http://temi.repubblica.it/micromega-online...ento-biologico/Carta canta. Perché conviene fare, nelle more, il proprio Testamento biologico
Il 19 novembre, ben tre ministri e mezzo hanno partorito una circolare che vorrebbe delegittimare l’operato di una settantina fra Comuni e Municipi che hanno istituito “registri” per i testamenti biologici. Ma si tratta dell’ennesima “provocazione ideologica” destinata a fallire. Ecco perché i nostri testamenti saranno validi.
di Marlis Ingenmey
Già il 5 agosto 2010 il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella aveva annunciato che al suo Ministero stavano “elaborando una risposta comune con il Ministero dell’Interno” da dare ai Comuni e ai Municipi che avevano istituito o intendevano istituire registri per i testamenti biologici, “una forma di deregulation, iniziative estemporanee che non possono offrire un reale servizio ai cittadini”, anzi, “una assoluta provocazione ideologica”, come affermò il 3 settembre in un dibattito, a Roma, sul fine vita. Dopo tre mesi e mezzo, il 19 novembre, ben tre ministri e mezzo hanno partorito una circolare che vorrebbe delegittimare l’operato in merito di ormai una settantina fra Comuni e Municipi (ipotizzando addirittura “un uso distorto di risorse umane e finanziarie, con eventuali possibili responsabilità di chi se ne è fatto promotore”) e, come ha spiegato il sottosegretario presentandola, “mettere in guardia il cittadino, che deve sapere che le volontà lasciate attraverso i registri dei Comuni non hanno alcun effetto”, anzi, “i registri sono una presa in giro”: “…è evidente che, non essendoci una legge in materia, il medico non può ottemperare ad alcuna richiesta di tipo eutanasico indicata nei registri. Il medico, cioè, non può che riferirsi alle normative esistenti, che vietano ogni attività eutanasica”. Nel mirino degli autori della circolare non sono tanto i poveri “registri” quanto le “volontà”, le “direttive anticipate” di trattamento come estensione del consenso informato – legittimazione e fondamento di ogni atto medico –, che si stanno moltiplicando nel Paese anche a prescindere dai registri comunali, così come sono in aumento le designazioni, ai sensi degli artt. 404 e seguenti del Codice civile, di “amministratori di sostegno” come esecutori di tali “testamenti”.
Evidentemente i nostri attuali governanti, poco avvezzi a tenere separate le proprie convinzioni morali e religiose dall’esercizio della loro funzione con conseguente sottovalutazione dei “principi fondamentali di libertà”, non vogliono ammettere che, chi, nelle more, redige le proprie “direttive anticipate” – in Germania l’avevano fatto, prima che entrasse in vigore l’anno scorso un’apposita legge, oltre nove milioni di cittadini con atti fai-da-te o compilando moduli di ogni sorta, approntati perfino dalla Conferenza Episcopale in collaborazione con il Consiglio della Chiesa evangelica –, è autorizzato a farlo dagli ormai arcinoti articoli 2, 13, 32 e anche 3 (che vieta discriminazioni fondate sulle “condizioni personali”) della Costituzione [1], dagli articoli 5 e 9 della Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e la biomedicina [2] del 4.4.1997 (ratificata dall’Italia con legge 28 marzo 2001, n. 145, da osservare “come legge dello Stato”), dagli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea [3] proclamata il 7.12.2000 a Nizza, ora annessa al Trattato di Lisbona (ratificato dall’Italia con legge 2 agosto 2008, n. 130) e dal Codice di deontologia medica (aggiornato nel dicembre del 2006) il quale – ribadito all’art. 35 che il “medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente” (o, art. 37, “del suo legale rappresentante”) e che “in ogni caso” non è “consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona” – dedica l’art. 38 esplicitamente ad “Autonomia del cittadino e direttive anticipate”: “… Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato”.
Alla luce di queste “normative esistenti” il testatore “informato” non chiederà un atto eutanasico, cioè “un trattamento finalizzato a provocare la morte”, che il medico “non deve effettuare né favorire” (art. 17 dello stesso Codice) in quanto “omicidio del consenziente” (art. 579 del Codice penale); né chiederà probabilmente che il medico si astenga dal cosiddetto “accanimento terapeutico” (il “no all’accanimento terapeutico” non gli basterà), un concetto giuridicamente inesistente (sta di casa nel Catechismo e vale per i cattolici osservanti), giacché da quello (secondo l’art. 16 del suo Codice, che non dovrebbe aver ragion d’essere) il medico deve astenersi di suo quando da un certo trattamento diagnostico o terapeutico “non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita”. Il testatore “informato” darà o negherà preventivamente il suo consenso a determinati trattamenti medici (nessun trattamento, neanche salvavita, escluso) che potessero un giorno risultare medicalmente indicati, specie (ma non soltanto) nella fase terminale, in caso di una sua eventuale malattia, infermità o disabilità (il legislatore costituzionale, infatti, non ha posto, né direttamente né indirettamente, limiti all’esercizio del riconosciuto diritto soggettivo di autodeterminazione in materia di trattamenti sanitari, se non per disposizione di legge nell’“interesse della collettività”). Va da sé che nella maggior parte dei casi la negazione del consenso o la sua limitazione nel tempo riguarderanno proprio i trattamenti salvavita almeno laddove prolungano la vita oltre il suo “naturale compimento”, e tra questi anzitutto la ventilazione assistita e la nutrizione e l’idratazione artificiali.
Nelle more, l’Ordine dei medici di Cremona assolse nel febbraio 2007, all’unanimità, l’anestesista Mario Riccio che nel dicembre del 2006 aveva staccato, come richiesto dall’interessato, il respiratore a Piergiorgio Welby, paziente cosciente e capace di intendere e di volere (“Non si rilevano violazioni del Codice deontologico”, “Welby è stato aiutato nel morire non a morire”), così come lo prosciolse dall’accusa di “omicidio del consenziente”, nel luglio dello stesso anno, il gup del Tribunale di Roma, Zaira Secchi (“Non luogo a procedere nei confronti di Riccio Mario perché non punibile per la sussistenza dell’esimente dell’adempimento di un dovere”: “… la condotta di colui che rifiuta una terapia salvavita costituisce esercizio di un diritto soggettivo riconosciutogli in ottemperanza al divieto di trattamenti sanitari coatti, sancito dalla Costituzione”, “… l’imputato ha agito alla presenza di un dovere giuridico … di cui all’art. 51 del Codice penale” [4]). Un caso di “esercizio di un diritto” e “adempimento di un dovere” imposto da una norma giuridica, l’art. 32 della Costituzione, fonte di rango superiore rispetto alla legge penale, o di “eutanasia”?
Nelle more ci furono, per Eluana Englaro, paziente in stato di “incoscienza”, nutrita mediante sondino naso-gastrico, prima, tra l’ottobre del 2007 e il novembre del 2008, passando per il decreto della Corte d’appello di Milano del luglio di quell’anno, le sentenze della Cassazione che autorizzarono suo padre e tutore, Beppino Englaro, e la curatrice speciale “a disporre l’interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale”, e poi, l’11 gennaio di quest’anno, il decreto del gip del Tribunale di Udine, Paolo Milocco, secondo il quale “la prosecuzione dei trattamenti di sostegno vitale di Eluana Englaro non era legittima in quanto contrastante con la volontà espressa dai legali rappresentanti della paziente, nel ricorrere dei presupposti in cui tale volontà può essere espressa per conto dell’incapace”; ragion per cui il procedimento relativo all’iscrizione a notizia di reato per “omicidio volontario” nei confronti di Beppino Englaro e di altre 13 persone fra medici e paramedici – come, del resto, richiesto dalla Procura della Repubblica di Udine – fu archiviato (“Chi ha espresso tale volontà e il personale sanitario che ha conseguentemente operato per sospendere il trattamento e rimuovere i mezzi attraverso cui veniva protratto, ha agito alla presenza di una causa di giustificazione e segnatamente quella prevista dall’art. 51 del Codice penale”). Un altro caso di “esercizio di un diritto” e “adempimento di un dovere”, o un altro caso di “eutanasia”, come tuonarono, alla pubblicazione della motivazione della sentenza definitiva della Cassazione del 13.11.2008, tutti i più alti esponenti delle gerarchie ecclesiastiche di qua e di là del Tevere, e non solo loro? Furono tanti e tali gli attacchi rivolti “anche da qualificati ambienti politici e istituzionali” ai giudici della Corte suprema per la loro decisione in questa vicenda – “il primo omicidio di Stato” i cui “mandanti siedono nel Palazzaccio” (Luca Volonté), “la prima esecuzione capitale della storia repubblicana” (“Scienza & Vita”), “è via libera a un omicidio” (Rocco Buttiglione), la “condanna a morte” emessa “in nome del popolo italiano” (varie le paternità) nei confronti di Eluana, “prima cittadina italiana che morirà per sentenza” (Eugenia Roccella) e così via – che il Consiglio superiore della Magistratura, su richiesta di tutti i membri togati, aprì una pratica “a tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della Magistratura e dell’operato delle Sezioni unite della Cassazione”.
“Nel diritto di ciascuno di disporre, lui e lui solo, della propria salute e integrità personale, pur nei limiti previsti dall’ordinamento, non può che essere ricompreso il diritto di rifiutare le cure mediche lasciando che la malattia segua il suo corso anche fino alle estreme conseguenze: il che non può essere considerato il riconoscimento di un diritto positivo al suicidio, ma è invece la riaffermazione che la salute non è un bene che possa essere imposto coattivamente al soggetto interessato dal volere o, peggio, dall’arbitrio altrui, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell’avente diritto, trattandosi di una scelta che … riguarda la qualità della vita e che pertanto lui e lui solo può legittimamente fare.” Così si legge nella sentenza della Corte d’Assise di Firenze n. 13/90 dell’8.11.1990 che condannò per “omicidio preterintenzionale” un chirurgo, poi anche radiato dall’Albo, che aveva operato un paziente, senza averne ottenuto il consenso, procurandogli lesioni seguite dalla morte. Dopo la sentenza di conferma di quella condanna da parte della Cassazione il 21.4.1992, il Comitato Italiano di Bioetica, anche in considerazione di “non del tutto episodici ricorsi alla giustizia civile e penale”, sottolineò, in un suo documento ad hoc del 20.6.1992, la “doverosità” dell’acquisizione del “consenso informato come base della correttezza stessa della pratica professionale”. Nei casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro, una volta accertata la volontà attuale del primo e ricostruita la “presumibile scelta” della seconda, i medici curanti di entrambi, non essendo tutelati ulteriormente dal consenso degli interessati, erano in difetto e perseguibili per il loro rifiuto di staccare il ventilatore e di sospendere la nutrizione rimuovendo il sondino, potendosi configurare nei loro confronti il reato di “violenza privata” (previsto dall’art. 610 del Codice penale [5]); per non parlare di chi aveva in cura Giovanni Nuvoli, malato terminale di sclerosi laterale amiotrofica, che voleva “morire senza soffrire, addormentato”, e non trovò – dopo che i carabinieri, mandati dalle autorità giudiziarie, avevano bloccato un anestesista pronto a staccare il respiratore – altra strada se non quella di smettere di mangiare e di bere, per andarsene da questo mondo, una settimana dopo, aiutato solo da alcuni sedativi, con l’apparecchio in funzione.
I naturali interpreti delle leggi, i giudici, hanno anche da noi, e, come si vede, non da ieri, metabolizzato il riconoscimento dell’autodeterminazione del paziente sorretta dai “principi”, “diritti” e “libertà fondamentali” della persona presidiati da norme costituzionali (che non necessitano di intervento alcuno del legislatore ordinario per essere operative) e da Convenzioni internazionali recepite dall’ordinamento italiano, come quella citata di Oviedo (che intende proteggere “la dignità umana da un uso improprio della biologia e della medicina”) e la Carta di Nizza (fatta per “rafforzare la tutela dei diritti fondamentali alla luce … degli sviluppi scientifici e tecnologici”), o, ultima in ordine di tempo, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13.12.2006 e ratificata dal Parlamento italiano con legge 3 marzo 2009, n. 18, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, che rivendica anche per le persone che vivono in condizioni di disabilità, all’art. 3, “Principi generali”, comma [a], “il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte” (e pensare che in Italia qualcuno vorrebbe classificare i malati in stato vegetativo come “persone con gravissima disabilità” allo scopo di potergli propinare – richiamandosi alla stessa Convenzione, art. 25, “Salute”, per cui “gli Stati Parti devono”, comma [f], “prevenire il rifiuto … di prestazione di cure e servizi sanitari o di cibo e liquidi in ragione della disabilità” – il sondino di Stato, salvo poi, snobbando la “Giornata internazionale delle persone con disabilità”, in calendario dal 1998 il 3 dicembre di ogni anno, proclamare con raccapricciante finezza il 9 febbraio, giorno della morte di Eluana Englaro, “Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi”).
Dalle pronunce citate e da altre di organi giudiziari di ogni grado, dai gip fino alla Cassazione e alla Corte costituzionale, per dirimere controversie tra pazienti e medici si evince che il rifiuto, legittimo e vincolante per il medico, di qualsiasi trattamento sanitario, anche quando conduca alla morte (come la rinuncia all’amputazione di un arto in cancrena o il rifiuto di venire trasfuso), non va in alcun modo scambiato per un fenomeno eutanasico (l’essenza dell’eutanasia consiste nella voluta accelerazione del processo di morte), ma è finalizzato al rispetto del normale percorso biologico.
Questi ragionamenti si fanno sempre più strada anche tra i medici e in seno al Comitato Nazionale per la Bioetica.
Già fin dal 2006 il Codice di deontologia medica esige, con l’art. 53, il rispetto del “Rifiuto consapevole di nutrirsi”: “… Se la persona è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di nutrizione artificiale nei confronti della medesima, pur continuando ad assisterla”. Se il medico non deve praticare la nutrizione artificiale al paziente “consapevole” che rifiuti di nutrirsi, non si capisce – visto che “deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato … in modo certo e documentato” (art. 38 del suo Codice) da un paziente non più in grado di pronunciarsi attualmente – perché in presenza di un rifiuto documentato di tale trattamento possa sentirsi autorizzato o obbligato a procedere; tanto più che l’art. 3 della Costituzione garantisce espressamente uguali diritti a tutti i cittadini “senza distinzione” anche di “condizioni personali”, in questo caso, “consapevoli” o in stato di “incoscienza” che siano.
Anche il Parere del Comitato Nazionale per la Bioetica, approvato il 24.10.2008 con la sola astensione di tre membri ma con diverse postille, Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico, riconosce ormai la “legittimità” (“ammissibile sul piano giuridico”) della richiesta di “non inizio” o di “sospensione” – intanto da parte del paziente “consapevole” – anche di “trattamenti sanitari salvavita”, richiesta giudicata da alcuni membri comunque “non condivisibile sotto il profilo etico” (“c’è l’obbligo morale di vivere”), mentre altri membri la ritengono “moralmente e giuridicamente giustificabile” (“Poiché la malattia costituisce un aspetto dell’esistenza, accettare che essa faccia il suo corso rinunciando alle terapie non rappresenta la trasgressione di un imperativo morale, ma la consapevole accettazione dei limiti intrinseci all’esistenza umana”). Se in uno Stato laico, quale è pure il nostro, è dunque anche per il Comitato Nazionale per la Bioetica “ammissibile sul piano giuridico” rifiutare o limitare nel tempo “trattamenti sanitari salvavita”, il cittadino che lo desideri deve poterlo fare e deve poter contare, qualora non fosse in grado di sottrarsi autonomamente alla terapia indesiderata, sulla realizzazione della propria richiesta da parte di terzi, e ciò senza essere, per questo, bollato come adepto di una fantomatica “cultura della morte” dai fautori della vita: chi sente “l’obbligo morale di vivere” o segue gli insegnamenti di una qualunque fede, non si avvarrà di questo diritto costituzionalmente garantito, ma non può pretendere che altri facciano altrettanto in omaggio a quel suo personalissimo “obbligo”.
Per restare ai “trattamenti salvavita”: il documento elaborato nel gennaio del 2007 dal Consiglio direttivo e dalla Commissione di Bioetica della Società Italiana di Nutrizione Parenterale ed Enterale sulle “implicazioni bioetiche della Nutrizione artificiale” precisa che essa “è da considerarsi, a tutti gli effetti un trattamento medico fornito a scopo terapeutico o preventivo, … non è una misura ordinaria di assistenza (come lavare o imboccare il malato non autosufficiente)”, e che, “come tutte le terapie mediche … richiede il consenso del malato” o del “suo tutore o rappresentante legale”, concetti ribaditi dal professor Franco Contaldo, presidente della Federazione delle Società Italiane di Nutrizione, il 10 maggio di quell’anno davanti alla Commissione Igiene e Sanità del Senato, presieduta allora da Ignazio Marino, che stava vagliando le varie ipotesi di disegno di legge sul Testamento biologico e avrebbe visto, dopo la caduta del governo Prodi, fare scempio del proprio lavoro svolto, con la beffa che lo stesso senatore Marino risulta ora primo firmatario del “testo unificato” licenziato a marzo dell’anno scorso dal Senato.
Nel documento, infine – approvato con 85 voti favorevoli, 5 contrari e 7 astensioni –, del Consiglio Nazionale della Federazione Nazionale Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri, riunito a Terni il 13.6.2009 per dare, in vista della ripresa dei lavori in Commissione Affari Sociali della Camera, presieduta da Antonio Tomassini, un contributo competente su alcuni aspetti particolari delle “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, i presidenti degli Ordini provinciali auspicano anzitutto che “su queste delicate ed intime materie” il legislatore voglia formulare “un ‘diritto mite’ che si limiti cioè a definire la cornice di legittimità giuridica sulla base dei diritti della persona costituzionalmente protetti, senza invadere l’autonomia del paziente e quella del medico prefigurando tipologie di trattamenti disponibili e non disponibili nella relazione di cura”. Il riferimento, ovviamente, è all’art. 3, comma 5, del testo votato in fretta e furia dopo la morte di Eluana Englaro, che all’epoca recitava: “Anche nel rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità … l’alimentazione e l’idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”. La Federazione, infatti, torna, più avanti nel suo documento, su questa, più di ogni altra vexata quaestio entrando nei dettagli: “In accordo con una vasta ed autorevole letteratura scientifica, la nutrizione artificiale è trattamento assicurato da competenze mediche e sanitarie …, calibrato su specifici problemi clinici mediante la prescrizione di nutrienti farmacologicamente preparati e somministrati attraverso procedure artificiali, sottoposti a rigoroso controllo sanitario, ed infine richiedente il consenso informato del paziente in ragione dei rischi connessi alla sua predisposizione e mantenimento nel tempo. La sua capacità di sostenere funzioni vitali, temporaneamente o definitivamente compromesse, ne motiva l’impiego in ogni progetto di cura appropriato, efficace e proporzionato, compresi quelli esclusivamente finalizzati ad alleviare le sofferenze. In queste circostanze, le finalità tecniche ed etiche che ne legittimano l’utilizzo definiscono anche i suoi limiti, sui quali può intervenire la scelta informata e consapevole, attuale o dichiarata anticipatamente, del paziente”.
Nutrizione e idratazione artificiali sono, “a tutti gli effetti”, trattamenti assicurati da competenze mediche, o sono invece “misure ordinarie di assistenza”, “cure normali”, “minimali”, “che d’ordinario sono dovute ad una persona malata” (“come imboccare il malato non autosufficiente”), “forme di sostegno vitale”, “un mezzo “naturale” [sic!] “di conservazione della vita, non un atto medico”, e via riepilogando, come vogliono i documenti dottrinali della Chiesa cattolica? Forniscono “cibo e acqua, anche per vie artificiali” oppure “un nutrimento come composto chimico … che solo medici possono prescrivere e che solo medici sono in grado di introdurre nel corpo attraverso una sonda naso-gastrica o altra modalità e che solo medici possono controllare nel suo andamento”? Ma soprattutto, fanno parte, i documenti dottrinali della Chiesa cattolica, delle “normative esistenti” in un Paese laico? Al punto di condizionare il legislatore? Dice bene l’arcivescovo emerito di Foggia-Bovino, monsignor Giuseppe Casale: fare della nutrizione artificiale “un obbligo, inserito in una legge, è arbitrario. Farne un precetto etico significa andare al di là di quella che è l’accettazione della vita” [6].
Per tornare alla circolare ministeriale contro i malvisti “registri”: non è quella, a sua volta, una “provocazione ideologica”? Avrà il desiderato successo? Sarà un altro flop come altri tentativi di questo governo di arrestare la ruota del tempo? Qualcuno farà un ricorso al TAR come successe con l’ukase regionale del presidente della Lombardia, Roberto Formigoni, e con l’“atto di indirizzo” nazionale del ministro Maurizio Sacconi, ideati per impedire l’esecuzione della sentenza definitiva della Cassazione nel caso di Eluana Englaro? Ben venga un’altra motivazione chiarificatrice come quella del TAR lombardo che bocciò il drastico provvedimento: “Il diritto costituzionale di rifiutare le cure, come descritto dalla Suprema Corte, è un diritto di libertà assoluta, il cui dovere di rispetto s’impone erga omnes, nei confronti di chiunque intrattenga con l’ammalato il rapporto di cura” – sentenza “aberrante” per il presidente Formigoni, “sentenza”, per il ministro del Welfare, “che non inficia il mio atto di orientamento generale al Servizio Sanitario Nazionale” –, e quella del TAR del Lazio che invece sconfessò anche “l’atto” ministeriale: “Il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari è fondato sulla disponibilità del bene ‘salute’ da parte del diretto interessato e sfocia nel suo consenso informato ad una determinata prestazione sanitaria. Da tale premessa consegue che i pazienti in stato vegetativo permanente, che non sono in grado di esprimere la propria volontà sulle cure loro praticate o da praticare e non devono, in ogni caso, essere discriminati rispetto agli altri pazienti in grado di esprimere il proprio consenso, possano, nel caso in cui la loro volontà sia stata ricostruita, evitare la pratica di determinate cure mediche nei loro confronti”.
“Carta canta” – meditate, gente, meditate.
NOTE
1) Costituzione della Repubblica Italiana: Art. 2 “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità …”; Art. 3 Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”; Art. 13 “La libertà personale è inviolabile …”; Art. 32 “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
2) Convenzione di Oviedo: Art. 5 (Regola generale) “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso”; Art. 9 (Desideri precedentemente espressi) “I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”.
3) Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea: Art. 1 (Dignità umana) “La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata”; Art. 2 (Diritto alla vita) “Ogni individuo ha diritto alla vita …”; Art. 3 (Diritto all’integrità della persona) “1. Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. 2. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: a) il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge …”.
4) Codice penale: Art. 51 (Esercizio di un diritto o adempimento di un dovere) “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità, esclude la punibilità …”.
5) Codice penale: Art. 610 (Violenza privata) “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni …”.
6) Giuseppe Casale, Per riformare la Chiesa. Appunti per una stagione conciliare, edizioni la meridiana/pagine altre, Molfetta (Bari), 2010, p. 45.
(9 dicembre 2010)