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Preti in crisi, Quando si spretano per un uomo, una donna, per tornare uomini liberi.

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GalileoGalilei
view post Posted on 4/7/2012, 15:32 by: GalileoGalilei
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Diocesi di Mondovì


Il Santo Padre Benedetto XVI, tramite la Congregazione per il Culto Divino e la
Disciplina del Sacramenti, ha concesso al rev. don Angelo Fracchia la dispensa
dal celibato e dagli obblighi derivanti dall’Ordinazione presbiterale. Il Rescritto
di dispensa è stato notificato il 28 marzo 2011.

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Sono prete della chiesa di Mondovì (CN) dal 4 ottobre 1997. Il 2 febbraio 2002 mi sono sposato. Se fosse legittimo conciliare le due (a mio parere conciliabilissime) realtà, continuerei ad esercitare il ministero. Se fossi stato maggiormente accompagnato dai superiori, ora non sarei sposato: probabilmente un poco più scontento e squilibrato, ma continuerei ad annunciare il Vangelo. Anche se forse lo Spirito sta aprendo un'altra porta all'annuncio della Parola.


Iniziai a 8 anni a dire che avrei voluto diventare prete, per motivi che è facile, per l'adulto, riconoscere come insufficienti e biasimevoli, ma che potevano tuttavia essere comprensibili e perfettibili in un bambino.
A 14 anni entrai in seminario, frequentando un liceo classico statale. È stato anche il confronto con i compagni (peraltro non incoraggiato dai superiori) a far crescere in me sia una presa di coscienza più consapevole, talora anche critica, dell’ambiente in cui vivevo, sia la vera scoperta di Cristo, al di là delle formule e dei doveri morali di tipo più stoico che cristiano. E fu in quegli anni e con quegli aiuti che iniziai davvero a chiedermi se veramente potevo essere chiamato al presbiterato.
Tra le qualità richieste per il presbiterato mi sembrava infatti di avere la passione per un Dio scoperto come misericordioso ed attento ai singoli, tanto da desiderare di farlo conoscere in questa veste per me nuova; la passione per la Scrittura, da studiare, meditare, approfondire; il completo disinteresse per le ricchezze e per le cariche onorifiche; la com-passione per le persone e lo spontaneo cercarvi gli aspetti migliori, da valorizzare e far sviluppare; lo spontaneo preferire gli esclusi, i tagliati fuori.
Per contro, sentivo in me un potente bisogno di affetto, da chiedere e donare, di un confronto quotidiano con una persona da cui sapermi accolto, con cui vagliare sensazioni, sogni, tensioni e progetti; da solo mi sapevo incapace di negarmi a qualunque richiesta, anche eccessiva, e di valorizzare ciò che facevo io; non mi sentivo una “guida” possibile, a meno di essere sostenuto ed accompagnato da una presenza che mi pareva trovare la sua configurazione più naturale nel matrimonio; soprattutto, guardando alla concreta forma assunta dal ministero, mi sentivo inadeguato a seguire così tante attività, dedicando tanto spazio alla gestione più economica ed “edilizia” delle nostre comunità.
Nel corso degli anni di seminario mi sono sempre comunque mosso tra queste due attrazioni: le mie caratteristiche, e la scarsità di preti, mi portavano all’ordinazione, mentre la mia fragilità e desiderio me ne tenevano lontano.
Il vescovo e il rettore del seminario erano informati pienamente della mia situazione, e mi assicuravano che una tale tensione era normale e segno di equilibrio; più nel merito delle questioni, mi si garantiva che i superiori non mi avrebbero mai chiesto servizi superiori alle mie forze, che avrei trovato nei confratelli un sostegno costante ed attento, e che alla Chiesa di oggi servivano ministri consapevoli della propria fragilità ma pronti a donare ricchezze di Spirito più che competenze “gestionali”.

Soltanto nell’aprile di quinta teologia, a 24 anni, dicevo al vescovo che, se mi ritenevano adatto al ministero, io pur con trepidazione mi dichiaravo disponibile.
Quasi un anno dopo il vescovo fissava la data della mia ordinazione, anche se sei giorni dopo veniva ufficializzato il suo trasferimento ad altra sede. Io avevo chiesto di poter svolgere alcuni mesi di servizio al Cottolengo di Torino, dapprima nel fine settimana e poi, dopo il baccalaureato, a tempo pieno. Credo che sia stato per trovarmi una sistemazione che qualcuno (non sono mai riuscito a sapere chi) stabilì che avrei immediatamente proseguito i miei studi, fino alla licenza, a Roma. Pare che ci fossero in ballo più ipotesi di facoltà, con l'unico punto fermo della residenza nella parrocchia gestita a Roma dal clero monregalese. Proprio parroco e vice-parroco, venuti a sapere che mi consideravano portato per le lingue, insistettero per il Pontificio Istituto Biblico, e non, come si ipotizzava, per diritto canonico o filosofia. Fosse anche solo per questo, il mio debito nei loro confronti è enorme. Io non sono stato minimamente interpellato: intorno al 20 agosto una telefonata del rettore del seminario mi informava che l'11 settembre avrei dovuto essere a Roma per sostenere gli esami propedeutici di lingua ebraica e poi greca.

Dal settembre 1996 vissi quindi a Roma, studente del P.I.B. Il primo anno fu caratterizzato di un confronto intenso con il parroco, che condivideva con me anche situazioni pastorali, chiedendo il mio parere e spiegandomi i motivi di certe decisioni. È stata l’unica esperienza di confronto pastorale serio da me vissuta, per quanto non fossi ancora ordinato.
Dal 13 gennaio 1997 Mondovì riceveva un nuovo vescovo, che dopo due colloqui con me (uno durante un pranzo nel collegio Capranica, l'altro una mezz'ora in parrocchia) decideva le date dell'ordinazione, il 12 aprile per il diaconato e il 4 ottobre 1997 per il presbiterato. Da allora venni coinvolto nella gestione pastorale della parrocchia (dove il parroco era cambiato) pur essendo semplice ospite studente, riuscendo a condividere ben poco delle scelte e delle impostazioni del servizio pastorale ma attivamente presente tra i giovani e nelle confessioni, pur non trascurando il P.I.B. (concluso in poco più di tre anni). C'è da dire che il vescovo mi offrì più volte di trasferirmi in collegio, ma mi pareva mio dovere essere a disposizione nella pastorale. Ho cercato di mantenermi a disposizione delle persone, anche se ho finito col farmi spesso fagocitare, senza trovare nei confratelli un aiuto a gestirmi con più equilibrio.

Nel frattempo, cercavo di stimolare la fraternità sacerdotale: cercando, con poco successo, di favorire il dialogo tra i preti che vivevano nella parrocchia (soprattutto tra parroco e vice-parroco il clima era tutt'altro che fraterno, e il vescovo mi aveva chiesto di fare da mediatore); facendomi molto presente presso due preti coetanei in crisi in Piemonte (ed uno di loro, raggiunto da me non appena saputo della sua situazione, ma comunque sei mesi dopo che aveva smesso di celebrare, non della mia diocesi, mi disse “Sei il primo prete che mi cerca”); incontrandoci una volta al mese in ritiro spirituale con quattro preti cuneesi a Roma per studio; cercando di organizzare, insieme a loro, degli incontri per preti giovani a livello interdiocesano nella provincia di Cuneo (progetto senza esito positivo anche per la diffidenza dei vescovi coinvolti).
Dal maggio 1998 la fatica si fece sentire in modo insistente. Il tentativo di parlare, anche di questo, con i confratelli presenti in parrocchia non trovò esito.

Dalla fine di giugno 1998 iniziai a incontrarmi regolarmente con una coetanea conosciuta un anno prima come persona da aiutare, per suonare insieme. Iniziato come occasione di svago e distensione, fece crescere una profonda amicizia, presto divenuta qualcosa di più intenso. Non era la prima persona di cui mi capitasse di innamorarmi, anche se era la prima con cui tale "confessione" veniva fatta esplicitamente e in modo reciproco. Dopo circa 40 giorni di riflessione e ponderazione, chiarivo con questa persona che sarei rimasto prete, chiedendole di vivere il nostro rapporto come una semplice amicizia, impegno nel quale ho trovato la sua collaborazione. In questo periodo mi ero confidato con alcuni amici ed alcuni sacerdoti, per non trovarmi a gestire da solo una simile situazione, ma non riuscii a farlo con i confratelli che condividevano la vita in parrocchia. Quando, alla fine dell’anno pastorale, avrei detto che a settembre-ottobre ero stato molto male ma non ero riuscito a trovare un confronto, nessuno mi chiese che cosa mi fosse successo. Negli ultimi 3-4 mesi vissuti a Roma mi estraniai molto dalla vita della parrocchia, immaginando che il ritorno in Piemonte mi avrebbe aiutato a riprendere con equilibrio ed entusiasmo il mio servizio. Andandomene da Roma ebbi un ultimo chiarimento con la coetanea già citata: abbiamo ammesso di continuare a volerci bene, ma per la promessa celibataria (e solo per quella) non potevamo portare avanti un simile discorso.
Negli anni di Roma mi sforzai di mantenere anche i contatti con la diocesi, insistendo per ricevere, a Roma, gli avvisi per gli incontri presbiterali (pur essendo solitamente impossibilitato a parteciparvi), ma tali insistenze non trovarono risposta. Nell’autunno 1999 seppi dell’elezione del consiglio presbiterale leggendo i risultati della votazione sul settimanale diocesano.

A gennaio 2000 iniziai il mio servizio come vice-parroco in diocesi di Mondovì. Da parte dei sacerdoti incontrati in quei primi tempi mi arrivava più volte l’invito alla semplicità di parola ("Non fare il professore, qui siamo gente semplice"), e nessun altro consiglio, incoraggiamento o correzione. E dire che il parroco era ed è conosciuto come persona di scarsa collaborazione, abituato a comandare e gestire le persone anche con la finzione e l'inganno. In un anno e mezzo di servizio come vice-parroco, non ho mai avuto a disposizione le chiavi dell'ufficio parrocchiale, non avevo diritto a ricevere le offerte per le messe (l'invito esplicito, se venivano a questo scopo persone in canonica, era di chiedere di passare quando ci fosse il parroco), non ho mai concordato nessuna scelta pastorale, e mi sono trovato a rimangiarmi disponibilità delle sale parrocchiali per attività con giovani perché il parroco non concedeva, alla fine, il proprio permesso. Il mio lavoro consisteva nel celebrare messa (non matrimoni, battesimi e funerali, se non quelli di persone particolari: defunti poveri e un battesimo di una bambina nata da una diciassettenne e di cui non si conosceva il padre), nel confessare durante messa (nonostante le norme in merito e la mia insistenza al riguardo) e nel tenere in ordine l'oratorio per gli incontri di catechismo. Erano affidati a me i giovani ("quegli infedeli", nelle parole del parroco). Io credevo che comunque le caratteristiche della parrocchia (grande e complicata) potessero esigere la presenza di un vice-parroco, e in fondo ero forse, per età e carattere, una delle persone più adatte a smussare le occasioni di tensione. Mi attendevo un segno di presenza da parte del vescovo: una visita, una lettera, una telefonata. In fondo, mi dicevo, quando a Roma avevo avviato qualche giovane al catechismo, preparavo insieme a loro i primi incontri, continuavo ad informarmi su come andassero le cose, sulle delusioni e soddisfazioni...
In più ero impegnato nell'insegnamento nello Studio Teologico Interdiocesano di Fossano e in un paio di iniziative diocesane.
A Pasqua 2000 scrissi al vescovo condividendo una fatica che non si alleggeriva e non acquistava senso. Il rapporto con il parroco mancava completamente di condivisione o confronto, soprattutto in questioni pastorali. Tale confronto non si riusciva a recuperare a livello zonale, ed anche per motivi di insegnamento non riuscivo a partecipare alle attività diocesane per presbiteri. Sarei riuscito a farlo l'anno successivo, sperimentando che anche in quei contesti le occasioni di confronto reale non c’erano: gli incontri consistevano nell'ascolto di una relazione e degli avvisi, con una decina di minuti, alla fine della mattinata, per domande o interventi da parte degli ascoltatori. La risposta del vescovo fu di tenere duro per l'estate: nell'autunno si sarebbe ripreso il discorso.
Dopo un’estate aridissima trascorsa nelle attività “abituali” (e, a mio parere, mai evangelizzanti, anche se la responsabilità poteva essere mia) dei campeggi, dell’estate-ragazzi e delle feste patronali, riprendevo l’anno nelle stesse condizioni di quello concluso, con in più cinque corsi nuovi di insegnamento, dei quali tre comunicatimi soltanto a settembre. Quando mi lamentavo di non riuscire a seguire tutto, il preside mi suggeriva di pretendere più spazio in parrocchia, il parroco mi rimproverava di aver accettato troppi corsi.
All'inizio dell'autunno mi giungeva la voce di un mio trasferimento in un'altra parrocchia, ma non avendo sentito nulla dal vescovo immaginavo che si trattasse di una confusione con un altro sacerdote. Solo a fine ottobre riuscivo a parlare con il vescovo, che senza che io riuscissi a ribattere niente si diceva felice che i problemi si fossero risolti e sosteneva di aver pensato ad un mio trasferimento, ma che alla fine, sentito il parere di alcune persone coinvolte, aveva ritenuto che la soluzione migliore fosse quella di restare dov'ero. Tra i miei pochi pregi non rientra la prontezza di riflessi, e non riuscii a rispondere se non per lettera, facendogli notare che i problemi restavano tutti anche se non ero tornato a lamentarmene, confidando nel suo impegno di prendersene cura nell'autunno, e che tra le persone da contattare per decidere della mia sorte forse potevo anche essere annoverato io. Il tentativo fu comunque di stimolare un dialogo più serio con il vescovo, che invitai più volte ad organizzare degli incontri per preti giovani. Mi venne risposto, ad inizio novembre, che erano in cantiere e che una proposta sarebbe arrivata entro la fine del mese. I preti giovani rimasti la stanno attendendo ancora adesso.
In quei mesi ero sconvolto anche da due casi particolari occorsi a sacerdoti della diocesi. Un prete cinquantenne era sotto processo per pedofilia. Io conoscevo poco lui ma abbastanza bene persone che, da ragazzi e giovani, erano stati nell'Azione Cattolica con lui, e che dicevano di poter mettere le mani sul fuoco sulla sua correttezza. Non credo che sarebbe onesto ora ripercorrere qui la sua situazione, ma si diceva deciso a restare nella chiesa di Mondovì, seppure completamente deluso dalla mancanza di sostegno e fiducia da parte dei confratelli e dalla diocesi in una situazione particolarmente delicata della sua vita. Per quanto può essere significativo, rientrando in diocesi ho chiesto informazioni ad alcuni sacerdoti che immaginavo, per età e per responsabilità, in contatto con lui, ma nessuno lo aveva visto o sentito. I diversi processi lo hanno poi riconosciuto innocente. Un altro sacerdote era di poco più vecchio di me e insieme a lui avevo trascorso nove anni di seminario. Aveva tentato strade nuove di contatto con i giovani, oggettivamente rischiose ed estreme ma in una situazione estrema. Ne conoscevo tanto la semplicità (a volte al limite dell'ingenuità) tanto l'autenticità evangelica e la profondità spirituale. Ma era stato prima "esiliato" in due parrocchie di montagne di cui non aveva neppure il diritto di gestire le minime risorse economiche, quindi posto in attesa. Ancora adesso dice di voler aspettare il prossimo vescovo, e si guadagna da vivere in una casa per disabili. Al vescovo chiesi anche di spiegarmi perché come diocesi si era deciso di abbandonare questi sacerdoti: la risposta fu che non erano stati abbandonati, ma che c'erano molte cose che non conoscevo; peraltro, disse che non aveva l'abitudine di parlare di persone assenti.
Fui io, su suggerimento del mio confessore, a tentare di garantirmi uno spazio migliore di riflessione facendomi ospitare presso la Casa di Spiritualità “Regina Montis Regalis” a Vicoforte. Da lì continuavo ad insegnare e ad essere a disposizione in parrocchia per alcuni appuntamenti che coprivano, in tutto o in parte, sei giorni alla settimana. Sul bollettino parrocchiale e, più brevemente, sul settimanale diocesano, spiegai questa mia scelta e le sue motivazioni. Pensavo che sarebbe stata una scossa per il presbiterato, che avrei capito su quale spazio di confronto avrei potuto contare. In cinque mesi mi confrontai con una dozzina di sacerdoti, tre dei quali mi cercarono senza attendere che mi facessi vivo io (mentre furono una decina i laici che mi contattarono in un modo o nell'altro). Conservo uno splendido ricordo del rispetto, dell'attenzione e dell'amicizia del prete che gestiva e gestisce quella casa e del personale laico che vi operava.
È stato in questo tempo che ho riallacciato i contatti con la persona cui ho già alluso due volte e che ora è mia moglie: si è dimostrata particolarmente attenta a garantirmi un confronto rispettoso, disposta ad aiutarmi a restare prete in serenità, o, eventualmente, a pensare ad un legame per la vita.

Credo che la decisione di lasciare il ministero sia maturata nella settimana santa. Le tre scuole nelle quali ero impegnato sospendevano per due settimane le lezioni. Certo si trattava della settimana santa e di quella dopo Pasqua, ma sapevo già che il mio impegno sarebbe stato solo in confessionale, dunque sostituibile. Mi illudevo che l'emergenza che vivevo potesse meritare un po' di attenzione, e chiesi al vescovo, al vicario e all'ex rettore del seminario di aiutarmi a liberarmi dalla parrocchia per quelle due settimane, per dedicarle a ritirarmi in preghiera e meditazione in monastero. Tutti e tre mi garantirono che facevo bene. Ma il parroco non era d'accordo, mi diceva che non c'era nessuno disposto a sostituirmi. Il mercoledì santo, in serata, il vicario mi telefonò per sapere se ero riuscito ad allontanarmi dalla parrocchia; quello stesso giorno arrivavano, ad aiutare nelle confessioni della parrocchia, due sacerdoti amici del parroco, un missionario ed uno in pensione.

Non mi ritenevo più in grado di proseguire il ministero presbiterale così come configurato da noi in questi anni: mi ero sentito chiamato a gestire tante attività (rituali e non) che non mi sembravano aiutare un rapporto vivo con il Signore, e che incastravano invece in un ruolo, più che in una testimonianza; costretto troppo spesso a parlare ex cathaedra (non per desiderio: venivano chiesti giudizi chiari e definitivi, cosa già in sé poco rispettosa dello Spirito, e spesso in ogni campo, non solo di fede e morale) senza alcuna possibilità di confronto, di tutela delle mie debolezze… Soprattutto, senza la libertà di impostare in modo diverso il ministero.
E non era solo l’orizzonte breve a mortificarmi: mi sembra sempre più inadeguata la pastorale in cui siamo impegnati, senza però riuscire a trovare il modo di dirlo, di confrontarsi per ipotizzare vie di rinnovamento. Mi sarebbe sembrato opportuno fare quanto possibile per provare ad essere evangelizzante in questa situazione, ma i limiti già individuati nel tempo di seminario, e mostratisi gravi quanto temevo ma senza sostegno nei superiori e nei confratelli, mi facevano sentire impossibile un cammino di questo tipo da solo. Sempre più mi sarei sentito chiamato al ministero presbiterale uxorato, se nella nostra Chiesa questa fosse stata una strada percorribile.
Non erano mancati esempi di sacerdoti autenticamente compagni di viaggio, anche se non molti e solitamente non in posizioni particolari di responsabilità. Particolarmente deprimente era stato il rapporto con i superiori, anche quando rappresentati da persone solitamente attente e oneste (come il vicario). Mai ero riuscito ad avvertire l'ambiente di comunione del presbiterato, che non trovava ambiti in cui crescere ed esprimersi.
Il 3 aprile 2001 comunicai quindi al vescovo che avrei lasciato il ministero. Lui mi chiese soltanto di restare in parrocchia fino alla fine dell'anno pastorale, cosa che feci. Spiegai la mia situazione al parroco, che si rammaricò e mi disse che comunque avrebbe continuato a contattarmi come esperto biblico, dato che la gente mi ammirava tanto. Stabilii che avrei celebrato l'ultima messa il 17 giugno, ma lui confermò comunque le due conferenze bibliche che aveva programmato per il 28 e 29 giugno. Sotto sotto, mi veniva il sospetto che forse avevo esagerato in severità, nel giudicarlo. L'ultima messa fu accompagnata da una lettera al settimanale diocesano nella quale spiegavo la mia scelta e le sue motivazioni, e da un breve messaggio alla fine della celebrazione presieduta quella mattina.

Il vescovo mi aveva chiesto di aspettare comunque sei mesi prima di presentare domanda di riduzione allo stato laicale, un minimo di tempo di ripensamento. Una settimana dopo venivo cercato dalla curia, che mi chiedeva di firmare la rinuncia all'8 per mille. Io lo consideravo un passo scontato e non obiettai nulla. Solo qualche mese dopo venni a sapere che quell'atto è solitamente intrapreso alla fine, quando veramente ogni speranza di ripensamento è venuta meno. Quello stesso giorno, 25 giugno, il parroco mi informava che le due conferenze del 28 e 29 giugno erano state cancellate.

C'era da pensare al lavoro. È interessante, senza aver assolutamente sprecato tempo nella vita, trovarsi a 30 anni senza alcuna esperienza lavorativa e con in mano null'altro che un diploma di maturità classica.
Il vescovo mi aveva garantito un aiuto in merito, invitandomi a presentare un curriculum alla Piemme, che avrebbe accompagnato con una sua raccomandazione (avendovi mantenuto un ruolo di consulenza editoriale). Nel frattempo una casa editrice di Roma gli aveva chiesto di preparare un'edizione popolare della Bibbia (brevi introduzioni, note, rimandi a margine e indici), lavoro che girò a me. L'impegno era di concludere tale opera entro tre mesi (poi divenuti quattro) per quattro milioni e mezzo. Il lavoro è finito e il compenso in gran parte versato, anche se l'opera sembra ancora ferma.
Sono stato io a presentarmi tramite curriculum e senza conoscenze presso una dozzina di case editrici, come traduttore teologico, specializzato in campo biblico. La Paideia decise di farmi sostenere una prova e di darmi una prima opera da tradurre. In seguito, non seguendone altre, mi spinsi a presentarmi presso il direttore come prete sposato, per avere un consiglio professionale di fondo, se fosse fattibile pensare di fare della traduzione il mio lavoro e a quale tipo di formazione ulteriore pensare. Ricevetti una risposta personale decisamente toccante e partecipe, oltre che incoraggiante. Nell'ultimo anno e mezzo ho avuto assicurata una notevole continuità lavorativa come traduttore.
Ho scelto tale professione non soltanto per opportunità, ma anche per poter contare su un lavoro che mi permettesse di mantenermi in contatto con il campo degli studi biblici, che mi desse tempo ed elasticità per mantenermi aggiornato e disponibile il giorno che potessi essere utile e richiesto a servizio del Vangelo ed eventualmente della Chiesa.
Un paio di opportunità del genere ci sono state, nell'ultimo paio di anni. Nell'estate del 2003 un gruppo di famiglie che hanno frequentato all'università Lateranense un master di pastorale familiare (due anni con obbligo di frequenza) e che continuano ad organizzare tutte le estati una settimana di vacanza e formazione, per sostituire una biblista sposata cui motivi di famiglia avevano impedito di partecipare, decidevano all'ultimo di chiamare me, invitandomi insieme a mia moglie e al primogenito Tobia. Il tema, scelto ovviamente da chi doveva gestire tale corso di esercizi e non da me, era il libro di Tobia (se si potesse pensare a un segno della provvidenza, nostro Signore dimostra un certo senso dell'umorismo).
Una seconda, paradossale, opportunità è collegata alla mia nuova professione. Per colmare alcune delle mie lacune professionali e instaurare un rapporto con colleghi più preparati e consapevoli di me, mi sono iscritto ad una newsgroup di traduttori, di scambio di opinioni e consigli su temi collegati alla professione e non solo. Proprio in questo ambito succede sempre più di frequente che mi si chiedano informazioni e opinioni se non in quanto prete almeno in base alla competenza biblica, non soltanto per questioni di traduzione ma con un approccio autenticamente esistenziale e religioso. Paradossalmente, sembrano esservi più opportunità di spiegazione e annuncio del vangelo rispetto a tanti tempi del ministero "attivo".

Nel frattempo Lucia e io ci siamo sposati, senza i nostri genitori che non condividevano la nostra scelta; un anno dopo è nato Tobia, e stiamo per accogliere, a giorni, Osea.
Il mio vescovo, dopo giugno 2001, si è rifatto vivo a febbraio 2002, dopo il matrimonio, per comunicarmi la scomunica. Ho presentato la richiesta di riduzione allo stato laicale. Dopo il processicolo e qualche mese d'attesa mi è stata comunicata dapprima informalmente e poi ufficialmente la sentenza che sostanzialmente già conoscevamo: la domanda è ben documentata e potrà essere accolta... al quarantesimo anno d'età.
Non è stato semplice iniziare a percorrere un nuovo cammino nella Chiesa senza i sacramenti, ma il nostro matrimonio è vissuto almeno in spirito e nelle intenzioni davanti a Dio, sperando che anche in noi, anche in un legame d'amore non sanzionato dalla Chiesa, si possa intuire ed ammirare l'amore di Cristo per la Chiesa (Ef 5,25-33).



6 aprile 2004

Angelo Fracchia
Via Pontebedale 1
12020 Cartignano (CN)
[email protected]


Edited by GalileoGalilei - 4/7/2012, 17:54
 
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