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Il Vaticano e la sua ‘giustizia’-shock sul caso Dell’Agli
Le testimonianze, in sede ecclesiastica e nel procedimento penale per violenza sessuale che vedeva indagato Giovanni Salonia dopo la nomina a vescovo e l’immediato dietro-front pontificio, tasselli decisivi nel puzzle di una spy-story vaticana culminata nell’ingiusta punizione al fondatore della fraternità di Nazareth Nello Dell’Agli. Le menzogne, anche alla stampa, del potente frate cappuccino (infedeltà al celibato ammessa invece dinanzi ai pm) alla base della sua ‘assoluzione’ canonica e della falsa tesi della volontaria rinunciaDi Angelo Di Natale il 14 Ott 2023
Non so francamente quale possa essere nella percezione e nella coscienza comuni l’importanza di una condanna, nel processo penale canonico, inflitta dalla giustizia del Vaticano, che è uno Stato: il più piccolo al mondo ma pur sempre, e a tutti gli effetti, un’entità istituzionale statuale comprensiva di tutte le potestà di uno Stato sovrano. Poiché tale sovranità, attraverso la Santa Sede, si dispiega – ben oltre quel meno di mezzo chilometro quadrato che delimita il suo territorio fisico – verso i cattolici di tutto il mondo stimati in oltre un miliardo e trecento milioni (una persona su sei nel pianeta), ritengo che per i fedeli, almeno quelli autenticamente credenti e osservanti delle regole, tale percezione e tale coscienza siano vive e sensibili.
Il Vaticano è una monarchia assoluta, con un capo, il pontefice, nel quale sono concentrati tutti i poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. A fronte di questa massa di potenziali ‘sudditi’, esso conta appena 800 cittadini residenti nel proprio territorio e circa 4800 dipendenti, con un bilancio d’esercizio, quello di Stato in senso stretto, di circa 800 milioni di euro.
In effetti il giro d’affari è ben più alto se aggiungiamo: il ricavato, pari a circa un miliardo, dato dall’8 per mille dell’irpef dei contribuenti italiani; la gestione dei beni interni affidata al Governatorato; di quelli esterni che ammontano a tre miliardi spettante all’Apsa (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica) la quale controlla anche il portafoglio degli investimenti della Santa Sede del valore di circa un miliardo e mezzo; infine la gestione di un pacchetto di circa cinque miliardi nelle mani dello Ior, l’Istituto delle opere di religione investito nel tempo da una lunga sequenza di scandali il più grave dei quali rimane quello, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, della gestione del vescovo Paul Marcinkus, nominato al vertice della banca vaticana da Paolo VI nel ’71. Gestione marchiata dai rapporti d’affari con la Banca privata di Michele Sindona, dal crac del Banco ambrosiano di Roberto Calvi e dalla complicità con la mafia e con la P2 negli anni in cui questa muoveva a suon di stragi l’attacco fascista alla democrazia, in un intreccio malavitoso degno della spy story di criminali di rango internazionale.
Per quanto non vi siano dati certi, in assenza di un censimento completo degli assets e nella carente trasparenza dei canali finanziari in entrata e in uscita, il patrimonio complessivo del Vaticano è ampiamente superiore ai dieci miliardi di euro.
Ma qui ciò che a noi interessa di questo Stato – giuridicamente fondato sui Patti lateranensi del 1929 – è il versante giudiziario, ovvero l’applicazione delle sue leggi ai sottoposti, con potestà piena ed esclusiva in ogni materia dentro le proprie mura; limitatamente all’ambito disciplinato dal proprio codice di diritto canonico sull’intera comunità di fedeli nel mondo. Interesse, alla base di quest’inchiesta giornalistica, derivante dallo scalpore suscitato dalla vicenda di un sacerdote di Ragusa condannato con la pena massima prevista dal codice di diritto canonico, equivalente all’ergastolo nell’ordinamento penale vigente nella Repubblica italiana o alla pena di morte nel Regno d’Italia e nella successiva fase costituente fino al 1947: la dimissione dallo stato clericale. Nella gamma delle pene questa è la più pesante, prevista quindi per i delitti più gravi come, per esempio, l’omicidio.
Un innocente, falsamente imputato, condannato con la pena massima
Non è nostro intento discutere dei ‘delitti e delle pene’, o della congruità di queste ultime fissata nel codice, ma dell’applicazione della norma nel caso concreto e, soprattutto, dell’autentico scandalo costituito da una sentenza che appare assurda, illogica, immotivata, arbitraria, in contrasto con i dati di realtà e con quelli processuali.
Magari la perdita dello status di sacerdote, alle persone comuni che non fanno parte del clero, potrà sembrare una cosa lieve (perciò in premessa il richiamo alla percezione corrente) ma si tratta, comunque, della pena massima, prevista quindi per il delitto più grave che un chierico possa commettere secondo il processo penale canonico: si consideri anche che l’ordinamento canonico, anche dopo l’ultima riforma di papa Francesco del 2020, rimane la fonte normativa principale dell’intero sistema giurisdizionale del Vaticano e, per suo tramite, della Santa sede che opera nel mondo.
Pertanto la contestazione del delitto, la formulazione dell’accusa, l’imputazione, la ricerca e la formazione della prova, l’istruttoria e la sentenza devono rispondere ai canoni (i ‘canoni’ appunto, talmente importanti da avere dato nome e forma al concetto stesso di norma giuridica universale) previsti dalla legge applicabile e non possono violarla diventando abuso ed arbitrio. E invece l’analisi rigorosa di ogni elemento della vicenda conduce a questa sola conclusione: una macroscopica ingiustizia conseguita attraverso la totale falsificazione degli elementi processuali; così macroscopica da spostare l’intera questione sul perché. Come è stato possibile un ‘abbaglio’ di tali dimensioni? Poiché nessun errore, anche il più grave e grossolano, potrebbe mai giustificare l’assurda sentenza, non può trattarsi di errore ma di una volontà deliberata dell’organo giudicante. Rispetto alla quale s’impone d’interrogarsi sul perché.
Protagonista di questo caso è Sebastiano, noto come Nello, Dell’Agli, 63 anni, ordinato sacerdote 12 anni fa in età avanzata, teologo, docente e psicoterapeuta, promotore della fondazione della ‘fraternità di Nazareth’, associazione privata di fedeli eretta nel 2008 dal vescovo della diocesi di Ragusa Paolo Urso che ne approva la regola. Per effetto della condanna, inappellabile, potremmo definirlo un ‘ex sacerdote’, definizione sostanzialmente appropriata perché l’amissio status clericalis lo dispensa, in questo caso per effetto di condanna penale, dagli obblighi del sacramento dell’ordine ed egli non potrà esercitare il ministero. Per il diritto canonico però <<la sacra ordinazione, una volta validamente ricevuta non diviene mai nulla>> (canone 290): pertanto lo status sacerdotale non può mai essere perduto in quanto l’ordinazione è un sacramento che, come tale, al pari del battesimo, conferisce un carattere indelebile.
La condanna ricevuta non lo attinge solo come sacerdote, ma anche nella sfera professionale, e quindi nella vita materiale, in quanto gli preclude l’insegnamento. Di fatto Dell’Agli ha perso il lavoro. Pena doppia e beffarda se si considera che, come abbiamo visto, egli è stato innanzitutto un professionista e solo in seguito, all’età di 51 anni, sacerdote. La pena inflittagli quest’anno lo colpisce per sempre anche nei titoli (pontifici) di dottore in teologia e psicoterapia che lo abilitano all’insegnamento, finora esercitato nella facoltà di scienze della formazione della Lumsa, nella facoltà teologica di Sicilia e nell’università pontificia Antonianum di Roma.
Le spiegazioni trasparenti da una parte, il silenzio di un potere oscuro dall’altra
In sintesi i fatti. Il 30 luglio 2021 l’associazione fraternità di Nazareth viene soppressa: vedremo in seguito quando e come ha origine la vicenda. Per adesso limitiamoci alle comunicazioni dell’autorità ecclesiastica che assume il drastico provvedimento. Ecco tutto ciò che la diocesi riesce a dire per spiegarlo: <<a seguito delle conclusioni cui è pervenuto il commissario pontificio e visitatore apostolico dell’Associazione privata di fedeli Fraternità di Nazareth, il Vescovo, monsignor Giuseppe La Placa, ha disposto la soppressione della suddetta associazione con un decreto del 30 luglio scorso (prot. 924/21), non sussistendo ‘più i requisiti minimi perché possa continuare’».
Due anni dopo, il 19 giugno 2023 giunge la condanna di Dell’Agli per decisione del dicastero per il clero, comunicata dal vescovo di Ragusa Giuseppe La Placa a tutti i sacerdoti.
Sorprende innanzitutto il silenzio su tale punizione estrema da parte di chi la decide e di chi, ad ogni livello, contribuisce a determinarla. Silenzio assoluto sull’intera vicenda, sia da parte delle autorità vaticane e degli organi del processo, che da parte della diocesi di Ragusa direttamente interessata. Una prima considerazione s’impone: se alla fine viene irrogata la pena massima possibile, ciò vuol dire che dovremmo essere di fronte ai delitti più gravi. Eppure, niente, silenzio assoluto, non senza imbarazzo: non per i delitti, inesistenti, ma per la pena, assurda e imbarazzante perchè recante, in bell’evidenza nel decreto che la commina, lo stigma del sopruso e del capriccio malandrino del potere.
Dall’altra parte invece disponibilità a chiarire e spiegare. L’imputato condannato, l’ormai ex sacerdote nel senso chiarito, dopo la comunicazione pubblica del provvedimento da parte della diocesi, dimostra di non avere alcunchè da nascondere del proprio operato, analizzando gli elementi del processo e del dispositivo finale, non solo con proprie comunicazioni, ma anche rispondendo a domande e misurandosi con le singole contestazioni. In proposito merita di essere letta e vagliata per intero una sua dichiarazione alla stampa che affronta e demolisce ogni punto della sentenza (qui). Di grande interesse anche le sue risposte (qui) alle domande che gli sono ulteriormente poste, nel silenzio di chi avrebbe dovuto invece puntualmente spiegare le assurde conclusioni del provvedimento. Qui una lettera-testimonianza agli organi di informazione da parte di tre persone appartenenti alla fraternità ormai soppressa.
Già questo elemento, da solo, – la disponibilità trasparente dell’imputato e il silenzio dell’istituzione che lo condanna, compresi i relativi portatori d’interessi – fornisce solitamente una guida utile alla comprensione della realtà. Che comunque emerge in tutta la sua evidenza appena si entra nel merito, si guardano gli atti processuali, si confrontano le accuse con le prove emerse e, infine, si valuta la sentenza: più grossolana e meno convincente della trovata di un azzeccagarbugli; più simile all’autoreferenziale pretesa di brutti ceffi che – in romanesco verace ma in abiti da giudici – sembrino ispirarsi al ‘marchese del grillo’ o cedere alle sue pratiche.
Un ‘tribunale ad hoc’ e nessuna accusa vera
Di seguito solo qualche cenno, sulla base di attenta verifica documentale di quanto asserito dall’ex sacerdote.
1 .La condanna non è emessa da un giudice naturale, ma confezionata da un tribunale ad hoc, al tempo del vescovo Carmelo Cuttitta, successore di Urso sotto il quale è nata la fraternità di Nazareth.
2. Nel merito la condanna risulta pronunciata per fatti non corrispondenti ai capi d’accusa o mai contestati, non provati nel processo e, in alcuni casi, negati proprio dal processo che fornisce prova del contrario. Per tutti basti l’esempio del promotore di giustizia (figura equivalente al pubblico ministero del nostro processo penale) che afferma: <<non vi sono riscontri di movimenti di contanti che … sicuramente ci saranno stati>> (sic!).
3. A proposito del ‘tribunale ad hoc’, da rilevare che esso, per alcuni capi d’accusa chiede la condanna (per esempio relativamente all’imputazione di “assoluzione del complice nel peccato turpe e di violazione del sigillo sacramentale”) senza però poterla emettere, trattandosi di delicta graviora, per difetto di competenza la quale spetta invece alla congregazione per la dottrina della fede, appunto il tribunale superiore per i delitti più gravi. Tale giudice, ‘naturale’ appunto per competenza, proscioglie Dell’Agli per mancanza assoluta degli elementi minimi necessari per avviare un processo.
4. Insomma, non ci sono fatti, non ci sono accuse che reggano in giudizio, non ci sono prove ma c’è una sola cosa che vale per tutte: il ‘tribunale ad hoc’, un tribunale di prima istanza la cui sentenza quindi dovrebbe poter essere esaminata da quello d’appello. Ma all’imputato ciò non viene consentito. Perché sulla sentenza del tribunale ad hoc (<<imposto a suo tempo all’allora vescovo Cuttitta quando già stava male ed era prossimo alle dimissioni>> chiarisce Dell’Agli), viene apposta la firma del pontefice che equivale ad una pietra tombale. Del resto egli è un monarca assoluto ed è in suo nome che viene amministrata la giustizia nel suo Stato. Sarebbe interessante sapere chi e con quali argomenti convinca papa Francesco a limitare l’integrità del diritto di difesa che, così come altri princìpi cardine propri degli Stati a statuto costituzionale, figura tra gli orientamenti del Vaticano storicamente ispirato – fin dal codice penale Zanardelli, pur nella diversa natura del potere dei suoi organi – all’ordinamento giudiziario italiano.
Se questi sono solo alcuni esempi, emblematici dell’assurdità della sentenza e della sua imposizione blindata contro ogni ‘rischio’ di correzione dei suoi errori e dei suoi orrori, rimane la domanda del perché tutto questo: una via per trovare la risposta la fornisce, ancora una volta, l’imputato che, come già precisato, non si sottrae al confronto sulla vicenda.
Il teste Urso: <<c’era in chi accusava Dell’Agli un tentativo di vendetta>>
Nella nota alla stampa sopra richiamata Dell’Agli riporta la testimonianza del vescovo Urso: «Nelle accuse che ricevetti ebbi l’impressione che c’era in chi accusava un tentativo di vendetta. A me sembrava che ci fosse qualcuno che voleva far pagare a Sebastiano qualcosa».
Scrive ancora l’ex sacerdote: <<nel 2017, e poi nel 2018 ho ricevuto due precise richieste di testimonianza: una dall’autorità vaticana riguardo a una nomina episcopale, l’altra dalla procura di Roma in un processo intentato da una suora, contro lo stesso ex candidato all’episcopato. Dopo tali mie testimonianze, la fraternità di Nazareth è stata prima commissariata e poi sciolta e io sono stato sottoposto a un processo ecclesiastico. Devo amaramente concludere che se fossi stato omertoso, rifiutandomi di testimoniare, non avrei subito tutto quello che ho subito>>.
Parole chiare, precise, tali da indicare la via della ricerca di ogni spiegazione. Occorre solo esaminare con rigore i fatti, ricostruirli, verificare la fondatezza delle affermazioni dell’imputato condannato, approfondire, documentare e scoprire le vicende sottostanti. E ciò non solo per svelare il perché di un clamoroso caso di ingiustizia, ma anche per portare alla luce fatti di sicuro interesse che coinvolgono un ‘quasi vescovo’, in effetti un vescovo nominato dal papa ma poi non consacrato, e quindi non insediatosi, formalmente per sua rinuncia.
Si tratta di Giovanni Salonia, nominato da Bergoglio il 10 febbraio 2017 vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Palermo, carica che lo avrebbe portato ad essere il vicario generale dell’arcivescovo Corrado Lorefice il quale, di fatto, all’epoca lo sceglie e lo vuole con se alla luce dei rapporti con lui intrattenuti a Modica quando egli era arciprete del duomo di San Pietro e Salonia responsabile della formazione permanente, e prima ancora ministro provinciale, dei frati cappuccini. I due peraltro per decenni incrociano interessi ed esperienze comuni in attività pastorali e in quelle d’insegnamento.
Chi è Salonia quando il 10 febbraio 2017, a 70 anni, viene ordinato vescovo? Per la precisione, come detto, vescovo ausiliare, figura prevista nelle diocesi più grandi (Roma e Rio de Janeiro ne hanno otto) proprio per affiancare Lorefice, il prete che a dicembre 2015, all’età di 53 anni, il pontefice pone al vertice della chiesa siciliana nominandolo arcivescovo metropolita di Palermo, primate di Sicilia e gran cancelliere della pontificia facoltà teologica di Sicilia. Peraltro dallo scorso anno, nel nuovo corso della Cei guidata da Matteo Maria Zuppi – nominato arcivescovo di Bologna (era vescovo ausiliare a Roma) lo stesso giorno di Lorefice -, questi è vice presidente della Conferenza episcopale siciliana.
L’assurda e ingiusta condanna è la ritorsione per una testimonianza in giudizio?
Salonia, 76 anni – licenza in teologia e in scienze dell’educazione – è un frate cappuccino di lungo corso. Entrato oltre sessant’anni fa, quindicenne, in convento dove per nove anni è ‘fra Saverio, nell’Ordine dei frati minori cappuccini della provincia di Siracusa, sacerdote a 24 anni, è direttore degli studenti cappuccini a Ragusa, definitore provinciale, vicario provinciale, ministro provinciale, superiore e maestro dei novizi a Modica. Intensa la sua attività di psicoterapeuta, di docente e di autore di pubblicazioni (come Dell’Agli), all’insegna della specializzazione conseguita a San Diego in California nel 1987, in psicoterapia della Gestalt, un metodo che valorizza l’esperienza corporea del contatto.
Salonia, pur nominato dal papa, non diviene vescovo e sul caso si consuma un ‘giallo’. Risolto due mesi dopo, con la sua apparente rinuncia, nelle segrete stanze del potere vaticano e sulla stampa: passaggio inevitabile dopo la solenne nomina pontificia pubblicata negli Acta Apostolicae Sedis e nel bollettino quotidiano a cura della sala stampa. Rinuncia comunicata e motivata in una lettera che tutti, o quasi, prendono per buona. In essa però Salonia non dice affatto la verità: anzi dice esattamente il suo contrario che sottoscrive, con la propria firma su un atto così solenne, e propala a presbiteri, diaconi e fedeli.
Ma andiamo con ordine. Appena nominato, il 10 febbraio 2017, Salonia sprizza entusiasmo e rivolge ai clero dell’arcidiocesi di Palermo un lungo messaggio in cui definisce <<un grande dono essere ausiliare di don Corrado, il pastore e fratello che ho conosciuto da vicino nei recenti anni di permanenza a Modica>>; invita i diaconi <<che saluta nel nome di Cristo servo>> a <<mantenere vigile l’attenzione ai più piccoli, ai più poveri, agli ammalati, così da aiutare tutta la Chiesa ad abitare con verità le vie delle ‘periferie umane’>>; arriva perfino a comunicare il motto episcopale prescelto, tratto dalla lettera di Paolo di Tarso agli Efesini ‘per edificare il corpo di Cristo’ perché – spiega – <<il corpo di Cristo ricapitola la storia della salvezza>>.
Scopriremo che ben presto, neanche 48 ore dopo, l’unica salvezza della quale il neo vescovo debba occuparsi è quella della propria reputazione attraverso la costruzione triangolare in gran segreto, con l’arcidiocesi di Palermo e la Santa Sede, di una personale e rovinosa via di fuga dall’incarico prima accolto con giubilo: scappatoia necessaria, per ordine papale, a mettere a tacere fatti compromettenti del suo passato di sacerdote e di religioso.
Salonia vescovo mancato: su di lui non calunnie ma verità
e la sua non fu una rinuncia volontaria
Ben presto affiorano pubblicamente i primi segni di quello che sarà un colpo di scena, quando, un mese dopo la nomina e la sua pubblicazione, filtra la notizia che il nunzio apostolico in Italia Adriano Bernardini chiede a Lorefice di non dare corso all’imminente consacrazione per la necessità di un ‘supplemento d’indagine’. Bernardini è colui che, proprio in qualità di nunzio in Italia, il 10 febbraio <<consegna la volontà di papa Francesco>> al neo vescovo, come questi scrive nell’incipit del messaggio all’arcidiocesi.
Colpo di scena lo è, ed è senza precedenti se si considera che la nomina di un vescovo è la risultante di un procedimento complesso e articolato basato su una lunga istruttoria che scandaglia la biografia dei candidati. A dire il vero, nel caso di un ‘ausiliare’ la procedura è più semplice in quanto è il vescovo diocesano, e non il nunzio apostolico dopo lunghe consultazioni con il clero, a scegliere tre sacerdoti da presentare per la nomina. Scelta cui Lorefice si decide con un certo ritardo, dopo avere consultato per otto mesi diaconi e presbiteri dell’arcidiocesi sul nome del vicario generale, un sacerdote nominato ad ottobre 2016, come qualcuno, quando esplode il caso in un clima di polemiche e veleni, è pronto a rinfacciargli.
Tornando alla procedura, anche nel caso della nomina di un vescovo ausiliare il nunzio ha pur sempre il dovere di raccogliere informazioni e opinioni sui nomi selezionati e il dicastero competente può non sceglierne alcuno e chiedere un diverso elenco. Il candidato infatti, secondo il canone 378, deve essere <<eminente per fede salda, buoni costumi, pietà, zelo per le anime, saggezza, prudenza e virtù umane, e inoltre dotato di tutte le altre qualità che lo rendono adatto a compiere l’ufficio in questione>>. Ecco perché fa scalpore il supplemento d’indagine chiesto dal nunzio a nomina già avvenuta e pubblicata. E se questa verità trapela, anziché essere soffocata nelle manovre interne volte alla costruzione di quella via di fuga, è merito del FarodiRoma, quotidiano on line attivo dal 2015, ricco di informazioni dettagliate sul Vaticano, edito in quattro lingue – italiano, francese spagnolo e portoghese – proprio quelle dei paesi in cui la Chiesa cattolica è più forte e strutturata. Infatti questo organo d’informazione è il primo, il 19 marzo 2017, con un articolo di Francesco Grana, a dare la notizia, poi ripresa da altri quotidiani, dello stop alla consacrazione di Salonia imposto dal nunzio Bernardini al vescovo diocesano Lorefice.
Un mese dopo, il 17 aprile, è ancora FarodiRoma a riferire che la decisione è ormai presa definitivamente: <<giovanni Salonia – scrive ancora Grana – non riceverà l’ordinazione episcopale. Una decisione che arriva dopo poco più di due mesi dalla pubblicazione della nomina con uno stop quasi immediato, imposto dalla Santa Sede, al quale è subito seguito un supplemento d’indagine. Si valuta anche la formula con la quale sarà resa pubblica la “rinuncia” di monsignor Salonia al ruolo di vescovo ausiliare di Palermo. Il Papa, che è già stato consultato e al quale spetterà anche in questo caso l’ultima parola, si è mostrato disponibile a un’espressione inedita per annunciare il passo indietro del frate cappuccino con la speranza che la vicenda sia chiusa rapidamente. Salonia avrebbe chiesto di precisare che la sua rinuncia è dovuta a ‘voci calunniose’ (la via di fuga cui si accennava prima, n.d.r). Una vicenda che fin dalla sua genesi ha irritato non poco il clero palermitano dopo che, per otto mesi, Lorefice lo aveva consultato per scegliere il vicario generale nella persona di monsignor Giuseppe Oliveri, nominato anche moderatore della curia>>.
Per la cronaca, Oliveri, sacerdote oggi sessantottenne, designato vicario generale quattro mesi prima della nomina di Salonia – il quale con lo status di vescovo avrebbe affiancato Lorefice e ne sarebbe stato il nuovo e più titolato vicario generale – ancora oggi conserva il suo incarico perché, sei anni dopo l’incidente, l’arcidiocesi non ha ancora un vescovo ausiliare.
L’ultimo è Carmelo Cuttitta, in carica nel capoluogo siciliano fino alla sua nomina a vescovo di Ragusa, il 7 ottobre 2015, stessa data dell’ordinazione di Lorefice.
L’arcidiocesi di Palermo, Lorefice, il vescovo ausiliare mancato
e la gestione Romeo-Cuttitta: la copertura dei preti pedofili
Cuttitta per otto anni, dal 2007, è ausiliare del predecessore di Lorefice, Paolo Romeo, prelato siciliano di lungo corso, per 32 anni vescovo e per cinque cardinale al momento della pensione, nunzio apostolico in giro per il mondo (Haiti, Colombia, Canada) e poi in Italia prima di diventare nel 2006 arcivescovo di Palermo e di indossare, nel 2010, la porpora cardinalizia. Dei suoi nove anni di guida dell’arcidiocesi di Palermo e degli otto a capo della conferenza episcopale isolana, oltre al completamento dell’iter di beatificazione di Pino Puglisi avviato dal predecessore Salvatore De Giorgi, si ricordano l’insabbiamento, nel 2012, della proposta di un osservatorio ecclesiale sulla mafia da istituire nella conferenza episcopale siciliana e lo scandalo della mancata denuncia del prete pedofilo Roberto Elice, arrestato a febbraio 2016 per violenza sessuale nei confronti di bambini della chiesa Maria Santissima Assunta, in via Perpignano a Palermo, di cui è parroco. Romeo ne è a conoscenza da un anno e mezzo per stessa ammissione del sacerdote ma non fa alcuna segnalazione alla polizia giudiziaria la quale si trova solo in seguito, per una casualità fortunata, a potere indagare per altra via, grazie alla testimonianza di un bambino (uno solo dei tanti abusati), mentre il sacerdote, un anno e mezzo prima di essere arrestato, ammette al cardinale Romeo che sono molteplici le piccole vittime delle sue violenze.
Se la polizia non avesse scoperto quegli abusi grazie a notizie, acquisite solo successivamente, in modo diretto e nonostante il silenzio del prelato, quel prete pedofilo poi arrestato sarebbe rimasto libero per sempre di reiterare i suoi reati come dimostra l’impietosa casistica in materia: ogni denuncia interna alla Chiesa produce, nel migliore dei casi, un trasferimento in altre parrocchie dove il predatore sessuale è libero di scorrazzare, violando i bambini a lui affidati, fino a nuovi scandali e, se va bene, a nuovi trasferimenti. La realtà dimostra che, in Italia, solo con la denuncia alla magistratura penale gli accusati vengono fermati, i fatti seriamente accertati e i responsabili puniti. E accade inoltre, in Italia e in Spagna (meno o per nulla in altri Paesi) che il clero non collabori affatto e faccia tutto il possibile per nascondere gli abusi sessuali compiuti da suoi membri in danno di minori.
Tant’è che – ma con quanto ritardo – il 17 dicembre 2019 papa Francesco pone un argine a questo scandalo facendo cadere il segreto pontificio sugli abusi sessuali. Una svolta storica, affidata ad un rescritto concernente i delitti contro il sesto comandamento, elencati in dettaglio dall’articolo 1 del Motu proprio ‘Vos estis lux mundi’ emanato sette mesi prima, il 7 maggio. Tali delitti sono tutti quelli riguardanti gli abusi sessuali commessi da uomini del clero in danno di minori o persone fragili, nonché gli atti di copertura dei colpevoli e di depistaggio delle indagini.
Vero è che il cardinale, Romeo, e il vescovo, il suo ausiliare Cuttitta, trattano gli scandali dell’arcidiocesi palermitana prima di questa svolta, ma c’è da chiedersi: può essere questa una giustificazione, tanto meno morale, se solo si considera che anche un semplice insegnante, dentro la scuola pubblica (e quanti sacerdoti lo sono) è un pubblico ufficiale sul quale, in quanto tale, grava l’obbligo penale della denuncia di reati di cui vengano a conoscenza?
Ad ottobre 2015 come abbiamo visto Romeo esce di scena, Cuttitta va a guidare la diocesi di Ragusa e a Palermo s’insedia Lorefice.
Trame diocesane con il sigillo vaticano, tra menzogne, omertà e compagnie di giro
Tornando all’affaire-Salonia, la notizia che il neo vescovo non sarà mai consacrato è pubblicata da FarodiRoma il 17 aprile 2017 e ripresa da varie testate, locali e nazionali, le quali riconducono tali voci alla sua qualificazione di ‘persona indegna’ e con ‘trascorsi di infedeltà al celibato’. Essa trova puntuale conferma dieci giorni dopo, il 27 aprile, quando l’influente cappuccino in una lettera all’arcidiocesi comunica di avere <<consegnato nelle mani del Santo Padre la rinuncia alla consacrazione>>, rinuncia che spiega così: <<avevo accettato in spirito di servizio ecclesiale questo impegnativo e delicato ufficio, a cui, in modo imprevisto e inaspettato, ero stato chiamato. Tale nomina, mentre in tanti aveva suscitato sentimenti di gioia e di speranza, in qualcun altro ha provocato intensi sentimenti negativi, con attacchi nei miei confronti infondati, calunniosi e inconsistenti, ma che potrebbero diventare oggetto di diverse forme di strumentalizzazione, anche di tipo mediatico. Per tali ragioni, con la dignità interiore di chi mette in secondo piano i propri diritti pur di servire la Chiesa e con lo stesso amore ecclesiale con cui avevo accettato la nomina, ho deciso di rinunciare alla consacrazione episcopale. Non voglio in alcun modo che l’esercizio del mio ministero possa essere inquinato>>.
Nella lunga lettera dai toni suadenti e concilianti, improntati alla tesi della propria libera scelta di sopportare un ingiusto sacrificio personale, tanto più ingiusto quanto più frutto di ‘calunnie’, per il superiore interesse della Chiesa, Salonia chiede <<allo Spirito di farmi comprendere la volontà del Padre in questa misteriosa vicenda e di concedermi la grazia di perdonare quanti si sono dimostrati a me avversi. Sarò grato a tutti coloro che custodiranno questa dolorosa vicenda nella preghiera, facendo emergere i dati di verità e di umanità in essa celati>>.
La rinuncia arriva pochi giorni prima della consacrazione che avrebbe dovuto svolgersi nella cattedrale di Palermo entro il 10 maggio, scadenza dei tre mesi canonici dalla pubblicazione della bolla pontificia. Sul sito di Catholic-hierarchy, sempre molto informato e preciso sulla vita dell’episcopato mondiale, in quel periodo campeggia la scritta ‘day uncertain’, proprio perché lo stop immediato impedisce di fissarla, ma nel contempo già da alcune settimane si annuncia: celebrante sarà l’arcivescovo Corrado Lorefice e consacranti principali i vescovi Rosario Gisana, della diocesi di Piazza Armerina, e Giuseppe Costanzo, emerito dell’arcidiocesi di Siracusa.
Da Lorefice a Salonia, a Gisana: il vescovo che in conflitto d’interessi
proscioglie l’influente cappuccino con un’indagine farsa
Il nome di Gisana, che è di Modica, va tenuto presente perché lo ritroviamo anche, in pratica negli stessi giorni, nelle vesti di giudice-inquirente nell’indagine ecclesiastica che deve esaminare le asserite ‘calunnie’ sul conto di Salonia. Insomma il vescovo prescelto per consacrarlo è anche colui che nello stesso periodo lo proscioglie dalle accuse per le quali quella consacrazione viene sospesa e poi annullata con la parvenza della volontaria rinuncia.
In proposito dubbi e misteri s’intrecciano togliendo ogni credibile parvenza di serietà, e soprattutto di veridicità, alla conclusione istruttoria cui Gisana s’incarica di pervenire, posto a capo di un organismo difficile da definire e incasellare nella casistica contemplata dal processo canonico. Come dicevamo, il Vaticano è una monarchia assoluta e la giustizia è amministrata in nome del monarca, il pontefice, il quale fa anche le leggi e ad esse non è soggetto: lo sono ovviamente i magistrati nominati da lui che su tutto ha potere assoluto. Pertanto ogni atto che abbia il suo avallo prevale sulle norme, anche nel settore della giustizia e, in questo caso, dei processi istruiti sulla base del codice di diritto canonico.
Fin qui sappiamo che Salonia appena nominato vescovo vede la consacrazione bloccata – per ordine del Papa che dispone un supplemento d’indagine – e poi rinuncia, non perché, a suo dire, colpevole di qualcosa, ma solo per le ‘voci calunniose’ seguite alla sua nomina ed egli, <<pur totalmente innocente rispetto a tali denunce>>, preferisce sacrificarsi per il bene della Chiesa.
Ma chi è che stabilisce che le denunce siano false e, addirittura, calunniose? Lo sancisce in atti segretissimi – a disposizione solo di coloro che li redigono, di chi li ha fatti nominare, dell’accusato e del ristrettissimo circuito fiduciario – un organismo simile ad una commissione, anche questa ad hoc, istituita il 2 marzo 2017: la presiede, come accennato, il vescovo di Piazza Armerina Rosario Gisana e ne fanno parte il vescovo di Trapani Pietro Maria Fragnelli e, con mansioni di segretario verbalizzante, il presbitero dell’arcidiocesi di Catania Adolfo Longhitano, docente della facoltà teologica di Sicilia e vicario giudiziale della stessa arcidiocesi.
La commissione è disposta da papa Francesco dopo insistenti pressioni dell’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice che ha fortemente voluto la nomina di Salonia come proprio ausiliare e la sua ordinazione a vescovo. Le denunce, segnalazioni e voci che giungono in Vaticano subito dopo tale nomina sono diverse, la commissione decide che non vi sia nulla su cui indagare e che nessun processo canonico debba essere intentato al neo vescovo. Tali segnalazioni provengono principalmente da suore che si rivolgono al pontefice, spinte istintivamente da quella nomina che le fa indignare essendo a conoscenza sul conto del frate cappuccino di fatti gravi – nonché di abusi sessuali di cui alcune di loro denunciano di essere vittime – compromettenti e incompatibili con il ministero episcopale: a dire il vero anche presbiteriale in senso lato, ma quando Salonia viene nominato vescovo è sacerdote da 46 anni e nessuna autorità vaticana ha mai messo in discussione il suo status. Ma vescovo no! E’ troppo e scatta l’appello delle religiose a papa Francesco perché sappia ciò che probabilmente ignora quando lo eleva al soglio episcopale su richiesta di Lorefice il quale lo ha scelto come proprio ausiliare.
Le denunce sono più d’una ma quel minimo – totalmente insufficiente – di parvenza di istruttoria svolta dalla commissione ad hoc affidata a Gisana si concentra su una lettera scritta da un’ex suora e pervenuta in Vaticano da una regione dell’Italia centrale. Un’altra lettera è spedita da una suora del Nord Italia mentre non risulta affatto che ne giungano dalla Sicilia, nè, quindi, in particolare, da Ragusa. Dell’Agli solo in seguito scrive una lettera su richiesta dell’autorità vaticana che vuole vagliare le segnalazioni ricevute.
Peraltro le due denunce al Papa riguardano vicende entrate successivamente, per querela o testimonianze, in un procedimento penale dello Stato italiano, aperto dalla procura di Roma la quale, espletate le indagini preliminari, conclude chiedendo il rinvio a giudizio di Salonia con l’accusa di violenza sessuale aggravata. E ciò, pur con tutti i limiti di un processo penale arrestato poi per tardiva presentazione della querela, consente di averne contezza più di quanto permetta la giustizia vaticana.
Le menzogne vaticane e la scabrosa verità attestata
dai pm italiani: è lo stesso Salonia a confessarla
Tanto basta per rilevare che non ha alcun fondamento l’affermazione che quelle lettere siano partite da Ragusa: se quella di Dell’Agli scaturisce da una richiesta vaticana in sede di verifica della fondatezza dei fatti segnalati non può essere compresa tra queste. L’affermazione è resa da Salonia ad ottobre 2018 nell’interrogatorio dinanzi a due pubblici ministeri della procura di Roma e, in precedenza, rilanciata da tutti gli organi di stampa quando a marzo ed aprile 2017 riferiscono prima dello stop alla consacrazione del neo vescovo e poi della sua rinuncia. In proposito i giornali non riportano affermazioni virgolettate di Salonia ma tutti, ispirati da un’unica fonte, usano le stesse parole: <<voci calunniose giunte in Vaticano attraverso una lettera>>, per alcuni un dossier <<proveniente da Ragusa>>.
L’anno dopo, dinanzi ai due magistrati inquirenti, Salonia indicherà anche una data precisa: <<l’11 febbraio 2017>>, cioè il giorno dopo la sua nomina a vescovo <<arrivò in Vaticano una lettera da Ragusa>>. Nei numerosi articoli di stampa di marzo e aprile 2017 viene concordemente descritto l’oggetto di tali <<voci calunniose giunte da Ragusa>>: violazione degli obblighi del celibato. Chiaro quindi l’oggetto dell’addebito e chiara anche, secondo la stampa e nella narrazione costruita in Vaticano, la sua comprovata infondatezza.
A parte FarodiRoma – il primo giornale a dare la notizia il 19 marzo 2017 e ad annunciarne in anticipo i successivi sviluppi – di tale infondatezza sono certe tutte le testate, alimentate da una fonte univoca: l’arcivescovo di Palermo Lorefice e il suo vescovo ausiliare designato Salonia. Sulla stampa quindi una certezza: voci calunniose hanno segnalato al papa – falsamente, se no esse non sarebbero calunniose – l’infedeltà al celibato; tali voci sono l’unico motivo del blocco dell’iter di nomina e d’insediamento del vescovo prima, e – una volta accertate come non vere e calunniose – della rinuncia di questi dopo.
Ma tutto ciò è una menzogna fabbricata appositamente: perché le denunce non riguardano solo questo ‘addebito’ e, almeno su questo, non sono affatto false né calunniose, ma vere: e a confermarlo è lo stesso Salonia dinanzi alla magistratura penale italiana. Altro che voci calunniose come la stampa fa credere secondo i voleri di chi in Vaticano sequestra la verità, confeziona la menzogna e la serve all’esterno con il sigillo di una così altolocata autorità ‘morale’!
Vedremo nel merito, in modo preciso e dettagliato, le vicende denunciate dalla suora del Nord Italia e dall’ex suora dell’Italia centrale ma intanto qui mettiamo in fila i fatti e le date: il 10 febbraio 2017 Salonia è nominato vescovo. Quasi immediatamente giungono le lettere: la prima, quella dell’ex suora, addirittura il giorno dopo, l’11 febbraio. Il pontefice blocca la consacrazione, e quindi l’insediamento, e ordina un supplemento d’indagine così come il 19 marzo 2017 con uno scoop rivela FarodiRoma che riferisce dello stop imposto a Lorefice dal nunzio apostolico in Italia Adriano Bernardini perché <<si rende necessario un supplemento d’indagine>>.
Ben prima che tale notizia diventi pubblica, già dall’11 febbraio 2017 quando giunge in Vaticano la lettera dell’ex suora e nei giorni seguenti, Lorefice, convinto (da Salonia?) di sostenere che si tratti di ‘calunnie’, caldeggia la nomina di questa commissione con Gisana a capo, tant’è che, come abbiamo visto, il Papa da una parte affida al nunzio Bernardini lo stop alla nomina perché siano condotte nuove indagini e, successivamente, conferisce il potere di compierle a chi possa meglio coltivare la conclusione, cara a Lorefice e Salonia, che quelle voci siano infondate e addirittura calunniose: conclusione falsa perché quelle voci non sono né infondate, né tanto meno calunniose! E non è affatto difficile dimostrare la falsità della conclusione della commissione Gisana perché a confessarlo, nel chiuso di una stanza dinanzi ai pubblici ministeri di Roma il 18 ottobre 2018, è lo stesso Salonia il quale pure, un anno e mezzo prima, con la lettera di rinuncia del 27 aprile 2017, dirama ‘a reti unificate’ quella menzogna che anche il Vaticano decide di spacciare per verità.
La via di fuga (dalla verità) offerta al vescovo mancato e il ‘florilegio emotivo’:
lo diagnosticano nei testimoni gli ‘azzeccagarbugli’ ecclesiastici
Lo strumento (il supplemento d’indagine annunciato da Bernardini) attraverso cui giungere a tale risultato non è l’istruzione di un processo ma un atto preliminare che lo esclude e lo preclude, una procedura chiusa, senza alcuna trasparenza, senza garanzia delle parti, senza evidenza alcuna di accertamento della verità: anzi con piena evidenza di falsificazione della realtà.
E’ un’istruttoria interna condotta con totale discrezionalità, strumentale ad un risultato che più di un indizio fa apparire predeterminato, in funzione dell’esito finale della rinuncia ‘volontaria’ del cappuccino allo status episcopale: rinuncia frutto del ‘delitto perfetto’ della fuga dalla verità e dalle responsabilità: fuga di Salonia, fuga di chi lo protegge e lo sostiene, fuga delle autorità vaticane e della finta ‘giustizia’ che volge nel suo contrario.
Fuori dalla cerchia ristretta formata dall’accusato da prosciogliere, dai giudici incaricati di farlo e dai loro danti causa trapela solo che alla base del verdetto vi sia una ‘diagnosi’ di questo tipo: le dichiarazioni raccolte, della religiosa e dei testimoni, sono frutto di ‘florilegio emotivo’. Si, questi giudici (Gisana, Fragnelli e Longhitano, con il primo in qualità di dominus) scrivono proprio così: florilegio emotivo.
Non è dato sapere cosa vi sia, in realtà, dietro questa espressione singolare che, letteralmente, dobbiamo intendere come ‘raccolta’ o ‘antologia’ di emozioni. Così concludono i commissari e non c’è uno straccio di motivazione a riprova del loro verdetto. Dal che possiamo solo presumere che loro abbiano bollato i fatti riferiti come non veri e abbiano qualificato le relative dichiarazioni non come dolosamente mendaci ma frutto di una sorta di tempesta emotiva. Di ‘tempesta’ deve essersi trattato se essa ha prodotto una pioggia di emozioni così fitta da rendere possibile che se ne traesse una raccolta: appunto un’antologia.
Dunque, a loro avviso, solo emozioni e non fatti. Eppure quelli denunciati dall’ex religiosa sono proprio fatti, precisi e circostanziati in ogni dettaglio come emergerà dal processo penale che un anno dopo, a marzo 2018, vedrà il ‘quasi vescovo’ indagato, e in seguito, a luglio 2019, imputato di violenza sessuale aggravata in quanto <<nella veste di psicoterapeuta e nello stesso tempo di sacerdote costringeva la suora, sua paziente, a compiere e subire atti sessuali in diversi incontri tra il 2009 e il 2013>>. Intanto però, tra marzo e aprile 2017 il caso viene chiuso nelle segrete stanze del Vaticano con l’apparente rinuncia di Salonia il quale, proprio grazie a questo verdetto, la può dipingere volontaria e generosa.
Le testimonianze-verità di Dell’Agli e la reazione contro di lui:
falsata la provenienza delle lettere d’accusa a Salonia
In tutta la vicenda un dato da focalizzare è che dinanzi alla commissione presieduta da Gisana sia chiamato a testimoniare il sacerdote Nello Dell’Agli, collega di Salonia nell’attività professionale di psicoterapeuta e in quella di formazione e d’insegnamento. Ecco l’indizio pesante utile a capire il perché dell’assurda condanna inflittagli dal tribunale ad hoc chiamato a giudicarlo sulla base di accuse che lo stesso processo accerta essere totalmente infondate e insussistenti come documentato nella parte iniziale di questo articolo del quale a questo punto risuona l’amara verità cui perviene l’innocente condannato: <<se fossi stato omertoso, cioè se mi fossi rifiutato di testimoniare (ovvero – c’è da interpretare – se non avessi detto la verità, n.d.r.) non avrei subìto tutto quello che ho subito.
Quindi nessuna lettera d’accuse parte da Ragusa (tale non è quella di Dell’Agli richiesta dal Vaticano proprio per vagliare le ‘accuse’ pervenute da altre sedi e da altre fonti), a differenza di quanto la stampa scrive ad aprile 2017 quando scoppia il giallo sulle ‘voci calunniose’ contro il neo vescovo ‘congelato’; e a differenza di quanto lo stesso, indagato per violenza sessuale, un anno e mezzo dopo dichiara in prima persona ai pubblici ministeri che lo interrogano e che, compiute tutte le indagini, decidono di chiedere al tribunale di mandarlo a processo.
La pista di Ragusa messa in campo ha uno scopo preciso: mettere Dell’Agli nel mirino. Di vero c’è solo che il fondatore della fraternità Nazareth viene chiamato dalla commissione presieduta dal vescovo Gisana, e successivamente dalla magistratura penale italiana, a testimoniare sui fatti oggetto della lettera dell’ex suora. Abbiamo già visto che le sue dichiarazioni rese nella prima sede, pur concernendo specificamente i fatti per i quali si è reso necessario il supplemento d’indagine ecclesiastica, vengono classificate, come tutte le altre, ‘florilegio emotivo’, quindi non attendibili e comunque irrilevanti: tanto serve per la conclusione predeterminata e il verdetto da tempo già scritto. In proposito preoccupa e inquieta chiunque creda nella giustizia di ogni tipo, che la testimonianza di Dell’Agli risulti subito a conoscenza di Salonia e Lorefice, promotori e beneficiari dei servizi ad hoc della commissione.
Sulla vicenda è questo, in ordine temporale, il primo round di ‘InGiustizia’ Vaticana: il consapevole proscioglimento di un colpevole, a marzo 2017, atto strumentale alla via di fuga concertata a tavolino e menzogna ‘necessaria’ per coprire lo scandalo.
Il secondo riguarda la condanna inflitta di recente a Dell’Agli rispetto alla quale c’è da tenere presente che egli, un anno dopo quel ‘florilegio emotivo’ al cospetto della commissione-Gisana, rende testimonianza nel procedimento che vede Salonia indagato per violenza sessuale dinanzi alla procura di Roma alla quale – considerati la limpidezza e il rigore morale del teste – c’è da presumere che il sacerdote-teologo-psicoterapeuta fondatore della fraternità Nazareth ripeta le stesse cose e che i pubblici ministeri, alla luce delle conclusioni, le prendano sul serio. Lo attestano i materiali dell’inchiesta fino a quando, il 28 febbraio 2020, essa viene arrestata e sepolta con una sola motivazione: la querela è stata presentata (dalla suora del Nord Italia) oltre il termine consentito e quindi, qualunque verità sia emersa, il processo ‘non s’ha da fare’.
Ma ciò non ci impedisce di esplorare lo scabroso affaire nei suoi vari aspetti e in ogni piega, ricostruendo i fatti, tutti. Perché dove non v’era (forse) procedibilità ai fini dell’esercizio dell’azione penale c’è comunque, e senza dubbio alcuno, il pubblico interesse alla conoscenza, in cerca della verità che è ben altra e tutt’altra rispetto a quella servita da ‘inGiustizia’ Vaticana e cucinata tra Palermo, Roma e Ragusa.
Quest’ultima è la città in cui Salonia dichiara la propria residenza (nella parrocchia Sacra Famiglia) e dove svolge la sua attività professionale come direttore dell’Istituto di Gestalt Therapy Kairos che ha sedi – oltre che, appunto, nel centro ibleo – anche a Roma e Venezia. Ragusa è anche la città in cui vive Nello Dell’Agli e in cui si trova l’ormai soppressa fratenità Nazareth da lui fondata. Ma non è la città da cui partono le lettere di denuncia contro il frate cappuccino fatto vescovo.
1 – continua
www.insiciliareport.it/2023/10/21/...i-sessuali-del/Il vescovo, l’arcivescovo e il quasi vescovo. Nell’affaire-Salonia le impronte di Lorefice e di Gisana, investito dal ciclone giudiziario per la copertura nella sua diocesi degli abusi sessuali del clero in danno di minori. Ecco il manuale per proteggere i preti pedofili e neutralizzare le vittime ‘todo modo’: con l’aggressione o con danaro in cambio del silenzio. Un campionario inquietante: soldi dell’otto per mille alla difesa degli accusati, lo scudo della confessione per l’omertà e la menzogna, le petizioni sollecitate ai fedeli in favore di chi è imputato di violenze e di chi fa di tutto per nasconderle, anche dopo il ‘Motu proprio’ del Papa che nel 2019 ha cancellato il segreto
Avatar photoDi Angelo Di Natale il 21 Ott 2023
La presente inchiesta giornalistica ‘inGiustizia Vaticana’, la cui prima parte è stata pubblicata il 14 ottobre scorso (qui), prende le mosse dalla condanna, frutto come abbiamo documentato di una sentenza assurda e ingiusta, inflitta dall’autorità vaticana nell’ambito di un processo canonico a Nello Dell’Agli, teologo e psicoterapeuta, fondatore a Ragusa della fraternità di Nazareth e membro del clero diocesano.
Cercando la spiegazione è emersa la matrice ritorsiva del provvedimento emesso per punire l’unico vero ‘delitto’ commesso dal sacerdote colpito con la pena massima, la amissio status clericalis: avere testimoniato, in sede ecclesiastica e in un procedimento penale della procura di Roma, su fatti riguardanti Giovanni Salonia, influente frate cappuccino nominato vescovo il 10 febbraio 2017 e poi non consacrato per effetto di rinuncia in seguito alle denunce su tali vicende.
In proposito, dentro questo tassello del puzzle, nella prima parte dell’inchiesta abbiamo lasciato la cronologia dei fatti al 27 aprile 2017, data della rinuncia di Salonia ampiamente illustrata. Pertanto dovremo analizzare gli accadimenti successivi tra i quali il processo penale a carico di Salonia imputato di violenza sessuale (concluso, dopo la richiesta della procura di rinvio a giudizio, con sentenza di non luogo a procedere il 28 febbraio 2020 per tardiva presentazione della querela), le testimonianze in tale processo tra le quali quella di Dell’Agli e gli sviluppi ulteriori fino alla sua ‘condanna’: temi oggetto delle prossime puntate dell’inchiesta.
In questa ci soffermiamo su un altro aspetto perchè la ricostruzione documentale del travisamento della realtà operato dagli organi giudiziari vaticani pervenuti a tale condanna – dalla quale la nostra ricerca prende le mosse – nonché le vicende collegate e certe dinamiche sottostanti, ci hanno fatto conoscere, tra gli altri, il ruolo e gli atti compiuti dall’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice e dal vescovo di Piazza Armerina Rosario Gisana.
Il primo – abbiamo visto – a febbraio 2017 preme fortemente su papa Francesco per chiedere una commissione chiamata a giudicare la fondatezza di tali denunce, commissione che ottiene il 2 marzo quando il pontefice la istituisce; il secondo la capeggia e la guida al proscioglimento di Salonia: conclusione in palese contrasto con i dati di realtà per ammissione stessa (un anno e mezzo dopo, in sede penale) del prosciolto.
Successivamente Dell’Agli riceve, da altro ‘tribunale ad hoc’ vaticano, la condanna, infondata e assurda quanto il ‘non luogo a procedere’ canonico sancito dall’invocata commissione a beneficio del vescovo ‘eletto’ Salonia il quale tuttavia, come abbiamo visto, rinuncia alla carica, in apparenza per libera scelta, nei fatti per diktat papale.
Gisana, Lorefice, Salonia: relazioni, esperienze, carriere
di tre vescovi nominati, ma solo i primi due ‘consacrati’
Per la cronaca Gisana, Lorefice e Salonia sono nati in provincia di Ragusa, rispettivamente a Modica, Ispica e Ragusa, dove si sono anche formati, tra le diocesi di Ragusa e Noto.
Nel tempo, dagli anni ’80 e soprattutto dall’ordinazione sacerdotale dei primi due, rispettivamente nell’86 e nell’87 (il terzo è sacerdote già nel ’71) incrociano personalmente e condividono una molteplicità di esperienze. Gisana e Lorefice per l’attività espletata nella diocesi di Noto – dove tra l’altro in un periodo il secondo è vice del primo nel rettorato del seminario vescovile – e nella chiesa di Modica che ne fa parte. Il terzo, Salonia, nella qualità, di fatto per quasi vent’anni dal ’92 al ‘10, di ministro provinciale dei frati cappuccini con base nel convento di Modica, città che è anche il centro più importante della diocesi netina. La carica di ministro, comunque preceduta e seguita nel tempo, dal ’78 e fino al momento della nomina al soglio episcopale, da incarichi di massima responsabilità nell’ordine religioso fondato sulla regola francescana, riguarda la ‘provincia cappuccina’ di Siracusa, per 448 anni dal 1574 al 2022, una delle tre di Sicilia, comprendente un vasto territorio comprendente le province (politico-istituzionali) di Ragusa, Siracusa, Catania, Enna e Caltanissetta, con una sede importante a Modica.
Nella storia questa provincia ‘Syracusana’ (le altre due sono Messanensis e Panormitana) a lungo è la più importante al punto da inglobare per un secolo e mezzo anche l’isola di Malta, da mandare i propri frati in servizio nel mondo, da ottenere in affidamento la missione di Rio de Janeiro dove impianta l’ordine, e da elevare diversi propri membri alla carica di ministro generale, nel Seicento ben tre in meno di cinquant’anni: Clemente Di Lorenzo e Giammaria Minniti da Noto, Innocenzo Marcinò, prossimo beato, da Caltagirone. E a un passo dalla carica di ministro generale, vertice dell’ordine, giunge anche durante la sua ‘carriera’ di frate, prima della nomina episcopale, Giovanni Salonia da Ragusa, ma l’ascesa non si concretizza.
Tornando ai fatti oggetto di quest’inchiesta, egli nel 2017 è responsabile della formazione permanente della ‘provincia cappuccina di Siracusa’, che oggi come abbiamo visto non esiste più, confluita nel 2022 nell’unica provincia siciliana.
A questo punto dobbiamo soffermarci su Gisana, che abbiamo visto non solo a capo della commissione che a marzo 2017 scagiona Salonia, ma anche suo vescovo co-consacrante designato, nella celebrazione che Lorefice avrebbe presieduto se il futuro braccio destro dell’arcivescovo di Palermo non si fosse visto costretto a ‘rinunciare’ a tale consacrazione la quale sarebbe dovuta avvenire perentoriamente entro il 10 maggio.
E ciò perché, sempre per la cronaca, in questo caso ben più nota, Gisana da oltre due anni, e tuttora nella calda attualità di questi giorni, è investito dallo scandalo giudiziario della copertura data alle violenze sessuali commesse da sacerdoti della diocesi di cui da oltre nove anni è vescovo: Piazza Armerina, comprendente parte dei comuni delle province di Enna, compreso il capoluogo, e di Caltanissetta.
Rosario Gisana di Modica, vescovo di Piazza Armerina
insabbiatore seriale di scandali e abusi sessuali del suo clero
Il caso eclatante è quello culminato nell’arresto, il 27 aprile 2021, del sacerdote Giuseppe Rugolo, oggi quarantaduenne, accusato di violenze sessuali su minori e sotto processo dinanzi al tribunale di Enna che il mese prossimo emetterà la sentenza dopo quindici udienze ed una fitta istruttoria dibattimentale. E’ solo uno di tanti casi simili, clamoroso perché l’unico segnalato – alla polizia giudiziaria, con gli sviluppi conseguenti, appunto eclatanti – da una vittima tenace la quale, dopo sette anni di reiterate e inutili denunce alle autorità ecclesiastiche, non si arrende al sistema clericale di menzogna e omertà che protegge i preti abusatori e sacrifica i minori abusati.
Emerge infatti che quando il sacerdote viene arrestato, il vescovo da cinque anni è a conoscenza dei fatti oggetto d’accusa, dal 2016 quando una delle vittime finalmente può raccontargli tutto dopo averci a lungo provato invano. E’ Antonio Messina, quindicenne nel 2009 al tempo degli abusi nella chiesa di San Giovanni Battista di Enna proseguiti fino al 2013. Infatti già nel 2014, sempre con Gisana vescovo – nominato da papa Francesco il 27 febbraio e ordinato il 5 aprile di quell’anno – il giovane denuncia ad altri sacerdoti le violenze subite, ma trova un muro di gomma. Comincia con l’anziano parroco che l’ha visto crescere, Pietro Spina (vicario parrocchiale della chiesa in cui avvengono gli abusi), il quale non fa nulla. Quindi si rivolge ad un altro prete, Vincenzo Murgano, vicario giudiziale del tribunale ecclesiastico ed anche responsabile diocesano del ‘servizio di tutela dei minori’: <<non parlarne con nessuno e dimentica>> è la risposta, scioccante se viene da un giudice canonico nonché garante delle vittime in materia. Un terzo parroco, per fortuna diverso dagli altri, informa il vescovo il quale però, dinanzi alla mancata ammissione di Rugolo, fa passare due anni prima di ascoltare la vittima. Solo in seguito Rugolo, nuovamente convocato, questa volta ammette qualcosa, proprio quando sta per insediarsi come parroco della Chiesa di San Cataldo di Enna.
In proposito fa impressione leggere oggi le notizie e i comunicati della diocesi in quel periodo. Per esempio il 18 settembre 2018 Gisana officia la messa, in una chiesa gremita, per annunciare il nome del nuovo parroco dopo il ritiro del titolare per limiti d’età. Negli articoli che ne riferiscono e nei comunicati riportati leggiamo: << Il vescovo Rosario Gisana ha deciso che a ricoprire la veste di parroco della comunità, nominato dopo accurato discernimento, sarà padre Giuseppe Rugolo, vice parroco della chiesa madre di Enna. La solenne funzione religiosa d’insediamento, con la firma del verbale di nomina, si svolgerà nel mese di novembre>>.
Da oltre due anni, in quel momento, il vescovo sa delle violenze e degli abusi di cui il vice parroco è accusato. Eppure, ‘dopo accurato discernimento’ (del quale sarebbe interessante conoscere l’oggetto) lo promuove e gli offre un pulpito superiore, insieme a strumenti più potenti ed efficaci di prima per la sua opera: quale che essa sia.
Dopo quest’annuncio sale la tensione negli ambienti diocesani e la funzione d’insediamento perde la solennità annunciata. Ma Rugolo comunque diventa parroco e può agire forte di questo status. Solo per un anno però, perché, al precipitare degli eventi, Gisana, a ottobre 2019, lo trasferisce nell’arcidiocesi di Ferrara-Comacchio: è questo il suo primo e unico atto compiuto da capo della diocesi ‘contro’ gli abusi, tre anni dopo averne avuto notizia, anni durante i quali addirittura promuove e premia l’accusato rendendolo più forte ed invasivo di prima proprio nell’ambito potenziale delle sue scorribande. Neanche lo sfiora l’idea di segnalare immediatamente i fatti all’autorità giudiziaria, come sarebbe preciso dovere di ogni persona proba e responsabile, laica o clericale, ‘fedele’ o no che sia: tranne che fedele voglia esserlo al male, alla violenza, all’abuso.
Il caso-Rugolo scopre nella diocesi un verminaio:
25 mila euro in cambio del silenzio della vittima
L’omissione prosegue anche dopo l’entrata in vigore, l’1 giugno 2019, del ‘Vos estis lux mundi’, il Motu proprio di Bergoglio che cancella il segreto pontificio sugli abusi sessuali commessi da uomini del clero in danno di minori e di persone fragili.
Anzi, non solo il vescovo non asseconda le nuove prescrizioni papali, ma da testimonianze processuali si apprende che in quel periodo offre alla vittima (versione da lui contestata) 25 mila euro in contanti, da prelevare, secondo quanto avrebbe detto ai genitori del ragazzo abusato, dai fondi della Caritas (dal 2017, in virtù di una riforma da lui disposta, egli stesso ne è direttore) purchè con falsa causale e con segretezza assoluta sull’affare transattivo in cambio del silenzio tombale. Ma, come vedremo, non se ne fa niente.
Il vescovo quindi ‘risolve’ il caso, secondo una prassi dura a morire nonostante le nuove disposizioni del Papa, trasferendo il prete pedofilo in altra sede: Ferrara come detto, ‘per motivi di salute’ e senza alcuna inibizione sicchè, sempre secondo prassi consolidata, può tranquillamente svolgere ogni attività, comprese quelle che lo tengono in contatto con minori, tant’è che nell’estate 2020 nella parrocchia di Vigarano Mainarda organizza un campo con centinaia di ragazzi. E’ questa la sua specialità del resto, come sa bene chiunque lo abbia visto all’opera ad Enna dove, giovane prete, nel 2015 fonda un’associazione, ‘Progetto 360’, con centinaia di ragazzi.
Dopo appena un anno a Ferrara, dove le relazioni sessuali che intrattiene – e delle quali gli inquirenti per effetto delle indagini abbiano notizia – riguardano adulti, il sacerdote, convinto di averla fatta franca, briga per tornare a Piazza Armerina, fa pressioni, vuole organizzare il Grest dell’anno successivo ma il 27 aprile 2021, in terra emiliana, per lui scattano le manette perché la vittima, dopo un settennale calvario di inutili tentativi di farsi ascoltare, finalmente si rivolge alla polizia giudiziaria. Nel seminario dell’arcidiocesi Rugolo vive la condizione di detenuto agli arresti domiciliari, disposti dal giudice delle indagini preliminari per il rischio di reiterazione del reato e <<la tendenza dell’indagato a cedere alle pulsioni sessuali in maniera incondizionata>>: misura convertita dopo tredici mesi in obbligo di permanenza notturna.
Gisana intercettato: io ho insabbiato questa storia,
eh vabbè pazienza, vediamo come poterne uscire
Il processo, in corso da due anni, rivela al mondo e dilata a dismisura l’entità dello scandalo, ben più ampio di quanto si potesse credere. Le vittime sono tante e la condotta di vari componenti del clero diocesano sconcertante. Peraltro Gisana, intercettato, ammette: «Il problema è anche mio perché io ho insabbiato questa storia… eh vabbè, pazienza, vedremo come poterne uscire!». Ma le ‘storie’ sono numerose – di abusi sessuali e di sistematiche coperture da parte dei vertici ecclesiali – e proiettano della diocesi di piazza Armerina l’immagine di un luogo, per i preti pedofili, sicuro, ospitale, amico nonchè molto generoso verso le loro pretese di ordinaria impunità.
In un’altra intercettazione il vicario generale della diocesi Antonino Rivoli si esercita in un turpiloquio, inimmaginabile ma reale (ne omettiamo le espressioni testuali per rispetto delle nostre lettrici e dei nostri lettori) per insultare un collega sacerdote, Giuseppe Fausciana, che apostrofa ‘bestia’ per avere ascoltato la vittima (definita ‘bastardo’) ed essersi fatto portavoce, l’unico, della sua denuncia.
Dal processo emerge con nettezza lo spaccato di un clero e di un vertice diocesano schierati, con poche eccezioni, nettamente dalla parte dei preti pedofili, e contro le vittime degli abusi delle quali sembra non importare niente agli uomini in abito talare, con o senza zucchetto. Quando Gisana, intercettato, ammette di avere insabbiato la denuncia, neanche per un istante sembra toccato dal pensiero per la vittima, concentrato piuttosto sui rimedi per sè, sulla propria ‘salvezza’: <<eh vabbè, pazienza, vedremo come poterne uscire>>. Quale sia l’uscita, nei suoi piani, lo rivelano alcune testimonianze: 25 mila euro in contanti da sottrarre alla Caritas, merce di scambio per il silenzio e il salvacondotto giudiziario della rinuncia a denunciare.
«Dovevano essere in contanti – racconta in udienza il ragazzo abusato, ormai adulto e valente archeologo – il vescovo disse ai miei genitori che li avrebbe presi dai fondi della Caritas. Chiesero di firmare una clausola extragiudiziale di riservatezza in cui, in cambio di questa somma, io mi impegnavo a non parlare più con nessuno di quanto mi era successo. Ho avuto la sensazione di essere comprato». La diocesi nega: «Il riserbo – dichiara il difensore della curia vescovile – era una richiesta della famiglia, non è stata fatta alcuna offerta di denaro con l’intento di comprare il silenzio della parte offesa. Anzi, la trattativa parte proprio dalla famiglia, in un primo momento come sostegno per le spese sostenute e poi a titolo risarcitorio».
Su questa circostanza la parte civile chiama a deporre l’avvocato rotale Federico Marti indicato come persona informata dei fatti in quanto avrebbe seguito la trattativa tra la diocesi e la famiglia del minore abusato. Il teste, prima di essere comunque ammesso dal tribunale, comunica la propria indisponibilità per motivi di salute e, in ogni caso, fa presente che si sarebbe avvalso del segreto professionale. Silenzio dunque in udienza, ma il silenzio, come abbiamo visto, spesso racconta più d’ogni esercitazione verbale!
Gisana al giornalista: a cosa si riferisce? I casi sono tanti! E c’è anche quello
della bambina abusata in sacrestia dal prete che ha l’età del suo bisnonno
Finora si sono tenute 15 udienze dibattimentali, alcune anche della durata di 10-12 ore, fino a tarda sera. Il processo verte sui fatti imputati a Rugolo (violenza sessuale aggravata in danno di tre minori) ma fa emergere altri abusi da parte di sacerdoti della diocesi su bambini e ragazzi sia di sesso maschile che femminile. Del resto quando, esploso il caso, il vescovo viene chiamato da un giornalista dell’Ansa che gli chiede degli abusi, non comprende a quale vicenda si riferisca: <<mi scusi, non ho capito di chi si parli, abbiamo tanti casi».>>. Tanti e di sua conoscenza!
Infatti il lungo dibattimento smaschera una linea diocesana di difesa dei pedofili, di sostanziale allineamento ai loro interessi di impunità e di pretesa di conservazione del loro modus operandi all’interno della chiesa. Per esempio emerge che Gisana sa delle violenze su una bambina di undici anni a Gela ad opera di un anziano prete, Vincenzo Iannì, rinviato a giudizio nel 2019. E lo sa anche Murgano che si dice invece ignaro, nonostante il suo ruolo di responsabile del servizio di tutela dei minori, di altri casi noti al vescovo.
Peraltro è Gisana a settembre 2018 a nominare Iannì, che oggi ha 82 anni, vice parroco della Chiesa di Santa Lucia di Gela, in un quartiere con grave disagio sociale, e a riabilitarlo dopo che il predecessore Michele Pennisi, vescovo a Piazza Armerina da aprile 2002 ad aprile 2013, lo ha allontanato a causa dei suoi precedenti specifici. Inoltre Gisana a maggio 2017, un anno prima di mandarlo a Gela, lo nomina vice cancelliere vescovile.
Il caso, che troviamo citato nella relazione della corte d’appello di Caltanissetta pronunciata nella cerimonia d’apertura dell’anno giudiziario 2021, è clamoroso. Un prete, Iannì appunto, all’epoca ultrasettantenne, adesca una bambina di undici anni e l’attira in una trappola in canonica, quando non c’è nessuno, approfittando dello stato di grave indigenza della famiglia, nonché di vulnerabilità, di fragilità psicologica, di bisogno e di disperata richiesta d’aiuto della ragazzina la quale ripone fiducia in quell’anziano prete che ha l’età del proprio bisnonno.
In dibattimento video shock e intercettazioni eloquenti:
un parroco predatore sessuale tra i minori a lui affidati
Nel processo-Rugolo in aula vanno in scena la proiezione di video scioccanti e l’ascolto di audio inequivocabili sull’agire quotidiano del sacerdote, anche al di là dei fatti oggetto d’imputazione: spavaldo, eccentrico, temerario, incline al turpiloquio con i ragazzi che dovrebbe educare, privo di scrupoli e mosso da pulsioni sessuali continue e incontrollabili – che ostenta regolarmente ai minori che influenza, coinvolge, irretisce e adesca – affetto da porno-dipendenza compulsiva come attestato dalle migliaia di suoi accessi ai siti web, una media di oltre sessanta al giorno: oltre venti mila in dieci mesi, il periodo marzo 2020-gennaio 2021 oggetto d’indagine.
In aula la sua difesa fa ascoltare la registrazione di un colloquio con il vescovo Gisana il quale, ignaro di orecchie esterne, sostanzialmente lo assolve e lo ‘beatifica’ (questa almeno è la tesi dell’imputato) dicendogli addirittura: <<caro Giuseppe, per te ci sono tutti i presupposti per diventare santo>>. In una lettera ad organi di stampa i quali riportano la frase, Gisana chiede di rettificare cercando di spiegare di non avere inteso usare alcuna indulgenza né approvazione dei comportamenti sotto accusa ma solo dire che anche nella vita dei beati possono esserci stati momenti oscuri. <<il colloquio se complessivamente ascoltato appare chiaramente volto ad esortare nel Rugolo una profonda riflessione sui fatti … ricordandogli che anche i santi hanno attraversato e superato momenti in cui hanno peccato o sono stati tentati>>: parole del vescovo il quale inoltre definisce ‘letteralmente inventata’ l’analogia tra la vicenda di Rugolo e suoi trascorsi personali richiamati in quella conversazione. Il parroco infatti nel colloquio, che registra a propria difesa, invita più volte il vescovo a raccontare la sua vicenda personale, facendo intendere che abbia molti punti di contatto con la sua. Quali punti di contatto? Dal colloquio intercettato non si evince. Gisana comunque nella richiesta di rettifica alla stampa nega ogni analogia.
Un vertice diocesano compatto a difesa degli abusatori, aggressivo contro le vittime e contro l’unico sacerdote che se ne cura
In un altro brano del colloquio risuonato in udienza, secondo l’imputato il vescovo dice al prete pedofilo che nella diocesi c’era un altro sacerdote <<che ha fatto cose molto peggiori delle tue, ma non viene fuori. Nessuno lo denuncia e, certo, non posso farla uscire io. Invece tu, un giovane di 38 anni stai passando tutto questo>>.
In ogni fase della vicenda il ragazzo abusato subisce, da uomini di chiesa e dai loro entourage, una sistematica aggressione intimidatoria, persecutoria e discriminante, volta anche ad estrometterlo dalle attività parrocchiali nelle quali è impegnato. Eloquente la fitta rete di messaggi, emersa in dibattimento, tra l’imputato e Vincenzo Murgano, il vicario giudiziale del tribunale ecclesiastico che di fatto diventa fidato consigliere del prete abusatore nella gestione degli aspetti scabrosi dello scandalo.
Come si apprende dalle udienze <<mons. Murgano, con cadenza quotidiana, forniva indicazioni e consigli strategici, avallando anche l’attività di controllo attraverso i social attivata da Rugolo ai danni della giovane vittima dell’abuso sessuale, colpevole, a dire dei due, di collaborare con il parroco di Sant’Anna (Fausciana, n.d.r.) nelle attività pastorali, nonché di svolgere attività professionali nel contesto della città di Enna>>. Perciò Murgano suggerisce a Rugolo: <<chiama incazzato il vescovo e fai una foto della schermata e gliela mandi, ma proprio incazzato>>. Il sacerdote posto a tutela dei minori dagli abusi commessi dai preti pedofili aizza uno di questi contro il minore-vittima che lui per primo dovrebbe difendere!
La verità è come il ‘diavolo’ per gli uomini in abito talare:
smemorati in udienza, balbettano, si contraddicono, mentono
In udienza, dinanzi al materiale probatorio che l’inchioda, Murgano tenta di negare fatti documentati, si contraddice, viene più volte ammonito dal tribunale come quando risulta evidente che egli sia a conoscenza di altri casi di abuso su minori ad opera di altri sacerdoti della diocesi nella quale è responsabile del servizio per la tutela dei minori (incarico conservato fino a dicembre 2022) senza avere adottato mai alcun provvedimento.
Il processo racconta inoltre che Rugolo <<godeva anche del pieno sostegno del monsignore Pietro Spina (il primo sacerdote cui la vittima si rivolge, n.d.r.) disposto a dargli fiducia anche qualora fosse risultato colpevole, confidando sulla prescrizione del reato e minimizzando gli episodi di abuso>> definiti, al pari di <<ogni atto sessuale diverso dalla penetrazione, semplici, normali e innocenti affettuosità>>, leciti quindi anche se nei confronti di minori e con l’abuso d’autorità dell’abito sacerdotale: è questa la tesi, singolare e ripugnante, illustrata al tribunale con ostentata convinzione dal prete novantenne.
Tale sostegno in favore di Rugolo e contro la vittima, a parte Fausciana, è corale: rispondendo alle domande della parte civile la quale gli chiede da chi avesse avuto il testo della denuncia ecclesiastica presentata dalla vittima alla diocesi e rinvenuta dagli investigatori nel suo pc, l’imputato spiega di averla ricevuta dalla segretaria del vescovo.
Ne scrive ampiamente la giornalista Pierelisa Rizzo, autrice di attenti reportages sulla vicenda e sulle oltre cento ore di udienze alle quali non è consentito assistere ma che certo non è vietato raccontare: anzi è preciso dovere dei giornalisti farlo, in nome di quella verità laica e civile alla quale dovrebbero aspirare anche gli uomini di chiesa, mossi da un motivo in più, almeno nella sfera della fede e della testimonianza evangelica: la frase di Gesù, nei vangeli di Giovanni <<… et cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos (…e conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi)>>. E invece qui dalla verità fuggono peones e graduati del clero, e quando loro malgrado essa comunque li raggiunge, la ignorano, la nascondono, la mascherano. Quanto alla libertà, l’unica che sembra loro interessare è quella dalla verità stessa, dal dovere, dalla responsabilità, dal valore del bene.
Querele contro la verità pubblica, in difesa della menzogna e dell’omertà
Due elementi vanno tenuti presenti in questa vicenda e in molte altre simili, a proposito di verità: lo strumento della querela e quello della petizione con migliaia di firme per modellarla, forzarla, ribaltarla se necessario, a proprio piacimento.
Pierelisa Rizzo, giornalista di rigore etico e valore professionale, viene querelata da Rugolo per avere diffuso sul proprio profilo fb alcune chat a sfondo sessuale – materiale processuale – riguardanti il sacerdote e le sue imputazioni. La sua difesa ne domanda, e dal gip ottiene, l’oscuramento. Provvedimento cancellato dalla corte di cassazione, mentre il pubblico ministero chiede l’archiviazione del procedimento per diffamazione: a marzo prossimo sarà un giudice a decidere in seguito all’opposizione dell’imputato.
Eloquenti le parole della giornalista, il 3 maggio ’21, una settimana dopo l’arresto e cinque mesi prima del via al processo.
<<leggo di una petizione ‘solidarietà al vescovo Gisana’, ma solidarietà di che? Che ha offerto 25 mila euro della Caritas alla famiglia della vittima? Che ha ammesso che sapeva delle violenze seppure quando Rugolo era seminarista e, dunque, ampiamente maggiorenne, e la vittima era certamente minorenne? Solidarietà perché ha provato ad insabbiare tutto? Solidarietà perché non avendo sospeso il parroco, come dice invano il ‘Motu proprio’ di Papa Francesco, dopo che era venuto a conoscenza del reato, non ha impedito che altri ragazzi venissero abusati? Mi chiedo perché di fronte a queste prove, che non ho certo costruito io, la Chiesa continui a coprire. Ho atteso ore per incontrare l’avvocato di Rugolo. Ho atteso perché, credo giusto sentire tutti i protagonisti. Ho atteso perché volevo raccontare l’altra faccia della medaglia. Ma mi interrogo a cosa serva raccontare una verità che sembra non incidere. Faccio la giornalista da trent’anni, da oltre trenta lavoro per l’Ansa. Mi sono occupata di tantissimi casi, brutti, pieni di orrore ma mai mi ero imbattuta in un caso in cui le evidenze dei fatti fossero negate così. Per prima cosa c’è un arresto. La procura non chiede, né un giudice dispone, un arresto così, a cuor leggero. Ci vogliono fatti gravi, che siano comprovati. E poi c’è l’inchiesta che racconta l’orrore allo stato puro. Questi i fatti che coinvolgono il vescovo della diocesi di piazza Armerina Rosario Gisana, due monsignori di Enna, e tanti e tantissimi preti ad Enna ed in tutta la diocesi. E questi sono responsabili come e quanto Rugolo. Che si sarebbe potuto fermare e forse aiutare. Dunque cari parroci, animatori parrocchiali, chierici, perpetue, monsignori e quanti altri che state condividendo anche sui gruppi privati la petizione di solidarietà a Rugolo, guardate dentro, interrogatevi sul perché venti o quarant’anni fa anni fa avete indossato quell’abito e provate a servire quel Dio che ora vi guarda con dolore. Non il vostro. Ma quello delle vittime che state sacrificando per il potere, per l’indifferenza, per l’ipocrisia di una Chiesa che, ad Enna, crolla a pezzi>>.
Le petizioni con migliaia di firme di solidarietà
al sacerdote abusatore e al vescovo insabbiatore
In quel periodo scatta una petizione sia in favore del vescovo che dello stesso parroco imputato. Firmano volentieri migliaia di fedeli, sicchè vien da chiedersi: ‘fedeli’ a cosa? Al vescovo ‘insabbiatore’ e al parroco’ abusatore’ arrestato per violenza sessuale in danno di minori? Non certo fedeli alla verità che peraltro, in relazione ai fatti contestati a Rugolo, solo chi non volesse non vedeva: almeno in riferimento ai comportamenti esibiti, al di là della sentenza di colpevolezza o meno che scaturirà dal processo penale.
Altro che ‘Vos estis lux mundi’, il Motu proprio pontificio entrato in vigore due anni prima dell’arresto di Rugolo e tre anni dopo che Gisana sia a conoscenza delle accuse. E che introduce precise procedure interne alle quali <<i vescovi devono attenersi rigidamente nel caso di una denuncia, anche anonima, che riguardi episodi di molestie sessuali da parte di un sacerdote>>. E qui, stando alle imputazioni, non si tratta di molestie, ma di atti reiterati di violenza sessuale.
Al contrario Rugolo e Gisana sono impegnati a ricevere attestazioni di solidarietà per la loro condotta: di asserita violenza il primo, di insabbiamento delle denunce il secondo.
Ovviamente non tutti i ‘fedeli’ sono uguali e tanti altri, al contrario, proprio perché prendono sul serio il provvedimento di papa Francesco, si chiedono, stupiti, perché un pontefice come lui lasci indisturbato quel vescovo al suo posto.
Petizioni e querele le armi in campo. Delle prime abbiamo detto. Quanto alle seconde Rugolo, con i soldi dell’otto per mille come vedremo, ne scaglia una anche al presidente della rete ‘l’abuso’ ed anche in questo caso la procura (di Savona) chiede l’archiviazione ma il querelante, sempre a spese dei fedeli, si oppone: deciderà il giudice delle indagini preliminari. Presidente dell’associazione, che ha sede in Liguria ed è parte civile nel processo di Enna, è Francesco Zanardi il quale, vittima da bambino di abusi sessuali in parrocchia, da anni si batte contro le violenze compiute da membri del clero. In questa lotta pro o contro la verità c’è poi la ‘giurisdizione interna’ con i suoi tribunali ecclesiastici che dentro la Chiesa hanno sempre la prima e l’ultima parola.
In Liguria il caso del parroco arrestato e condannato, tornato a dir messa
proprio laddove aveva violentato una bambina: <<la Chiesa è sovrana>>
Per esempio, per restare in Liguria, suscita ancora scalpore il caso del sacerdote Luciano Massaferro, riapparso tre anni fa a celebrare la messa in una parrocchia della stessa diocesi (Albenga, considerata refugium peccatorum di preti pedofili, uno dei tanti) in cui aveva violentato una bambina di undici anni. La condanna definitiva, a sette anni e otto mesi di reclusione inflittagli dalla giustizia penale italiana con interdizione perpetua dai pubblici uffici, una volta scontata la pena, non è bastata – vigente il Motu proprio di papa Francesco – ad impedirgli di tornare a celebrare l’eucaristia nello stesso luogo in cui aveva commesso quei turpi crimini. E ciò perché il tribunale ecclesiastico, dopo la sentenza dello Stato italiano, invece lo assolve perché ai giudici in abito talare <<non risulta che don Massaferro abbia commesso i delitti ascritti>>: cinque parole di … motivazione senza motivazioni, punto. Una sorta di aristotelico ipse dixit nelle tesi di Averroè. Con tante lodi allo stupratore, insieme al caldo invito a proseguire.
Infatti il vescovo, pur dopo una serie infinita di scandali abbattutisi su quella diocesi, spiega: <<don Massaferro non sarà più parroco perché è interdetto dai pubblici uffici, ma può dir messa perché la Chiesa è sovrana>>.
L’assoluzione ecclesiastica di questo prete, che per la giustizia italiana è un pericoloso pregiudicato per avere violentato una bambina, all’interno della Chiesa cattolica è l’epilogo ‘regolare’ di vicende di questo tipo. Esiti diversi sono una rara eccezione.
Rugolo, sentenza penale a novembre ma la ‘giustizia’ ecclesiastica
lo ha già prosciolto. E i pessimi esempi sono sempre la regola
Tornando al caso-Rugolo, l’imputato, per la giustizia italiana sarà giudicato dal tribunale di Enna con la sentenza prevista il 7 novembre prossimo. Tale sentenza, se anche fosse di assoluzione, sarebbe comunque la risultante di un dibattimento che, sia rispetto ad un rudimentale e laico ethos morale che soprattutto ai valori della Chiesa (se li prendiamo sul serio), lo ha già condannato con infamia senza appello. Eppure egli è già stato assolto dalla cosiddetta giustizia ecclesiastica. Con una decisione di non luogo a procedere perché i fatti si sarebbero svolti quando era ancora seminarista e dunque ritenuti non di pertinenza della congregazione per la dottrina della fede. Da rilevare che, come chiariscono in proposito le norme del diritto canonico (qui), l’asseritamente esclusa pertinenza è segno di comprovata sussistenza dei fatti oggetto d’accusa: eppure quel parroco esuberante risulta canonicamente ‘prosciolto’ e rimane libero di dare sfogo alle sue pulsioni sui minori a lui affidati.
Come chiarisce il testo di cui al link sopra richiamato, la cosiddetta ‘indagine previa’ dà il via al procedimento. Nel caso di quello riguardante Rugolo avviene anche che la sua vittima, come da essa dichiarato in dibattimento, prima di trovarsi costretta a rivolgersi alla magistratura penale italiana, <<sin dai primi colloqui con il vescovo, e anche durante l’indagine previa>> segnali <<un altro sacerdote che adescava ragazzini, compagno di seminario di Rugolo. Me ne aveva parlato Rugolo stesso quando frequentavo la parrocchia ad Enna. Nessuno però ha fatto nulla e oggi questo prete è parroco della diocesi con incarichi importanti a contatto con i minori». L’ennesima denuncia caduta nel vuoto, come tutte le altre.
A Gela, la città più popolosa della diocesi, un carabiniere, catechista della chiesa madre – rivela l’inchiesta di Federica Tourn sul tema ‘la violenza nella chiesa’ pubblicata dal quotidiano Domani – è sotto processo per violenza sessuale sul figlio minore e maltrattamenti nei confronti dell’ex moglie. Nonostante questo, rimane un punto di riferimento in parrocchia, tanto che a Pasqua 2022, durante la celebrazione della settimana santa, lo si vede portare il Cristo morto in processione e compare anche sull’altare lo scorso settembre, in occasione della ricorrenza di Maria Santissima dell’Alemanna, patrona di Gela>>. Quell’inchiesta esce su Domani il 14 novembre 2022, quattro giorni prima che la Cei (Conferenza episcopale italiana) affronti il tema in occasione della giornata nazionale di preghiera della chiesa italiana per le vittime e i sopravvissuti agli abusi. Interpellato dal quotidiano nell’occasione Gisana preferisce non rispondere.
In diocesi e parrocchie tanti nipotini-epigoni del don Gaetano di Todo modo,
e per Gisana <<è una fortuna che la vittima non abbia denunciato>>
Il processo-Rugolo porta alla luce una realtà che sembra popolata da tanti nipotini del don Gaetano tratteggiato da Leonardo Sciascia in Todo Modo. Realtà che non è certamente presente solo a Piazza Armerina ma che qui questo accidentale dibattimento fa emergere forse senza troppi veli. Da un’intercettazione letta in aula si apprende che un sacerdote ha abusato di un minorenne, in seguito divenuto prete. Nella telefonata Gisana dice espressamente <<è una fortuna che la vittima non lo abbia mai denunciato (sic! n.d.r.) perché altrimenti sarebbe stato certamente ridotto allo stato laicale>>: la pena massima, come quella comminata all’innocente Nello Dell’Agli il quale però non aveva fatto nulla per essere accusato, né, tanto meno, condannato. Sembra che secondo questi uomini di chiesa investiti d’alta responsabilità debbano essere condannati gli innocenti e prosciolti i colpevoli: meglio se con la minore fatica offerta in dono da una mancata denuncia. E se il dono spontaneo non c’è, pazienza, lo si acquista o lo si ottiene con ogni mezzo.
Dinanzi al tribunale il ragazzo abusato da Rugolo aggiunge: «Entrambi, l’abusatore e la sua vittima sono stati nominati dal vescovo parroci in due chiese della diocesi nelle due settimane precedenti l’udienza. La vittima, insomma, premiata per il suo silenzio>>. E alla richiesta di spiegazioni da parte del difensore di parte civile il vescovo si sottrae di scatto: «E questo che c’entra?». E’ l’udienza fiume del 10 ottobre 2022: Gisana esita, si confonde, non ricorda. Di fronte alle contestazioni delle sue dichiarazioni intercettate e rilette in aula si contraddice, annaspa e il procuratore lo richiama più volte ammonendolo «a mettersi d’accordo con sé stesso».
E’ incredibile come tutto questo emerga unicamente perché in un caso, uno solo dei tanti (altrimenti non sapremmo niente) la vittima non si sia fermata all’uscio della ‘sua’ chiesa, dopo avere bussato per sette anni invano alla porta e abbia finalmente cambiato strada e scelto l’indirizzo giusto: la magistratura penale che in territorio italiano (dove si trovano Enna e Piazza Armerina che, come ogni canonica e sacrestia in Italia e nel mondo, non sono zone franche né repubbliche sovrane) ha competenza esclusiva nell’accertare e perseguire i reati. Da quarant’anni è così anche per il diritto canonico, da quando nel 1983 viene abolito il privilegium fori che, da Costantino in poi per oltre mille e seicento anni, ha sottratto i chierici alla giurisidizione, civile e penale, del giudice statale.
E senza di quella denuncia all’unico giudice dimostratosi degno, non sapremmo neanche come vengano utilizzati i fondi dell’otto per mille, un miliardo di euro l’anno donati alla Chiesa cattolica dai contribuenti italiani.
Soldi dell’otto per mille per la difesa del prete imputato di abusi sessuali
e per l’avvocato del vescovo-testimone (che bisogno ha del legale?)
Dal processo di Enna si apprende che Gisana <<ha coperto ventimila euro di un debito di don Rugolo nell’ottobre 2019, a cui ha aggiunto altri quindicimila nell’estate del 2021 perché il prete lamentava di non farcela nel suo esilio ferrarese soltanto con i soldi della retta>>. Inoltre le spese legali di Rugolo e l’anticipo di quelle per l’avvocato del vescovo: altri venti mila euro, prelevati sempre dai fondi dell’otto per mille, mentre i 25 mila euro per il silenzio della vittima come abbiamo visto, se il supposto accordo fosse andato in porto, sarebbero stati prelevati dalle casse della Caritas e versati in contanti.
Singolare anche pagare migliaia di euro per un avvocato di cui Gisana non dovrebbe avere bisogno. Egli non è indagato ma solo testimone: se avesse a cuore solo la verità e la tutela delle vittime di eventuali abusi, nonché i giusti interessi della diocesi (i quali non dovrebbero potere risiedere in nient’altro che nella verità e in tale tutela), che bisogno avrebbe di un legale per rendere testimonianza nel processo intentato dallo Stato italiano contro un prete accusato di abusi sessuali su minori?
Lo scudo della confessione, da sacramento a strumento di omertà
e menzogna giudiziaria: le istruzioni a Gisana dal consigliori in Vaticano
Qualche risposta alla domanda ce la dà un altro tema scabroso emerso dal processo: lo scudo giudiziario della confessione, ‘sacramento’ ridotto a strumento di omertà e menzogna giudiziaria. Sentito come persona informata dei fatti nel gennaio 2021, Gisana dichiara di non avere avuto altre segnalazioni a carico del sacerdote sotto accusa, a parte quella già nota di Antonio Messina, e omette di rendere noto agli inquirenti che un altro ragazzo già nel 2015 è andato da lui a denunciare abusi ad opera dello stesso don Rugolo.
Le intercettazioni ci consegnano un vescovo preoccupato per questa sua reticenza, tanto da sentire il bisogno di parlarne con il fidato vicario Rivoli e concordare la strategia più utile per celare la verità: «E quindi, non so… per questa cosa… eventualmente gli dirò: io ho avuto delle confessioni, le confessioni non si dicono, mi dispiace!». Ma non si sente totalmente tranquillo e cerca, prima e dopo l’interrogatorio, ulteriori consigli e rassicurazioni. Che trova – documentano le intercettazioni – in un tale don Paolo il quale risponde da un’utenza del Governatorato di Città del Vaticano. Il prezioso consigliere pontificio prima lo invita a non andare da solo in procura ma a farsi accompagnare dall’avvocato, e poi lo rassicura dicendogli che ha fatto bene a non raccontare di quell’ulteriore denuncia del 2015, perché per la legge canonica non può riferire né il contenuto né il fatto stesso dell’avvenuta confessione. Quando a marzo viene sentito nuovamente dal procuratore – ricostruisce Federica Tourn nell’inchiesta di Domani – il vescovo decide comunque di correggere il tiro e ammette di avere parlato con il ragazzo il quale gli ha segnalato gli abusi ma, appunto, solo in confessione, ma la circostanza è smentita in udienza dall’interessato: <<no, non solo in confessione, anche in un colloquio privato, in curia>>.
Il campione di lotta alla pedofilia don Fortunato Di Noto invita il vescovo
a vigilare, non sull’abusatore ma sulla vittima: “traccia i colloqui”
Le indagini degli inquirenti e l’impietoso bagno di realtà offerto dalle intercettazioni ci consegnano un campione di lotta ai crimini della pedofilia e della pedopornografia come don Fortunato Di Noto, il missionario delle periferie digitali, nella veste di ‘spalla’ del vescovo insabbiatore. Intercettato dice a Gisana <<ti voglio un bene dell’anima>> e gli consiglia << vigilanza>>. A tutela dei minori abusati e contro gli abusatori? Non proprio. E’ lui stesso a spiegare al vescovo su cosa e in che modo debba essere vigile: <<se ci riesci traccia almeno i colloqui (con Messina, la vittima di Rugolo, e la sua famiglia, n.d.r) perché questi qua come stanno montando la cosa, capisci…>>.
I guai per Gisana sono sempre in agguato, forse al di là delle sue colpe. Ce lo dicono sempre le intercettazioni, pur nel breve periodo in cui esse sono eseguite. Apprendiamo così che un giorno gli chiede udienza, tramite il fido vicario Rivoli, un colonnello dei carabinieri, Saverio Lombardi, all’epoca al vertice del comando provinciale di Enna. Un incontro riservato al quale l’ufficiale si presenta in abiti comuni. Motivo e tema dell’incontro? Lo spiega Gisana agli inquirenti: <<lombardi venne a suggerirmi di cambiare avvocato in quanto quello che avevo era coinvolto in un’inchiesta per associazione mafiosa>>. Parola di colonnello il quale però – apprendiamo da Gisana – non offre i suoi servigi disinteressatamente ma chiede qualcosa in cambio: i favori del vescovo per entrare nell’ordine dei cavalieri del Santo sepolcro.
Vero o no che il legale di Gisana, prescelto pare su indicazione di Rivoli, sia coinvolto in indagini per mafia, inquieta la richiesta dell’ufficiale, poi trasferito a causa dell’improvvida missione in curia e processato per corruzione: inquieta non tanto per lui, quanto per il vescovo.
L’ufficiale dei carabinieri, il vescovo e i cavalieri del santo sepolcro:
ordine ridotto ad una specie di P2 con affaristi, mafiosi e uomini di chiesa
La storia e numerosi atti d’indagine, nonché relazioni di commissioni parlamentari antimafia, dicono che, almeno in Sicilia, dagli anni ’70 del secolo scorso e fino a tempi recenti, l’ordine dei cavalieri del Santo sepolcro è una specie di P2, una stanza degli scambi tra affaristi di ogni tipo, alti prelati, mafiosi, politici, uomini dello Stato: a decine colonnelli, generali, questori, prefetti. A lungo ne è luogotenente Arturo Cassina, monopolista quarantennale degli appalti pubblici a Palermo in ‘quota mafia’ ai tempi della Dc di Giovanni Gioia, Salvo Lima e Vito Ciancimino, nonché pilastro a Palermo della rete stesa da Cosa nostra nelle cui trame è possibile imbattersi nel parroco mafioso Agostino Coppola o nel vescovo in odor di mafia (di Cefalù e poi di Monreale) Salvatore Cassisa il quale dei cavalieri del Santo sepolcro ne è all’epoca grand’ufficiale.
Giovanni Falcone colloca questi improbabili ‘difensori della cristianità’ in un sistema di potere marcio che comandava più d’ogni altro a Palermo. Le sue parole, diversi anni dopo la morte, ispirano alle vedove di mafia Agnese Borsellino e Rita Bartoli Costa, nonché alla sorella Maria Falcone un accorato appello al Vaticano perché ripulisca quell’ordine, chiudendo le porte girevoli del transito interno con la mafia e ciò che rimane della P2, facendone cessare la disinvolta coabitazione: appello inascoltato.
Non sappiamo cosa Gisana abbia risposto a quella richiesta di raccomandazione dell’ufficiale dei carabinieri, né se l’abbia assecondata, ma certo è che alcuni guai lo raggiungono senza che si possa dire che abbia fatto poi così tanto per procurarseli. Come, c’è da presumere, nella vicenda dell’arresto per corruzione, a maggio 2022, di don Giovanni Tandurella, parroco della cattedrale di Piazza Armerina sede del vescovado, che egli tre anni prima ha nominato e poi, nonostante da tempo si sappia delle indagini, mantenuto nel prestigioso incarico fino all’arresto. Quando viene indagato, quel parroco così importante nella diocesi si dimette solo dalla gestione dell’otto per mille che è nelle sue mani. L’inchiesta ruota intorno alla gestione della casa d’ospitalità ‘Antonietta Aldisio’ di Gela, l’ex Opera pia oggi istituto pubblico d’assistenza e beneficenza, e riguarda quindici indagati, con il parroco in posizione centrale a rispondere, per dei lasciti utilizzati a fini personali, anche di falso, circonvenzione d’incapace, appropriazione indebita, riciclaggio.
E’ lecito definire relazioni sessuali quelle tra un prete e minori?
L’inciampo di Gisana che gli costa anche l’accusa di omofobia
In questa stessa categoria di guai per così dire ‘preterintenzionali’ possiamo collocare l’effetto di certe dichiarazioni sul conto degli omosessuali. Le riprende Federica Tourn nella sua inchiesta dopo che esse risuonano in dibattimento.
A differenza delle versioni ufficiali <<al telefono con sacerdoti amici – annota la giornalista – è però tutta un’altra musica: fra bestemmie e imprecazioni, don Rivoli non risparmia epiteti nemmeno per i Messina, che ritiene responsabili di aver fatto emergere la vicenda, e per don Giuseppe Fausciana, il parroco di Enna che ha incoraggiato Antonio a denunciare il suo abusatore e che, secondo il vicario, sarebbe stato spinto da gelosia nei confronti di Rugolo. Qui la torbida vicenda assume i toni del più crudo neorealismo. Il vescovo Gisana al telefono spaccia a un altro prete, tale don Angelo, la teoria che il ragazzo abbia dichiarato di essere stato violentato per giustificare la propria omosessualità a spese di don Rugolo>>
E qui torniamo all’intercettazione: «Tu li conosci questi omosessuali, non è che noialtri – dice Gisana – veniamo da Marte, sono fatti così: amano o odiano in maniera viscerale, questa è una pura vendetta di una persona innamorata e che è stata respinta».
Una frase detta per minimizzare, forse, la portata del caso che però la vittima di Rugolo segnala al tribunale come discriminatoria: «In aula sono emersi chiaramente i pregiudizi di Gisana nei confronti degli omosessuali. Il vescovo ha messo in dubbio l’attendibilità delle mie accuse sulla base della mia identità sessuale».
Omofobia e pregiudizi vanno a inquinare ulteriormente un clima già avvelenato, pieno di segreti e gelosie. Eppure Gisana, alla fine degli anni ’80, quando era un giovane prete ordinato da poco – dà atto Federica Tourn – aveva un atteggiamento diverso verso le persone lgbt. Disponibile e accogliente, aveva anche supportato a Modica, la sua città natale, la fondazione dei Fratelli dell’Elpis, un gruppo di credenti gay. «Don Rosario era la mia guida spirituale e in un clima che nella chiesa e nella società era di totale chiusura sul tema, lui era l’unico a parlare dell’amore omosessuale come di una cosa normale» testimonia Carmelo Roccasalva, fondatore dell’Elpis. Dato che all’epoca Carmelo non ha ancora fatto coming out in famiglia, don Gisana gli mette a disposizione l’indirizzo di casa sua per la posta dell’Elpis, fino al trasferimento del gruppo nella chiesa del ‘Santissimo crocifisso della buona morte’ a Catania. È talmente determinante l’influenza di Gisana sui primi anni dell’Elpis che nel 2015 è chiamato a partecipare come ospite, insieme all’arcivescovo di Catania Salvatore Gristina, alla celebrazione del venticinquesimo anniversario del gruppo parrocchiale. Difficile – conclude Tourn – far combaciare il ritratto del giovane sacerdote progressista dipinto da Roccasalva con il vescovo a cui oggi viene chiesto di dare conto delle dichiarazioni omofobiche nei confronti di un ragazzo vittima di abusi.
Quante tegole su Gisana: l’arresto del sacerdote, frate francescano
che in convento nasconde soldi in contanti, armi e passamontagna
Cinque mesi dopo l’arresto del parroco della cattedrale di Piazza Armerina Giovanni Tandurella, il 13 ottobre 2022 ecco una nuova tegola sulla testa del vescovo: l’arresto di un altro sacerdote della diocesi, Rosario Buccheri, ex carabiniere, francescano dell’ordine dei frati minori conventuali che ad inizio dell’anno Gisana nomina cappellano del carcere di Enna. Proprio in questa funzione viene sorpreso a cedere ad un detenuto un panetto di hashish. E nella sua stanza in convento gli vengono sequestrati un fucile a canne mozze con matricola abrasa, una pistola, tantissime munizioni, un taser, un passamontagna e 35 mila euro in contanti. Difficile pensare che siano il ricavato di elemosina, risorsa naturale e preziosa – fin dalla regola del 1223, esattamente ottocento anni fa – di questo ‘ordine mendicante’ fondato da Francesco d’Assisi.
Tornando alla linea principale del percorso seguito, riprenderemo nella prossima puntata il filo, anche cronologico, dei fatti del cosiddetto affaire-Salonia. A conclusione di questa digressione dettata dalle figure in campo e – in questo caso soprattutto – dalla bufera giudiziaria del caso-Enna che investe il vescovo Gisana, è giusto ricordare che tutto ciò accade – rectius, continua ad accadere – anche dopo e nonostante i passi importanti compiuti da papa Francesco rispetto ai predecessori. Abbiamo citato il Motu proprio ‘Vos estis lux mundi’ che fa cadere l’obbligo del segreto sugli abusi: ‘semplicemente doveroso’ si deve osservare. Ma come è stato possibile che tale obbligo avesse legittimazione e sanzione pontificia fino al 2019, settimo anno del papato di Bergoglio che comunque ha il merito di averlo rimosso, mentre i predecessori lo hanno sempre pervicacamente mantenuto?
Da due anni peraltro nelle chiese locali il 18 novembre si celebra la Giornata nazionale di preghiera per le vittime e i sopravvissuti agli abusi, per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili: istituita nel 2021 in corrispondenza della Giornata europea per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale.
Nel contempo in alcune diocesi si coglie un fermento positivo di cambiamento con iniziative, centri di ascolto, l’uso aperto di parole nuove, sensibilizzazione delle vittime alla denuncia, nonchè del clero a cambiare abitudini, con l’ausilio di dati, dossier statistici, percorsi tracciati e direttive da parte di organismi vaticani in coerenza con il nuovo corso annunciato. Ma in tante altre realtà, centrali e locali, si continua a remare nella stessa direzione di sempre.
In proposito il focus sulla diocesi di Piazza Armerina risuona impietoso, forte e chiaro, come un allarme angosciante e rivoltante: sarebbe un errore considerarlo una spiacevole eccezione e non, quale invece è, la spia di un fenomeno ordinario, capillare e diffuso in gran parte delle 226 diocesi, delle 25 mila parrocchie e delle cento mila chiese italiane. Esso ci racconta molto anche sul tema generale della vera realtà interna della Chiesa, della sua comunità, delle sue lotte interne tra certe spinte al bene e vecchie, oscure, ciniche logiche di potere capaci di piegarlo con ogni delitto. Tra i più gravi e imperdonabili figura quello delle violenze e degli abusi sessuali su minori e persone fragili, nonchè della sistematica copertura dei responsabili come regola immutabile di vita e di sopravvivenza: ecco perchè si è resa necessaria, sul tema della giustizia (inGiustizia Vaticana), questa tappa nell’inchiesta partita dall’ingiusta condanna canonica di un sacerdote e approdata a quella del giallo intorno alle vicende del ‘quasi vescovo’ costretto a rinunciare al soglio episcopale, proprio per tali vicende, affiorate anche in sede penale, sulle quali il primo testimonia.
2 – continua
Edited by pincopallino2 - 12/11/2023, 18:24