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Don Marco Dessì condannato a 6 anni in Cassazione per violenze su bimbi in missione, Il pedofilo beneficia di sconto per prescrizione. Ecco che vanno a fare certi "missionari"

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GalileoGalilei
view post Posted on 3/6/2007, 16:32 by: GalileoGalilei
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Il dentista-detective che ha smascherato Don Dessì


Cagliaritano, 39 anni, Gianluca Calabrese è il dentista-volontario che ha fatto scattare le indagini contro don Marco Dessì, il prete-pedofilo missionario in Nicaragua.

di GIORGIO PISANO
([email protected])
Che il prete fosse un maiale se n'è accorto tardi. Però se n'è accorto. E quando se n'è accorto ha smesso provvisoriamente di fare il dentista per indossare i panni dell'investigatore. Lo ha fatto con paura, con la morte nel cuore, sperando d'essersi sbagliato. Invece aveva visto giusto: don Marco Dessì, missionario di Villamassargia emigrato in Nicaragua per aiutare orfanelli e sbandati, era soltanto un pedofilo. Crudele, onnipotente e delirante, uno che violentava bambini e al culmine del piacere diceva: ecco, tu sei mio figlio ora, io ti ho generato. Don Marco Dessì, sessant'anni e una vita per gli altri (in tutti i sensi), è stato condannato in primo grado a dodici anni di reclusione. Dunque, in attesa del giudizio di Cassazione, va considerato presunto innocente. Anche se per altri, molti altri, è solo un maiale non presunto.

IL PRETE PEDOFILO. Un maiale vestito da sacerdote: perché ha approfittato della miseria, ha oltraggiato gli ultimi, ha imposto la legge del desiderio a innocenti che cercavano solo un piatto e un letto. L'uomo che l'ha smascherato è uno strano tipo, stranissimo anzi se si pensa agli standard di oggi. Si chiama Gianluca Calabrese, cagliaritano. Fa il dentista. Ha trentanove anni, sposato con Ignazia, commercialista. Cattolico non irreggimentato, ogni tanto impacchetta una tendina e se ne va a meditare in montagna. Dice che gli piace pregare. E ascoltare. Ascoltare cosa? «Ascoltare quello che mi sta intorno». Matto e lucidissimo, fastidiosamente iperrazionalista, non ha il culto della ricchezza. Non ha brividi per i cabrio che fanno tendenza e nemmeno per i Suv che sono un'autocertificazione su ruote di un benessere raggiunto ed esibito. Preferisce dirottare i suoi guadagni su quelli che non hanno niente e impegnarsi per loro.

IL DENTISTA. Diciamolo subito, fa ridere un dentista così, è un traditore della categoria, uno che estrae dai ricchi per dare ai poveri. Mica come quel suo collega sassarese esentasse (nel senso di evasore) che preferiva investire le parcelle in appartamenti e Lamborghini. Gianluca, che ha già la coroncina di capelli attorno al vuoto craniale come un ragioniere di banca invecchiato presto, ha scelto il volontariato laico. Lui dice che il movente è: senso di giustizia. Ma anche la speranza per un mondo diverso. Come se la carità potesse fare rivoluzioni. «Non le fa, certo. Ma a me la politica non interessa». Ammette che a spingerlo verso il volontariato è stato anche il senso di colpa, quel groppo che può colpire quando - tra tagliolini e bistecca - ti sparano in tivù gli occhi di un bambino affamato.

LA TEORIA. «Troppo comodo pensare che quel bambino non ce l'hai spedito tu nella merda. Sbagliato: ce l'hai spedito anche tu». Il bello di questo singolare dentista è che non pretende di dare lezioni a nessuno. Si muove con Ignazia, che è la sua anima e il suo contabile (per dovere d'ufficio) e va a fare il cavadenti gratis. Ora, uno che mette naso e pinze dentro la bocca del prossimo ama certamente andare in fondo alle cose. Ma lui lo ha fatto e lo fa con uno scopo preciso: passare su questa terra leggero ma con almeno un buon motivo. Mai e poi mai avrebbe immaginato di dover fare lo spione, il grande accusatore, soprattutto abbattere quello che sembrava un totem: di fratellanza, giustizia, applicazione concreta del Vangelo.
Cos'è Solidando?
«È un'associazione di volontariato che abbiamo costituito dopo una visita in Nicaragua tre anni fa. Io ci andavo per conto mio già da tempo».
Cosa fa il dentista volontario?
«Cura gratuitamente pazienti che non hanno la possibilità di pagare. Nel 2004, insieme ad altri colleghi, abbiamo raccolto i soldi per fare un cinema itinerante».
Itinerante, dove?
«Tra i villaggi, le scuole, le missioni come quella di don Marco che raccoglieva complessivamente milleduecento ospiti».
Di che età?
«Dai tre ai sedici anni, dalla scuola materna alle superiori, ragazzi di famiglie poverissime e rimasti soli a causa della guerra civile».
Quando ha conosciuto don Marco?
«Proprio nel '91. Ci ospitò in una delle sue missioni. Hogar del niño, si chiamava: Casa del bambino».
Che impressione le fece?
«Ottima. Non era uomo di preghiera ma faticava dalla mattina alla notte. Mi piaceva perché era fuori dell'ordinario, un sacerdote molto laico».
E disponibile.
«Di più, aperto. Non poneva vincoli al volontariato: vuoi fare cinema?, fai cinema. È grazie a lui se ho convinto tanti a venire in Nicaragua».
Il primo sospetto.
«Ad alcuni, a cominciare da Ignazia, non quadrava la rendicontazione economica delle missioni. Chessò, gli davi ventimila euro ma poi era tempo perso chiedergli che ne aveva fatto».
Non rispondeva?
«Sì ma in maniera vaga. Io, in ogni caso, non ho avuto cattivi pensieri».
In che senso?
«Non ho pensato male. Però, per credere devo vedere. Altrimenti resto scettico».
Quando succede?
«Estate di due anni fa. Ero a Cagliari e un amico mi sussurra che don Marco non è affatto quel che penso. Resto di ghiaccio ma non mi convinco».
Fedelissimo fino alla morte.
«Sì, perché avevo un'idea precisa di lui. Era un sacerdote speciale per me, quindi era inevitabile che diventasse oggetto di chiacchiere. In ogni caso l'amico di Cagliari torna alla carica e quasi con aria di sfida mi provoca: indaga, mi dice».
E lei?
«Torno in Nicaragua. Era agosto del 2005, incontro Marlon Rivas, un ragazzo che non vedevo da molti anni. Lo avevo lasciato bambino in un orfanatrofio di don Marco. Era un adolescente, allora. Il prete mi ha fottuto, mi fa. Ti ha imbrogliato, chiedo io? No, fottuto, proprio fottuto. Come dite voi quando uno abusa sessualmente di un altro? Resto secco ma non riesco tuttavia a sentirmi davvero sicuro di quelle parole».
E che altro voleva?
«Non lo so. Avevo davanti una straordinaria figura di benefattore, un prete sicuramente potente ma altrettanto generoso, buono. I bambini lo chiamavano babbo, lo adoravano».
Quanti ne ha violentato?
«Sei sono quelli che hanno testimoniato al processo ma io credo siano almeno un centinaio. Era in Nicaragua da 35 anni e non si è fermato un attimo».
Come finisce con Marlon Rivas?
«Finisce che gli chiedo di portarmi altre testimonianze, una non mi può bastare. E le testimonianze arrivano. A quel punto mi arrendo. Comincio a pensare ma sono scosso: è stato come se avessi conosciuto Gesù e poi, d'improvviso, mi si fosse presentata davanti un'altra persona con lo stesso nome».
Va in crisi?
«Inevitabile. Mi domando come ho fatto a non accorgermene prima, come ho potuto non cogliere certi dettagli. Mi spavento pensando che in vita mia non avevo mai visto così intimamente legati il bene e il male. Com'è possibile che siano uno la faccia nascosta dell'altro?».
Poi?
«Decidiamo di approfondire, di indagare. Nel gennaio del 2006 torniamo in Nicaragua con una telecamera digitale: volevamo raccogliere le testimonianze dal vivo».
Il prete se ne accorge?
«No, anche perché ci eravamo organizzati bene. Don Marco era amico del presidente della repubblica Ortega, del capo della polizia locale, del nunzio apostolico. Ci avesse scoperto, sarebbe stata la fine».
La fine?
«Il Nicaragua non è l'Europa, è Far West: uccidere un uomo non è un problema. Ci siamo mossi con la massima cautela. Mi sentivo sempre più tormentato».
Perché?
«Mi faceva orrore la mia ipocrisia: di giorno baci e abbracci e la notte uscivo di nascosto. A filmare, a raccogliere prove contro una persona che mi sorrideva, mi stringeva la mano, mostrava di stimarmi».
Lui non ha davvero mai sospettato?
«No. Abitava a una decina di chilometri dalla missione. Aveva giustificato questa scelta asserendo che, stando in sede, i postulanti non gli avrebbero dato tregua».
L'ha ricevuto un invito a casa sua?
«No».
Strano: prete sardo, volontari sardi. Un bicchiere insieme è d'obbligo.
«Ci ho pensato soltanto più tardi, a cose fatte. No, non ci ha mai detto venite a casa mia».
Cosa succede dopo?
«Rientrati a Cagliari riceviamo una telefonata dal suo braccio destro. Vuol sapere cosa ci sia di vero sulle voci che circolano, voci che parlano di un'indagine segreta su pedofilia e dintorni».
Che rispondete?
«Che sono sciocchezze, naturalmente. E lui dice: okay, per l'Italia purtroppo non posso fare niente ma a certa gente del Nicaragua penserò io».
Che significa?
«Quello è un posto di banditi, vige la legge della violenza, del più forte. Con due centesimi si può corrompere chiunque o quasi».
Cosa decidete di fare?
«Dopo un periodo agitato e di paura, stabiliamo che dobbiamo agire. Ma agire in modo pesante: bisognava dargli un colpo secco, mortale, altrimenti ci avrebbe fatto a pezzi. Così, ci appelliamo al vescovo di Cagliari, monsignor Mani ».
E Mani?
«Ci manda a Roma da un cardinale che visiona i video, si atterrisce ma non dice una parola. Ricordo con grande pena che non riusciva a trovare il prelato giusto a cui affidare questa vicenda. Tanto più che per il Vaticano era storia vecchia».
Vecchia?
«A Roma sapevano tutto già dal '91 e avevano invitato don Marco a ritirarsi subito in solitaria preghiera nel convento dei frati di Frosinone. Don Marco non aveva obbedito: se ne infischiava dei precetti del Vaticano. Aveva gli amici giusti».
Dal '91 al 2006 passano quindici anni.
«Lo so. Solo di recente la Chiesa ha assunto una linea unitaria contro i preti pedofili che fino a non troppo tempo fa se la cavavano con un trasferimento, il silenzio delle alte sfere e tre avemaria».
Meglio tardi che mai.
«Ora la linea è cambiata solo per ragioni economiche. Dopo lo scandalo dei preti pedofili in Usa, 45 milioni di dollari per il risarcimento alle vittime, il Vaticano è diventato più sensibile. Gli hanno toccato l'anima, cioè la cassaforte».
Conseguenze?
«Mentre prima non si presentava mai denuncia alla magistratura ordinaria, adesso la musica è cambiata. E proprio questo ha tradito don Marco. Non era aggiornato: e si è rovinato con le sue mani».
Si spieghi meglio.
«Della giustizia ecclesiastica se ne infischiava. Per questo andava e veniva dal Nicaragua senza timori. Quando qualcuno gli ha fatto sapere che lo avevamo denunciato alla magistratura italiana, ha commesso un passo falso, la prova della colpevolezza».
Che ha fatto?
«Ha celebrato una messa lacrime e sangue annunciando che andava all'estero per affrontare un male che non dava scampo. Poi, ha intestato ad amici tutte le sue proprietà. Non immaginava di essere già sotto intercettazione».
Perché, che ha fatto?
«Ha ordinato a un suo sgherro di minacciare i testimoni, tentare di corromperli. Nel frattempo dava disposizioni per mettere al sicuro i suoi beni. Lo hanno arrestato mentre si preparava a tornare in Nicaragua».
Sbagliato dire che ha preso molti bambini per fame?
«Purtroppo no».
E quelli che non ci stavano?
«Li ricacciava in strada. Attenzione, però: don Marco non usava violenza. Solo e sempre rapporti consenzienti: i bambini mica capivano, si fidavano di lui».
Ha fatto passare tanto tempo prima di dare l'allarme: perché?
«Bisognava tenere i nervi a posto, raccogliere prove schiaccianti. Ci fossimo mossi sull'onda della fretta, don Marco ci avrebbe sbaragliato».
Lo ha visto al processo?
«Sì. Per un attimo i nostri sguardi si sono incrociati».
E cosa si sono detti?
«Nulla. Purtroppo non c'era più nulla da dire».
Ha provato qualcosa vedendolo in manette?
«Un profondo senso di pena. Don Marco è malato, solo malato. Credo che il modo migliore di aiutarlo sia tenerlo in carcere. Ma dev'esser chiaro che siamo di fronte a un uomo che ha fatto grandissimo bene e grandissimo male. Tutta questa storia mi fa pensare al fior di loto».
Per cosa, per l'eleganza?
«Il fiore di loto è una meraviglia che sboccia guardando il cielo e affondando le radici in acquitrini putridi. Insegna che dal male può nascere il bene. Basta volerlo».
Morale?
«Una, importante: mai scoraggiarsi, mai tacere. Anzi, chi sa parli. Durante questa avventura insieme a Solidando e Rock no war ho conosciuto persone straordinarie, bellissime. Magistrati compresi».
E allora?
«La solidarietà e gli aiuti non devono fermarsi. A me resta in eredità un dolore infinito».
Non ci dirà che ha perdonato?
«E come potrei condannare? Il perdono nasce dalla compassione verso il prossimo. Chi sono io per giudicare?».


03/06/2007 14:39
 
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