattura, inclusa una teca che contiene lo zucchetto bianco «usato da Sua Santità Pio XII, felicemente regnante», come attesta un biglietto dell'Anticamera pontificia, firmato il 24 gennaio 1956 dal «cameriere segreto partecipante» di papa Pacelli, Mario Nasalli Rocca, futuro cardinale, e persino «un frammento della Santa Croce sulla quale morì Nostro Signore Gesù Cristo». Lo studio in cui mi riceve è tappezzato da ritratti di pontefici e foto di cardinali, spesso con dedica, e dominato da un quadro raffigurante san Giuseppe Cafasso, «patrono dei condannati a morte e dei confessori», chiosa il candidato alla galera.
Il sacerdote, figlio unico di Guerrino Piccoli, imprenditore morto novantenne nel 2019, e di Annamaria Comino, 76 anni, nata a Gorizia ma di origini savonesi, fu partorito nella villa Chierego-Perbellini di Verona l'8 giugno 1965 e crebbe nella parrocchia di San Pio X, essendo la sua famiglia all'epoca domiciliata in via Zamboni 46. Ma fin da giovane dev'essersi sentito portato per i grandi orizzonti. Infatti la sua vita è georeferenziata sulla Città Eterna e su quella del Vaticano. Fu ordinato prete all'Aquila il 29 giugno 1993 e dal gennaio 2019 l'arcidiocesi abruzzese ha fissato la sua residenza ufficiale nella capitale, presso il Pontificio seminario romano minore, zona extraterritoriale della Santa Sede in Italia.
Domani alle 8, anniversario della consacrazione sacerdotale, don Piccoli celebrerà in San Pietro, sull'altare che custodisce le spoglie di san Pio X: «Nella basilica vaticana il 30 giugno 1993 cantai la mia prima messa, in latino ma con rito moderno, nella cappella del Santissimo Sacramento». Giovedì entrerà al Policlinico Gemelli, «nel mio amato reparto solventi 4, ormai una seconda casa», e c'è da credergli sulla parola, visto che vi è stato ricoverato cinque volte in poco più di un anno e che lì è garantito «lo standard alberghiero», comprendente kit di benvenuto, servizi privati dotati di biancheria, tv satellitare, wifi, cassaforte, letto per l'accompagnatore, menu personalizzato e un quotidiano a scelta consegnato ogni mattina direttamente in camera. Il 13 luglio sarà operato allo stomaco, una revisione del bypass gastrico eseguito nel 2002.
Non gode di molta salute.
Dal 1996 sono in previdenza integrativa. Sbarcai malato dalla Costa Victoria, la nave su cui per quattro anni feci il cappellano di bordo per quasi 800 uomini di equipaggio e 2.400 passeggeri. Ho subìto il cedimento completo della gamba destra, con un intervento di artrodesi della sottoastragalica, un'operazione per protesi agli omeri destro e sinistro, una per protesi generale dell'anca destra, una per obesità nel 2002, essendo arrivato a pesare 140 chili. Nel 2013 mi hanno impiantato nel fegato una Tips. È una valvola che riduce l'ipertensione della vena porta, in modo da impedire quello che viene chiamato infarto rosso.
Come è diventato prete?
Durante gli anni della scuola media e del liceo scientifico dai salesiani, in via don Provolo, conobbi tre santi sacerdoti, i compianti don Renato Ziggiotti e don Giovanni Fedrigotti, e don Luigi Boscaini, oggi lucidissimo centenario. Li vedevo felici. Dissi a mio padre che volevo diventare come loro. Lui, per distogliermi dalla vocazione, m'impose di espletare prima il servizio militare, che svolsi a Firenze, al comando della Brigata Friuli.
La tattica dilatoria fallì.
Sì, perché a Firenze trovai un padre spirituale in monsignor Paolo Ristori, segretario del cardinale Ermenegildo Florit, e a Verona nel vescovo ausiliare Andrea Veggio, scomparso tre settimane fa, il quale scrisse una lettera per presentarmi all'arcivescovo Giuseppe Mani, rettore del Seminario romano, che mi accolse come studente.
Non poteva studiare a Verona?
Non volevo. Qui i seminaristi godevano di pessima fama fin dagli anni Sessanta, quando appoggiarono don Enzo Mazzi e la Comunità dell'Isolotto di Firenze, schierati contro Florit, e scrissero una lettera d'insulti al cardinale di Genova, Giuseppe Siri, ritenuto un conservatore. Tant'è che quando a Roma frequentavo Filosofia dai gesuiti alla Gregoriana e poi Teologia dai domenicani all'Angelicum, mi sentivo chiedere: «Ma lei viene dal seminario maoista di Verona?». Fu una scelta di cui pago le conseguenze ancor oggi, non creda.
È un tradizionalista?
Da sempre. Preferisco celebrare messa in latino. Ma non ho nulla da spartire con i seguaci scismatici del vescovo Marcel Lefebvre.
Prima di finire sui transatlantici è stato parroco in Abruzzo.
Sì, a Rocca di Cambio, dal 1993 al 1997, e a Pizzoli, dal 1997 al 2001. Fu l'arcivescovo dell'Aquila, Mario Peressin, un friulano amico della mia famiglia, ad accogliermi nella sua diocesi appena ordinato prete.
Dove celebra la messa?
Ogni giorno qui in casa. La domenica alle 10 nella chiesa del cimitero monumentale con l'amico don Silvano Corsi.
Ma non è sospeso a divinis?
Non è stato sospeso a divinis neppure il congolese padre Gratien Alabi, condannato in via definitiva a 25 anni per l'omicidio di Guerrina Piscaglia. E io non ho ucciso nessuno, sono innocente. Perché l'arcivescovo dell'Aquila dovrebbe impedirmi di celebrare la messa?
Oggi di che campa?
Ricevo 1.100 euro mensili dall'Istituto per il sostentamento del clero e 290 dall'Inps come invalido totale. E 700 se ne vanno per l'affitto.
Quanto ha speso in avvocati?
Il conto finale non è mai stato fatto. Le prime parcelle le anticipò mio padre. Adesso spero di vendere la nostra casa di vacanza a Lignano Sabbiadoro per poterli pagare.
Come conobbe don Rocco, il prete assassinato?
Fui mandato dal mio vescovo a Trieste per essere vicino alla clinica epatica di Udine e per curare la sindrome da stress post traumatico in cui ero precipitato per il terremoto dell'Aquila. Avevo passato mesi fra le macerie con i vigili del fuoco a recuperare campane e oggetti sacri. Nella Casa del clero triestina c'erano solo cinque preti, fra cui don Rocco. Ma lui pranzava e cenava nell'abitazione dell'adorata perpetua Eleonora Dibitonto, che gli faceva anche da autista.
E che incolpò lei del delitto.
Salvo chiudersi in un ostinato silenzio subito dopo aver sviato con successo le indagini su di me. Ma le pare che avrei ucciso un mio confratello per impossessarmi di due soprammobili, un veliero di cristallo e una Madonnina di legno fatta in Kenya, e di una catenina con la Vergine sul ciondolo? Tre oggetti acquistabili su Ebay per meno di 30 euro. Quanto alla collanina, vi sono le testimonianze processuali di alcune dipendenti del seminario che la videro al collo della perpetua, la quale si giustificò dicendo che non era quella di don Rocco. I miei difensori hanno dimostrato che l'unico possibile movente sono i soldi: alla morte di don Rocco, la Dibitonto avrebbe ereditato circa 200.000 euro, un terzo del saldo attivo sul conto corrente del sacerdote, oltre a una polizza vita da 150.000.
La signora notò le lenzuola chiazzate di sangue.
Due macchioline quasi impercettibili. E come poteva vederle, se nella telefonata al 118 per chiedere soccorso disse che la stanza era buia? Perché non accese la luce?
Le indagini hanno dimostrato che le tracce ematiche erano compatibili con il suo gruppo sanguigno, monsignor Piccoli.
Fui il primo a dichiarare che quel sangue era mio. Quando mi chiamarono a dare l'estrema unzione a don Rocco, mi appoggiai ripetutamente con gli avambracci al letto. In quel periodo soffrivo di xerosi cutanea, con lesioni da grattamento. E le braccia sanguinanti erano nude, perché per la fretta indossai la talare senza mettermi la camicia.
Perché dare l'estrema unzione a un morto? Non ha senso.
Arrivai nella camera circa 25 minuti dopo il decesso. Toccai il collo di don Rocco: era tiepido. E qui le debbo leggere il Dizionario di teologia morale di Roberti e Palazzini, pagine 960 e 961: «Intendiamo per morte intermedia uno spazio piuttosto breve di tempo che corre dal momento da tutti notato quale istante della morte al momento nel quale l'anima realmente si separa dal corpo. Sulla probabile esistenza dello stato di morte intermedia si fonda la dottrina morale che dichiara lecita e talvolta obbligatoria l'amministrazione del sacramento della Penitenza (assoluzione dei peccati) e dell'Estrema Unzione, durante la mezz'ora che segue immediatamente il momento da tutti giudicato quale istante della morte». Obbligatoria, ha capito? Mi chieda piuttosto del cuscino con cui avrei soffocato il mio confratello.
Stavo per farlo.
Era visibile sul letto di don Rocco in tutte le foto fino al 2 maggio. Invece non compare in quelle scattate durante il sopralluogo compiuto dal Ris di Parma l'8 maggio. Sparito per sempre. Chi lo trafugò? La stanza era sigillata. È stato dimostrato che io non potevo avere le chiavi del lucchetto. Quindi è evidente che chi rubò il cuscino è il solo responsabile della morte del prelato, perché quella fu l'arma del delitto. Ebbene, al processo il pubblico ministero, polemizzando sul guanciale, si lasciò sfuggire un lapsus freudiano: «Lo andiamo a cercare a casa della Dibitonto dopo quattro anni dai fatti?». Giudichi lei.
L'autopsia evidenziò che a don Rocco era stato spezzato lo ioide, l'osso del collo posto fra mandibola e laringe.
Sì, ma dopo che il sacerdote era già morto, probabilmente durante le manovre per tentare di rianimarlo. Infatti non fu notato alcun stravaso emorragico, segno che il cuore era fermo e il sangue non circolava più. Il professor Franco Tagliaro, direttore della Medicina legale del Policlinico di Verona, avrebbe dovuto parlarne al processo come perito di parte, ma la sua testimonianza fu incredibilmente giudicata irrilevante. Al che il luminare sbottò: «Nessuno mi ha mai dato dell'irrilevante!». E se ne andò, offeso e inascoltato.
Quali erano i suoi rapporti con la Dibitonto?
Meno di «buongiorno» e «buonasera». So che si era ripetutamente lamentata perché avevo portato alla Casa del clero i miei cani Cristina e Alex, due pastori tedeschi inoffensivi, poi deceduti nel 2011 e nel 2015.
Qual è il suo stato d'animo?
Di massima serenità, anche se le ripercussioni fisiche dimostrano che sto somatizzando l'ingiustizia. In questi giorni i miei avvocati hanno presentato l'atto di appello affinché venga riformata la sentenza di primo grado. Se necessario, ricorreremo alla Cassazione. Sussistendo un ragionevole dubbio, spero di essere quantomeno assolto con formula dubitativa per non aver commesso il fatto.
I condomini di questo palazzo la considerano un assassino?
Nessuno mi considera tale. Chi mi conosce, sa chi sono. «Coraggio, passerà!», è la frase che mi sento ripetere più spesso.
Anche Gianna Fumo, direttrice del Seminario vescovile di Trieste, la considera «assolutamente innocente» e dice che lei «è stato penalizzato in un modo veramente incredibile». Però sostiene anche che «ha commesso una serie di errori» ed è afflitto da «debolezze e manie».
È una ex maestra, una donna di rara severità. Vide la Dibitonto coprirsi imbarazzata la collanina con il ciondolo uguale a quello di don Rocco. E ha testimoniato che la perpetua disse in ogni sede «da subito, d'istinto, e con astio: “Lo ha ucciso don Paolo”».
Sì, ma di che debolezze parlava?
Ho avuto problemi di alcolismo. Ho cominciato a consumare vino e liquori dopo il terremoto dell'Aquila. Avevo visto andare in briciole anni di sacrifici e tutti i restauri compiuti nelle parrocchie abruzzesi, grazie a circa 800.000 euro donati da mio padre. «Un bere solitario a scopo anestetico», lo ha definito lo psichiatra di Trieste che mi ha affrancato da questa schiavitù con otto mesi di terapia.
Litigava con il sindaco di Pizzoli, Giovannino Anastasio.
Un comunista. Le vecchiette del paese mi chiamavano a benedire le case di nascosto. Appesi alle pareti trovavo i ritratti in bianco e nero di Stalin.
A Pizzoli fu processato e condannato per disturbo della quiete pubblica. Suonava le campane da mattina a sera.
Non è vero, le suonavo nelle ore canoniche: alle 10 nei giorni festivi, alle 12 nei feriali.
Però trasmetteva canzoni fasciste utilizzando gli amplificatori del campanile.
No, il 4 novembre mettevo la musicassetta I canti della patria, fra cui c'era Tripoli bel suol d'amore, che non è una canzone fascista: risale al 1911. Comunque non vi è dubbio che mi sono trovato meglio come parroco a Rocca di Cambio, dove non a caso fu girata la prima parte del film Il ritorno di don Camillo. Nel paesino di montagna, ribattezzato Montenara, fu mandato in esilio il personaggio guareschiano.
Espose un tariffario dei riti sulla porta della chiesa.
A Pizzoli la preferenza era per i funerali senza prete. Poi c'erano quelli che chiedevano di trovare la chiesa riscaldata per le esequie e ti lasciavano 50.000 lire di offerta. Accendere la caldaia due giorni prima mi costava 40.000 lire l'ora, faccia lei i conti. Appena arrivato trovai bollette arretrate del gas per 5 milioni.
Per un unico funerale di due anziani fratelli morti insieme pretese dai parenti la tariffa doppia.
Era una messa parata, con due preti e l'organista.
Perché indossa sempre uno zucchetto filettato di rosso e il tricorno con il pompon paonazzo?
Sono un canonico.
E la fascia sulla talare?
È come la cravatta sulla camicia. A Roma è obbligatoria.
E le scarpe con la fibbia?
Talvolta. Da sacerdote antico.
In Internet si leggono cose orribili sul suo conto: «In seminario c'era chi lo chiamava “L'apostolo di Lucifero”».
Questa cattiveria mi giunge davvero nuova.
E anche: «Don Piccoli è un bugiardo abituale con un'alta opinione di sé e delle proprie capacità manipolatorie».
Se fosse vero sarei riuscito a farmi assolvere, le pare?
Non ha proprio nulla da rimproverarsi?
Di essere stato troppo buono troppe volte.
L'Arena