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Garibaldi anticlericale, Il mito inossidabile del più grande eroe che l'Italia abbia avuto

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Rinascimento
view post Posted on 13/11/2011, 17:57




Garibaldi è uno dei personaggi più studiati della storia, conosciuto realmente in tutto il mondo: Europa, Americhe (nord e sud), Russia, Cina, Giappone, India. Quando visse fu forse l'uomo più amato e popolare dell'epoca. Denis Mack Smith e Trevelyan, storici più che illustri, hanno descritto con dovizia di particolari la popolarità quasi incredibile dell'Eroe, non solo in Italia, ma in Francia, in Germania, in Inghilterra ecc. La sua fama giunse sino nel cuore della Russia rurale e fra i popoli arabi. Garibaldi, che era cosmopolita e pacifista, nella sua biografia rivolge frequenti appelli alla concordia fra i popoli, ma attacca duramente il papato, che riteneva responsabile della degenerazione dell'Italia.
 
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FutureLoop foundation
view post Posted on 13/11/2011, 18:13




[QUOTE="Giuseppe Garibaldi"]Non voglio accettare in nessun tempo il ministero odioso, disprezzevole e scellerato di un prete, che considero atroce nemico del genere umano e dell’Italia in particolare. [/QUOTE]
 
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kepri
view post Posted on 2/1/2012, 00:07




vi ho trovato per caso.....VaTIcAno lavati e studia prima di offendere...e di ripetere frasi che neanche conosci.....addio...
 
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Rinascimento
view post Posted on 4/6/2012, 13:16




Uno sguardo sull'Eroe dei Due mondi da parte del grande storico partenopeo Alfonso Scirocco, uno dei suoi moltissimi biografi, recentemente scomparso:


La figura di Giuseppe Garibaldi, di Alfonso Scirocco
Giuseppe Garibaldi, con Dante, Cristoforo Colombo, Leonardo da Vinci, è uno dei pochi italiani conosciuti e ammirati in tutto il mondo, l’unico dei tempi moderni, il solo a essere amato, oltre che ammirato. La sua vita, ricca di eccezionali imprese compiute in America e in Europa, è un romanzo di avventure, abbellito dal fascino dell’esotico; l’abilità con cui tiene testa ad avversari più forti lo accomuna agli eroi dei poemi epici, sbriglia la fantasia dei narratori, attira ammirazione e simpatia.
Coraggio e ostinazione, audacia e fortuna, s’intrecciano mentre, per dieci anni, pirata centauro, veleggia sui grandi fiumi e cavalca negli spazi sterminati di Brasile, Uruguay, Argentina, e quando combatte in Italia, sempre inferiore di uomini e di mezzi, sette campagne dal 1848 al 1867 contro austriaci, francesi, napoletani, e l’ottava in Francia nel 1870 contro i prussiani. Sorprende il nemico con inventiva e astuzia: in Brasile trasporta le navi dalla laguna al mare per via di terra, in Italia nel 1849 sfugge alla caccia di tre eserciti, nel 1860 beffa i borbonici, fingendo di ritirarsi mentre piomba su Palermo.
La fama delle imprese che lo vedono protagonista per mare e per terra vola nel mondo. Si occupano di lui governi e parlamenti, a Rio de Janeiro, a Montevideo, a Buenos Aires, a Parigi, a Londra, a Vienna, a Torino, a Roma, a Napoli. Se ne parla in Europa e in America. Combattono al suo fianco in America brasiliani, uruguayani, emigrati italiani e fuorusciti argentini, in Europa italiani di tutte le regioni e di tutte le condizioni, democratici francesi, inglesi, americani, tedeschi, esuli polacchi, ungheresi, russi, slavi. Già noto nel Sud America, il suo nome dal 1845 si affaccia prepotentemente sui quotidiani europei; riviste a diffusione internazionale ne pubblicano i ritratti, ne illustrano le imprese con i servizi giornalistici di disegnatori e fotografi che lo seguono sui campi di battaglia; ritratti e rappresentazioni di episodi che lo riguardano sono diffusi con litografie a basso prezzo, in ogni angolo dell’Europa e delle Americhe. Si moltiplicano biografie, spesso romanzate, in italiano, in inglese, in francese, in tedesco, in tutte le lingue. L’enorme popolarità che ha tra i contemporanei non si spiega soltanto con l’eccezionalità delle imprese compiute. Ciò che colpisce la fantasia è lo straordinario disinteresse, la fermezza con cui rifiuta ricompense e onori, la semplicità della sua vita, che sconfina nella povertà, la modestia con cui ritorna nell’ombra appena ritiene terminata la sua opera, la disponibilità con cui mette la sua vita al servizio dei ribelli del Rio Grande, dei difensori di Montevideo, dei repubblicani francesi, lontano da egoistici interessi nazionalistici. Sul fascino di una personalità, in cui convivono stranamente temerario sprezzo del pericolo in guerra e gentilezza di modi nella vita quotidiana, s’interrogano uomini politici, letterati, giornalisti. Lo idolatrano le donne, nobili e popolane, ricche e povere.
Si forma presto il mito del combattente per la libertà e l’indipendenza di tutti i popoli che lo accompagnerà per tutta la vita. “Uomo di fama mondiale”, lo saluta nel 1850 “The New York Daily Tribune”; il russo Herzen lo esalta nel 1854 come “un eroe classico, un personaggio dell’Eneide (…) attorno al quale, se fosse vissuto in altra epoca, si sarebbe formata una leggenda”, e dieci anni dopo come “l’unica grande personalità popolare del nostro secolo elaboratasi dal 1848”; “Uomo della libertà, uomo dell’umanità”, lo definisce nel 1860 il francese Victor Hugo; tre anni dopo è considerato “l’uomo più grande del secolo” dal presidente argentino Bartolomeo Mitre; nel 1867 è chiamato dallo svizzero James Fazy “l’uomo più valoroso e più disinteressato del suo secolo”; nel 1870 l’inglese Philip Gilbert Hamerton sembra “il più romantico eroe del nostro secolo, l’uomo più famoso del pianeta, il capo più sicuro di vivere nel cuore delle future generazioni”; alla sua morte tedesca “ Deutsche Zeitung” invoca un nuovo Omero “per cantare degnamente l’Odissea di questa vita”.
Garibaldi appare l’eroe per antonomasia, ne attendono la spada liberatrice i contadini russi e i magnati ungheresi. Nel 1860 la fama dell’incredibile conquista di un regno si diffonde attraverso canali misteriosi tra operai e contadini di mezza Europa.
E’ questo il Garibaldi tuttora vivo. Anche se ha compiuto la sua più grande impresa in Italia e per l’Italia, egli ha rivolto l’animo alla liberazione di tutti i popoli oppressi e alla redenzione degli umili in un sogno di giustizia sociale, concepito in giovinezza con l’adesione a princìpi di umanitarismo e cosmopolitismo. Benché si senta nato per combattere (la guerra es la verdadera vida del hombre, è un motto a lui caro) considera la guerra una necessità dolorosa, determinata dall’ingiustizia.
Secondo gli organizzatori del Congresso internazionale per la pace di Ginevra il suo nome “vuol dire eroismo e umanità, patriottismo, fraternità dei popoli, pace e libertà”. In effetti la sua voce si leva spesso in favore della pace e della collaborazione tra i popoli. Nell’ottobre 1860, dopo la vittoria sul Volturno, rivolge un appello alle potenze europee perché formino un solo Stato, e successivamente propone un congresso mondiale per giudicare le controversie tra le nazioni, e incoraggia ogni iniziativa che abbia aspirazioni di pace. Nello spirito della fratellanza degli uomini nel 1871 esprime simpatia per il nascente socialismo, vedendo in esso soprattutto “un sentimento di giustizia e di dignità umana”.
Garibaldi è vissuto in un’epoca contrassegnata da una grande fioritura di sistemi politici ispirati dalla ricerca della giustizia sociale, dal sansimonismo e dal mazzinianesimo al socialismo anarchico di Proudhon e Bakunin e a quello scientifico di Marx. Si è avvicinato ad alcuni, in particolare ai primi due, senza identificarsi con nessuno. Ciò è stato considerato segno di superficialità e di mediocrità intellettuale da parte dei contemporanei e dei primi biografi. Nel XXI secolo, dopo il tramonto delle ideologie che hanno dominato la storia del novecento, possiamo avere maggiore comprensione per il desiderio di indipendenza mentale di un idealista senza ideologie.
Avverso a etichette e preclusioni, è stato uomo della libertà, cittadino del mondo. Questo sogno ha dato un significato universale alla sua avventura umana, che ha affascinato romanzieri e poeti, da Alexandre Dumas a Giosue Carducci, e affascina ancora quanti credono nella forza animatrice dell’ideale.

www.garibaldi200.it/biografia00.asp
 
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view post Posted on 5/9/2014, 11:17
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http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/03/22...aribaldi/99268/


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L’orecchio tagliato di Garibaldi
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 22 marzo 2011Commenti (0)
Più informazioni su: Blog, Bufale, Risorgimento, Unità d'Italia.


Garibaldi, Cavour e il Risorgimentodi Alberto Mario Banti*

Beh, se ne sentono di stramberie intorno al Risorgimento e all’Unità. Eccone una: a Garibaldi hanno tagliato un orecchio (o un lobo di un orecchio) perché si è macchiato di un terribile reato (furto di cavalli, stupro: le versioni variano). E su che si baserebbe questa affermazione? Non è chiaro. Forse qualcuno se l’è ricavata da un qualche pamphlet ottocentesco scritto da un detrattore del condottiero. Oppure qualcun altro ha sentito il bisogno irrefrenabile di partorire un paralogismo del tipo: se ha un orecchio tagliato sarà un mascalzone. Non male. Ma ci fosse mai qualcuno che si preoccupa di esibire una qualche fonte certa, un qualche documento sensato che possa provare il passato criminale di Garibaldi. Niente. E il bello è che la rete è soffocata da blog che ospitano innumerevoli interventi di persone che danno credito ad affermazioni di questo tipo senza batter ciglio. Che, se ci pensate, è ben curioso: in fondo in un paese come il nostro, dove le questioni giudiziarie sono sempre all’ordine del giorno, ormai dovrebbe esser chiaro a tutti che una prova d’accusa deve esser certa al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma evidentemente quando si parla di storia si ritiene che non ci sia bisogno di esibire prove certe.

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Dopo c’è anche chi si inventa alate mitologie. I padani discendono da Alberto da Giussano, dice uno. No, Alberto da Giussano è italiano, dice un altro. Macché, i padani discendono dai celti; e allora gli italiani discendono da Scipione l’Africano. E via con le panzane. Perché, con tutto il rispetto delle autorevoli voci che in qualche caso le hanno pronunciate, quelle son proprio panzane. Che nessuno storico serio al mondo potrebbe avvalorare, per il semplice e buon motivo che non c’è la minima evidenza documentaria che possa dar sostegno a nessuna di quelle affermazioni. Anche qui, i blog sono posti istruttivi. Sapendo cercare si trovano spazi web in cui una quantità di persone proclama senza dubbio alcuno che nelle «nostre» vene scorre «sangue italiano»; o che la grandezza di Roma deve renderci orgogliosi di essere italiani; o che nei «popoli padani» si intravede l’odierna espressione della millenaria cultura celtica. Su che base si possono fare affermazioni simili? Boh. Solo che quando le hai lanciate in qualche circuito mediatico sembrano valanghe che non si fermano più.

Insomma, quando si fa un uso pubblico della storia bisognerebbe avere la decenza di ricordarsi che esiste una disciplina storiografica che insegna come si può sensatamente parlare del passato. Non è nemmeno da dire che la pratica storiografica si basi su regole particolarmente astruse. Anzi, sono molto semplici. Uno storico deve fondare la sua ricostruzione su documenti di cui si è accertata l’attendibilità. Meglio se i documenti sono molteplici e convergenti, naturalmente. Inoltre uno storico – come ci ha insegnato molti anni fa Marc Bloch nella sua bellissima Apologia della storia – deve trattenersi dall’emettere giudizi di valore. E cioè uno storico non deve spiegarci se Robespierre o Garibaldi sono stati dei mascalzoni, ma deve descrivere cosa hanno fatto e perché l’hanno fatto. E, diciamo la verità, di storici e storiche in gamba, in grado di ricostruire con seria persuasività il passato, ce ne sono molti. Non che siano tutti perfetti; nessuno scienziato lo è. Né che non facciano mai errori; naturalmente non è così. Ma hanno un metodo scientifico da seguire, e quasi sempre cercano di seguirlo con rigore.

Ma la società dei media ha altre regole. Tempo fa, facendo zapping, mi sono trovato, incantato, a seguire una puntata di una trasmissione televisiva in cui un giornalista intervistava un romanziere che aveva appena scritto un romanzo ambientato nel Risorgimento italiano (un romanzo, si badi bene, non un libro di storia: fiction, non ricostruzione scientifica). Quella parte di intervista non verteva sulle tecniche della narrazione, come sarebbe stato corretto, ma sulla storia del Risorgimento (un po’ come se qualcuno intervistasse Dan Brown non sulle sue fantasie complottistiche, ma sui metodi per uno studio proficuo delle opere di Leonardo). Nel corso dell’intervista il giornalista, dopo un po’ di domande su fatti e aspetti del Risorgimento, concludeva dicendo (grosso modo): «Ma poi lei non crederà mica che i libri di storia ci dicano tutta la verità?»; al che il romanziere assentiva con aria un po’ spaesata; e l’altro rincarava: «perché c’è ben altro dietro…». E che cosa dovrebbe esserci? Il Grande Complotto di generazioni e generazioni di storici – non importa se di un paese o di un altro, di un orientamento intellettuale o di un altro, di un’inclinazione metodologica o di un’altra – tutti hanno tuttavia cooperato, e continueranno a cooperare, nel nascondere la verità? Conclusione obbligata alla quale arriva un comune spettatore che abbia seguito questa o altre consimili trasmissioni: «meglio lasciar perdere gli storici, tanto nessuno dice la verità…».

E lì si capisce com’è che nell’uso pubblico della storia nessuno si preoccupa minimamente del rigore del metodo storico, e com’è che ciascuno sembra avere una sua verità da sbandierare, un complotto cui alludere, un presunto misfatto da condannare, sempre senza dover fare lo sforzo di provare alcunché, né di misurarsi, neanche per un minuto, con la migliore storiografia.

*Storico e docente all’Università di Pisa

Leggi anche: Stupidario risorgimentale. Catalogo delle bufale sull’Unità

Saturno, Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2011
 
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view post Posted on 27/9/2015, 07:39
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L'Eroe dei due mondi a difesa dell'ex esercito e del popolo meridionale

GaribaldiParlamento1861

http://www.cinquantamila.it/storyTellerGio...th=04&year=1861

Lo scontro in Parlamento tra Giuseppe Garibaldi e il conte Camillo Benso di Cavour

Giuseppe Garibaldi, in Parlamento, accusa il governo: «...Quando per l’amore della concordia, l’orrore di una guerra fratricida, provocata da questo stesso Ministero...»
La parola Comandini che si trova tra parentesi quadre in calce ad alcune notizie di questa cronologia significa che il testo è stato tratto da Alfredo Comandini - L'Italia nei cento anni del secolo XIX (1801-1900) giorno per giorno illustrata. Questo eccezionale repertorio cronologico è stato digitalizzato dall'Istituto per la Storia del Risorgimento di Roma che lo ha reso cortesemente disponibile agli utenti di questo sito. Lo pubblichiamo benché non sia ancora corretto (la correzione è in corso). Chi volesse consultare gli anni precedenti al 1861 può riferirsi al sito dell'Istituto per la Storia del Risorgimento di Roma: www.risorgimento.it
Lo scontro tra Garibaldi e Cavour alla Camera
18 aprile 1861
Nel primo governo italiano c’erano due soli piemontesi, Cavour e Cassinis. La maggioranza era tosco-emiliana: Minghetti, Fanti, Peruzzi, Bastogi. De Sanctis e Niutta erano napoletani, Natoli siciliano.
Garibaldi era stato eletto deputato a Napoli e cominciò ad attaccare il governo il 30 marzo. Venne a fargli visita una delegazione operaia allora il generale si lanciò: ad appoggiare Cavour erano una turba di lacchè, il re era «circondato da un’atmosfera corrotta». L’occasione per questa offensiva venne fornita dalla questione dell’«esercito meridionale», le migliaia di garibaldini che avevano combattuto al Sud senza nessun inquadramento e che dopo non avevano ottenuto niente. Il problema era aggravato dal fatto che Garibaldi aveva distribuito a man bassa i gradi di ufficiale, sperando che poi sarebbero stati riconosciuti. Ce n’erano settemila in quelle condizioni. E come si faceva a inquadrarli senza provocare il finimondo nell’esercito vero, quello di carriera? È vero che Garibaldi s’era dichiarato disponibile per una cernita. Ma partendo da settemila!

Il generale venne a Torino, vi furono abboccamenti per calmarlo e sembrava in effetti placato. Si decise di affrontare una discussione in Parlamento sul problema dell’esercito meridionale, Ricasoli presentò un’interpellanza, la data venne fissata al 18 aprile. Nel frattempo Cavour, per allentare la tensione, presentò un decreto con cui si sistemavano duemila e duecento ex ufficiali garibaldini. Ma anche Garibaldi mandò una legge a Rattazzi, presidente della Camera, in cui si proponeva di procedere alla leva di massa, tutti i cittadini fra i 18 e i 35 anni di età avrebbero dovuto prender le armi, salvo quelli che facevano già parte dell’esercito o della marina. Era un altro tentativo di realizzare l’esercito di quantità – democratico e di sinistra – contrapposto all’esercito di qualità, voluto da La Marmora e dai moderati. Era il sogno della Nazione armata, mazziniano-garibaldino, che doveva preparare l’assalto a Venezia e a Roma e ridare ai democratici la guida del movimento. Non stettero molto a riflettere sul fatto che in Sicilia, l’estate prima, con tutto l’entusiasmo, la gente aveva opposto una formidabile resistenza alla coscrizione, pratica sconosciuta nell’isola.

Il 18 aprile Torino si riempì di camicie rosse e di democratici, gente scandalosa, che faceva chiasso e cantava. Inzepparono le tribune della Camera, fecero cori. Era pieno anche il lato riservato alla diplomazia e alla société, non si poteva perdere lo scontro Garibaldi-Cavour. Ma qui si scandalizzavano per le scalmane di quelli, sottolineavano che non si trattava di piemontesi. Cera una folla enorme anche sulla piazza, fin davanti al palazzo Carignano. I servizi di ordine pubblico erano stati rafforzati.



La seduta cominciò come sempre all’una e mezza. Governo al gran completo, Cavour e tutti i ministri. Alle due si sentì la folla che gridava, tutti capirono che Garibaldi era arrivato. Dopo qualche minuto, infatti, si aprì una piccola porta in alto e il generale apparve, accompagnato da altri due. Subito le tribune scattarono in piedi.

«Ga-ri-bal-di, Ga-ri-bal-di!».

E poi viva l’Italia e tutto il resto. Durante il fracasso il generale, in camicia rossa e poncho grigio, si guardava intorno. I deputati erano rimasti immobili al loro posto, non se n’erano alzati che una quindicina a sinistra. Neanche i ministri s’erano mossi, e neanche quelli che occupavano i posti della buona società, i diplomatici e le dame. Dunque non era solo lo scontro tra il generale e il presidente del Consiglio, ma anche tra il popolo e il Parlamento o tra il vecchio Piemonte e la nuova Italia. Le ovazioni durarono cinque minuti.

La seduta ebbe prima un andamento tranquillo. Ricasoli lesse la sua interpellanza, in cui lamentava l’esistenza di un «dualismo» tra esercito regolare e formazioni garibaldine, poi il ministro della Guerra Fanti illustrò l’opinione del governo sull’esercito meridionale, un lungo discorso che lesse con voce monotona e annoiò tutti. Infine domandò la parola Garibaldi e ci fu quel movimento generale che denota la ripresa dell’attenzione, si sistemavano negli stalli per vedere e sentir meglio, strusciavano i piedi.

Gli avevano preparato il discorso e aveva dei foglietti che spiegazzava e non riusciva a decifrare. Aveva infilato gli occhiali, balbettò «l’Italia è fatta», ma non si riusciva a sentire che cosa dicesse veramente, mentre quelli che gli stavano seduti vicino gli indicavano col dito dove doveva leggere, a quale punto era rimasto. Pure non si raccapezzava, cominciò a mescolare gli appunti, era una maledizione, perché discorsi di quella delicatezza hanno le parole pesate col bilancino, il generale avrebbe dovuto accennare agli «intrighi individuali», poi respingere l’accusa di dualismo, riuscì in effetti a dire:

«...tutte le volte che quel dualismo ha potuto nuocere alla gran causa del mio paese io ho piegato e piegherò sempre...»

La Camera lo applaudì, qui allora ebbe il primo scatto:

«Però, come un uomo qualunque, lascio alla coscienza di questi rappresentanti dell’Italia il dire se io possa porgere la mano a chi mi ha fatto straniero in Italia!».

Le tribune adesso lo applaudirono con forza. Poi criticò Fanti, con una certa misura, sostenendo che nell’Italia centrale, al tempo dei noti fatti, non c’era anarchia. Ma aveva sempre questi foglietti con cui non riusciva ad andare d’accordo e a un certo punto non ne poté più e li scaraventò via.

«Adesso», gridò «se mi permettono, io dirò alcune parole sul principale oggetto che mi portò alla presenza della Camera, che è l’esercito meridionale. Dovendo parlare dell’esercito meridionale, io dovrei anzi tutto narrare dei fatti ben gloriosi; i prodigi da essa operati furono offuscati solamente quando la fredda e nemica mano di questo Ministero faceva sentire i suoi effetti malefici...»

Cominciarono i rumori.

«...Quando per l’amore della concordia, l’orrore di una guerra fratricida, provocata da questo stesso Ministero...»

Allora dal banco dei ministri scattarono in piedi, l’accusa era sanguinosa, presero a gridare, ma anche quegli altri gridavano, si era ormai in pieno tumulto.

Cavour (con impeto). Non è permesso d’insultarci a questo modo! Noi protestiamo! Noi non abbiamo mai avuto queste intenzioni. (Applausi dai banchi dei deputati e dalle tribune) Signor presidente, faccia rispettare il Governo ed i rappresentanti della nazione! Si chiami all’ordine!

(Interruzioni e rumori)

Presidente. Domando silenzio. Al presidente solo spetta il mantenere l’ordine e regolare la discussione. Nessuno la disturbi con richiami!

Crispi. Domando la parola per l’ordine della discussione.

Garibaldi. Credeva di aver ottenuto, in trent’anni di servizi resi alla mia patria, il diritto di dire la verità davanti ai rappresentanti del popolo.

Presidente. Prego l’onorevole generale Garibaldi di esprimere la sua opinione in termini da non offendere alcun membro di questa Camera e le persone dei ministri.

Cavour. Ha detto che abbiamo provocato una guerra fratricida! Questo è ben altro che l’espressione di un’opinione!

(Interruzioni e voci diverse da tutti i banchi)

Garibaldi. Sì, una guerra fratricida!

Allora, poiché aveva detto di nuovo quella parola, tutta la tensione che s’era andata accumulando in quei giorni, e forse anche prima, esplose. Mentre Cavour e i ministri continuavano a protestare, i deputati si precipitarono nell’emiciclo, presero a spingersi, uno andò fin sotto al banco dei ministri a minacciare Cavour col pugno, le tribune urlavano, battevano i piedi, scandivano improperi.

Rattazzi si coprì, la seduta fu sospesa per un quarto d’ora. Quando riprese c’era ancora una tensione terribile. Rattazzi disapprovò «altamente» il discorso di Garibaldi, questi rispose che allora non avrebbe più parlato dell’azione del ministero dell’Italia meridionale. Disse poi finalmente quello che doveva dire, su esercito garibaldino ed esercito regolare, senza essere interrotto e senza più inciampare nei suoi foglietti. Ma nessuno gli dava ormai veramente ascolto, la questione adesso era di sapere se Cavour avrebbe o no risposto a tono alle accuse precedenti. Il conte ascoltava come al suo solito, col tagliacarte tra le dita e stravaccato. Ma era pallido, col labbro tremante.

Garibaldi finì di parlare, chiese la parola Nino Bixio. Inaspettatamente esordì:

«Io sorgo in nome della concordia e dell’Italia».

Ci fu un lungo, disperato applauso.

«Io sono fra coloro che credono alla santità dei pensieri, che hanno guidato il generale Garibaldi in Italia (Bravo!), ma appartengo anche a quelli che hanno fede nel patriottismo del signor conte di Cavour (Applausi). Domando adunque che nel nome santo di Dio si faccia un’Italia al di sopra dei partiti (Applausi vivissimi e prolungati nella Camera e dalle tribune)».



Continuò dicendo che le parole di Garibaldi non andavano prese alla lettera, supplicò che nel far l’esercito si tenesse conto di tutti «perché l’Italia ha bisogno di tutti». Invocava la concordia e di continuo lo applaudivano. Poi disse all’improvviso:

«Per l’amor di Dio non pensiamo che ad una cosa».

Si fece silenzio.

«Il paese nostro non è ancora abbastanza compatto, queste discussioni ci pregiudicano nell’opinione dell’estero.

«Il conte di Cavour è certamente un uomo generoso; la seduta d’oggi nella prima sua parte deve essere dimenticata; è una disgrazia che sia succeduta, ma vuol essere cancellata dalla nostra mente».

Si guardò intorno.

«Ecco quello che io volevo dire».

Lo applaudirono a lungo e Cavour, che prese la parola subito dopo, lo ringraziò per aver «diretto alla Camera parole così nobili e generose». Pronunciò a sua volta un discorso moderato. Disse:

«Per me la prima parte di questa seduta è come non avvenuta».

Riconciliarli veramente non fu per il momento possibile. Convocati insieme dal re, si rivolsero qualche frase di circostanza ed evitarono con cura di stringersi la mano.

Tratto da Vita di Cavour
di Giorgio Dell’Arti
(Mondadori)




Comandini, 18 aprile 1861
• Firmata in Torino fra il ministro dei lavori pubblici ed i signori Wirth Sand e Michel per la Banca di Credito Svizzera-Germanica di San Gallo, convenzione per la costruzione della ferrovia del Lucomagno — Coira-Dissentis — al confine Sardo — Locarno-Olivone, con diramazioni da Bellinzona a Chiasso ed altra da stabilirsi dal governo italiano; col tunnel da Olivone a Dissentis da costruirsi a spese dal governo italiano, che dal 62 al 65 anticiperà alla Compagnia venti milioni, cinque per anno.[Comandini]

Comandini, 18 aprile 1861
• A Torino, per la seduta della Camera, grande folla ansiosa, sapendosi dell’intervento di Garibaldi, che entra nell’aula alle 2 e va a sedersi al posto più alto dell’estrema sinistra accanto a Mauro Macchi. Ricasoli parla circa il dualismo risultato fra l’esercito dei volontari e quello regolare, circa il trattamento fatto dopo la campagna del 60-61. Il ministro per la guerra, Fanti, legge lungo discorso in difesa dell’opera propria. Crispi e Bixio chiedono il rinvio della discussione per potere meglio rispondere. Garibaldi sorge a ringraziare Ricasoli, dice che la concordia gli fu proposta a parole, non a fatti; egli non stringerà mai la mano di chi lo rese straniero in Italia (vivi commenti.) Poi legge alcune cartelle, concludendo che «il Ministero ha provocato la guerra fratricida» (applausi dalle tribune, rumori e proteste nella Camera.) Il Presidente richiama all’ordine e si cuopre. Tutta la Camera è sossopra. Cavour parla concitatamente, protestando. Dopo mezz’ora, ripresa la seduta, il Presidente protesta contro le parole di Garibaldi, il quale diffondesi a spiegare i torti fatti ai volontari. Bixio parla per la concordia. Cavour ricorda che fu egli nel 1859 a creare il corpo, dei volontari, cui non fu mai ostile; ed accetta l’invito di Bixio. Vengono presentati varii ordini del giorno, uno dei quali da Ricasoli, e la discussione è rinviata. [Comandini]

Comandini, 18 aprile 1861
• A Verona in piazza d’Armi, presenti vari arciduchi, compreso l’ex-duca Francesco IV di Modena, il feld. maresciallo Benedeck passa in rivista 24.000 uomini. [Comandini]

Comandini, 18 aprile 1861
• In Bassano soldati estensi uccidono un giovane, Francesco Grammatica. [Comandini]

Comandini, 18 aprile 1861
• A bordo della Maria Adelaide arriva a Palermo il nuovo luogotenente del re, generale Della Rovere, ricevuto in forma ufficiale. Fa buona impressione il fatto che egli è in abiti borghesi. [Comandini]

Comandini, 18 aprile 1861
• A Zara la Dieta accoglie la proposta Galvani di non mandare deputati alla Dieta di Zagabria. [Comandini]

Leggi aprile
Leggi il 1861
Fonti
 
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view post Posted on 1/12/2015, 09:37
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http://storiaefuturo.eu/il-fascino-di-gari...clero-italiano/

Il fascino di Garibaldi sul Clero italiano
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di Dino Mengozzi
Abstract
Abstract english
Personaggio considerato da molta storiografia tradizionale come emblema di ciò che il Risorgimento aveva di anticattolico e persino antireligioso, Garibaldi andrebbe – in verità – riportato ai contesti e alle diverse fasi del suo operare. Il suo mito, non di meno, inizia a diffondersi fin dagli anni sudamericani all’interno di un discorso “unico” del Risorgimento italiano, né anticattolico né anticlericale (Banti 2000, 120, 139). Infatti, fin da prima del suo rientro in Italia, nel 1848, la figura del capo della Legione italiana a Montevideo non è molto caratterizzata in termini ideologici, ma rappresenta un po’ per tutti l’uomo del riscatto dell’onore italiano. Lo stesso Garibaldi si descrive in questi termini nelle prime biografie affidate a Cuneo, Dumas, Carrano e i cui episodi salienti vennero talvolta ripresi da vari periodici italiani (Mengozzi 2012a). La figura dominante è quella di un soldato volontario, che si batte per la libertà e che riscatta la cattiva opinione diffusa in Europa, secondo la quale la perdita della libertà ha significato per gli italiani la perdita della virilità. Gli italiani “non si battono”, secondo la famosa definizione, che allude anche a una presunta rilassatezza morale (Belardelli 1999, 66-67; Mengozzi 2011, 89-97). In questo contesto, la critica della “decadenza” italiana coinvolgeva la società non meno della famiglia. Sicché il mito di Garibaldi, fondato sulle sue imprese militari e sulla sua figura morale di uomo integerrimo, veniva a incontrare il discorso nazionale italiano, addensando sulla sua figura molte e diverse aspettative: dall’eroe al campione del riscatto militare, dall’uomo d’onore al combattente per la libertà.
Ora, un primo elemento da sottolineare nella prospettiva di questo saggio è che i maggiori tratti di tale costruzione retorica rispondono a “figure” diffuse dal clero patriottico. Mediante prediche, sermoni, quaresimali, abili predicatori trasformatisi in formidabili oratori politici, come i barnabiti Ugo Bassi e Alessandro Gavazzi, avevano percorso l’Italia del centro-nord denunciando la decadenza morale e additando il dovere di una rinascita civile e religiosa della patria nazione. Enrico Francia ha bene ricostruito questo evento e non è il caso di soffermarvisi di più (2007, 440). Per altro una nota pubblicazione come il Panteon dei martiri della libertà italiana, uscita nel 1851, riassumeva quella fase di formazione della coscienza nazionale scrivendo che “la parola era per divenire una suprema potenza in Italia – il verbo dovea esser Dio” (1851, 560). Va da sé che i predicatori patrioti, in questa fase, sono avvantaggiati: il loro abito li protegge e possono spesso eludere la sorveglianza poliziesca portandosi sul pulpito di Stati diversi, per quanto – in certi casi – mal tollerati dal clero conservatore.
1. Padre Alessandro Gavazzi durante una predica in Inghilterra, disegno.
1. Padre Alessandro Gavazzi durante una predica in Inghilterra, disegno.
In ogni caso, il clero patriottico mobilitato nel 1848 non abbandona il campo neppure dopo la nota allocuzione di Pio IX, con la quale il papa si dissociava dalla guerra all’Austria (Gariglio 2011). Anzi, nei casi più noti, come Gavazzi e Bassi, i predicatori della patria non recedono neppure di fronte alla fuga del papa da Roma e alla radicalizzazione della lotta politica. Se mai la sconfitta dell’ipotesi neoguelfa li porta a dissociare la religione patriottica dalle gerarchie e naturalmente dal papa, per un ritorno alla primitiva figura di Cristo martire e liberatore degli oppressi. Da questa svolta, la storia del “clero affascinato da Garibaldi” diventa essenzialmente una storia di singole personalità. Per rivedere un’adesione di tipo quarantottesco e una comparabile creatività di forme e modi della religione patriottica e dei suoi predicatori, in abito talare o col saio, al movimento nazionale, occorrerà attendere un altro evento capitale della storia del Risorgimento come l’impresa dei Mille. Allora potremmo azzardare l’ipotesi di una Chiesa meridionale largamente simpatizzante e in parte militante con i garibaldini. Ma poi di nuovo i destini si separano, e la costruzione dell’Italia unita, dal lato del clero “garibaldino”, tornerà a essere una storia di singole personalità.
1.
Garibaldi rappresenta sulla scena italiana del 1848 una varietà di suggestioni. Campione dai tratti esotici dei volontari che non si arrendono, secondo il democratico e federalista Carlo Cattaneo; figura cristologica e benedicente, secondo una celebra stampa in circolazione nel 1850; patriota combattente al servizio del re Carlo Alberto e del papa Pio IX. Dal canto suo, come si è dichiarato a disposizione del re Carlo Alberto, benché repubblicano, così ha fatto per la causa neoguelfa. Già a Montevideo ha messo le sue armi a disposizione di Pio IX attraverso una lettera spedita al nunzio apostolico Bedini in Rio de Janeiro nel 1847. La lettera sarà ripresa e pubblicata nelle prime biografie di Garibaldi, come quella di Cuneo apparsa a Torino nel 1850, ma anche in Dumas e altri scrittori garibaldini (Dumas 1860, 99-100). Bedini rispondeva elogiando l’offerta.
Nella lettera, Garibaldi lodava le riforme iniziate da Pio IX esaltando anche la religione cattolica e il ruolo del papa: “tutto infine ci ha convinti che sia finalmente uscito dal seno della nostra patria l’uomo il quale, comprendendo i bisogni del suo secolo, ha saputo, secondo i dettami della nostra augusta religione, sempre nuovi, sempre immortali, e senza derogare alla loro autorità, piegarsi all’esigenza dei tempi” (in Dumas 1860, 99). Seguiva l’offerta del suo braccio armato, dopo una sapiente evocazione di possibili pericoli, minacce e tentativi di rovesciare “l’ordine delle cose”. Perciò, scriveva Garibaldi insieme all’esule e amico Francesco Anzani, “se oggi delle braccia che hanno qualche pratica delle armi sono bene accette da Sua Santità, è inutile dire che con il maggior piacere del mondo le consacreremmo al servizio di colui che tanto fa per la patria e per la Chiesa” (Ivi, 100).
Ora, fra queste prime posizioni garibaldine e le prediche patriottiche di Bassi e Gavazzi c’è un terreno comune: gli entusiasmi per il “papa liberale” e la chiamata alla guerra d’indipendenza. Garibaldi rappresenta in questo contesto l’eroe morale, che ristabilisce l’onore nazionale e della famiglia, contro le insidie degli occupanti violenti. Si tratta di un tema ampiamente presente in una vasta letteratura patriottica e nel filone del cattolicesimo liberale, da Alessandro Manzoni alle prediche patriottiche. Alla religione cattolica è riservato il compito di costituire il vincolo fondamentale di quella nuova patria grande famiglia italiana, che gli eventi del 1848 promettono ormai prossima.
Gavazzi agisce soprattutto a Roma, dove solleva l’entusiasmo dei giovani, con i quali è in contatto come professore e soprattutto come predicatore. Il disegno qui riprodotto mostra con efficacia tutta la sua maestria di oratore (foto 1), nel catturare l’attenzione del pubblico (un pubblico inglese, in questo caso). Gavazzi guida la leva dei volontari romani nella prima guerra d’indipendenza, fino a Venezia. Con la Repubblica romana sia lui che Ugo Bassi si affiancarono a Garibaldi. Gavazzi è cappellano del Battaglione italiano della morte. Più fortunato di Bassi, riesce a sfuggire alla caccia dei nemici riparando in Inghilterra, dove aderirà al movimento evangelico. La dissociazione di Pio IX dalla guerra patriottica porterà Gavazzi su posizioni antigerarchiche e antipapali. Nel 1860 era di nuovo con Garibaldi, in qualità di cappellano militare fra i Mille e ancora riprendeva le armi fra i garibaldini nella guerra del 1866. Ugo Bassi, invece, curava la ritirata di Garibaldi da Roma verso Nord nell’estate del 1849. A lui Garibaldi affidava la delicata missione di convincere i reggenti sammarinesi ad accogliere i garibaldini ormai allo stremo sul territorio della Repubblica. Bassi era poco dopo catturato dagli austriaci nelle paludi ravennati, durante la sortita per raggiungere Venezia, condotto a Bologna e fucilato. Ma i religiosi non sono solo compagni d’armi, bensì occupano anche posizioni di rilievo nella struttura del movimento garibaldino. Mi riferisco al caso del brianzolo Giuseppe Sirtori. Sacerdote nel 1838, maturava la rinuncia ai voti quando era studente a Parigi allorché faceva esperienza delle giornate rivoluzionarie del febbraio 1848. Rientrato in Italia, partiva come volontario alla difesa della Repubblica di Venezia. Era poi promosso capo di stato maggiore da Garibaldi in occasione dell’impresa dei Mille. Avrà una lunga carriera militare nell’esercito italiano; uno dei non molti ufficiali garibaldini incorporato nell’esercito regolare.
Bassi, Gavazzi, lo stesso Sirtori, per non fare che alcuni esempi, rappresentano senz’altro casi di giovani cattolici, che maturano autonomamente un impegno nel movimento patriottico, ma che finiscono con l’individuare in Garibaldi la principale figura di riferimento, alla quale restano fedeli nonostante il variare degli orientamenti della gerarchia ecclesiastica. Certamente ne subiscono la leadership carismatica, anche in ragione di riferimenti religiosi da non sottovalutare (Mengozzi 2008, 2012; Gentile 2001). È ormai appurato da una recente storiografia dedicata alle religioni politiche, che linguaggi, retoriche, prestiti, calchi, perfino oggetti sacri come le reliquie sono stati impiegati dal discorso nazionale in formazione (Grevy e Burkardt 2015). E che molti contenuti dell’universo religioso tradizionale sono stati risemantizzati in senso laico dai patrioti. Tutto ciò ci porta a dire che uno dei principali fattori dell’ascendente esercitato da Garibaldi sul clero è, appunto, un fascino di tipo religioso. Non per nulla la sua figura è stata spesso avvicinata con appellativi cristologici. Il caso ha voluto, poi, che il suo viso, se incorniciato – come vuole il personaggio -, con lunghi capelli, barba e baffi rossicci, acquistasse una singolare vicinanza con il Cristo della tradizione iconografica più diffusa.
Ma il richiamo a Cristo, come ha ben mostrato Alberto Mario Banti, è iscritto al centro del discorso nazionale italiano. L’eroe che accetta il martirio per riscattare la libertà fa parte di quel “canone” patriottico che nutre l’immaginario risorgimentale. Banti parla di un linguaggio politico, che per acquisire larga cittadinanza si avvale delle “risonanze profonde” lasciate nella tradizione dalla religione cattolica (morte, salvezza, tradimento, fedeltà, verginità e purezza). Tale uso profano della sacralità non è al momento avvertito come concorrenziale o sostitutivo della fede cattolica. Forse i soli gesuiti ne intuiranno per tempo i pericoli, ma non subito (Menozzi 2007, 454).
Prendiamo un’opera di largo successo come quella di Atto Vannucci dedicata ai “martiri della libertà italiana”. Più volte ristampata e ampliata, a partire dalla prima edizione fiorentina del 1848, l’opera estendeva il concetto di sacralità e di martirio ai caduti per patria, evitando cesure con la religione cattolica. Introduceva, tuttavia, nuovi criteri politici di giudizio, fra salvati e dannati. Demonizzava, per esempio, la violenta repressione del cardinal Ruffo contro i democratici del 1799 ed esaltava per contrasto le vittime della reazione, quali martiri della vera religione di Cristo: ossia i martiri di Piperno, di Altamura e di Venafro (Vannucci 1877-1880, 37-42).
Con un indirizzo molto simile all’opera di Vannucci, ma più ampia nell’impianto, usciva a Torino nel 1851 il Panteon dei martiri della libertà italiana. Ancora biografie, ossia martiri individualizzati, ma questa volta al nome era associata una stampa raffigurante il volto. La sacralità era trasferita su queste figure descritte come santi moderni, vittime del dispotismo. In entrambi i campi, secondo gli autori del Panteon, operano per il bene e per il male anche religiosi, gli uni fanatizzando le popolazioni arretrate e analfabete contro i patrioti, gli altri caduti in nome della fede nella libertà. I nuovi eroi, però, sanno distinguere. Nella biografia dei fratelli Bandiera, per esempio, è detto che i due prigionieri seppero rifiutare il prete mandato dai carcerieri, ma non il conforto prestato loro dal prete liberale Beniamino De Rose, che con “vera carità cristiana” li consolò fino all’ultimo (Panteon 1851, 190). Il sacrificio di Ugo Bassi, invece, confermava per il Panteon la separazione fra la nuova religione patriottica e il papa “traditore”. Ugo Bassi, vittima della reazione austriaca:
“sofferse il martirio a Bologna, annunziando l’unione del sacerdozio futuro coi propugnatori della indipendenza e libertà italiana, quando il presente sacerdozio rinnegava o tradiva la patria, e credeva sacrilegamente privare del carattere spirituale l’eroe che per lei saliva animosamente la croce” (Panteon 1851, 553).
2. Garibaldi, Cristo benedicente, stampa, 1850.
2. Garibaldi, Cristo benedicente, stampa, 1850.
In questo stesso periodo viene diffusa una stampa raffigurante Garibaldi come Cristo benedicente (foto 2). Martiri non sono solo i morti, infatti; c’è un martirio anche nel patire la sofferenza nelle carceri, il dolore delle ferite e nei lutti. Garibaldi attraversa queste soglie durante la drammatica fuga da Roma nel 1849, quando perde la moglie, i compagni, ed è costretto nuovamente a emigrare. A un prete deve la vita, don Giovanni Verità, che subito nell’iconografia è rappresentato come colui che prende sulle spalle Garibaldi e lo salva portandolo oltre il confine fra Stato pontificio e Toscana. Garibaldi lo gratificherà in varie occasioni e ancora nelle Memorie definendolo “vero sacerdote del Cristo” (1920, 225). Ma la figura cristologica di un Garibaldi vittima ed eroe valoroso ha una diffusione che va oltre l’ambito elitario, come lasciano credere numerose testimonianze circa l’accorrere di donne che gli portavano i figli da toccare. Così ancora nella guerra del 1859, a Varese e a San Fermo, come notava G. Visconti Venosta nei suoi Ricordi di gioventù: “né meno degli uomini erano entusiaste le donne che gli portavano persino i loro bambini perché li benedicesse e li battezzasse” (1904: citato da Banti 2000, 173). Il garibaldino Tosi rammentava a decenni di distanza che “le trasteverine lo avevano assomigliato a Gesù, e più tardi le donne di Palermo lo adoreranno” (1910, 68-69). Evidentemente, in questo periodo o meglio in questi diversi momenti, poca presa ha il contro mito di un Garibaldi anti Cristo. Del resto, solo ai primi anni Cinquanta data una pubblicistica specifica sugli atti sacrileghi che sarebbero stati compiuti dai garibaldini durante l’esperienza della Repubblica romana. E solo dopo il rientro in sede di Pio IX padre Bresciani elaborerà un contro mito di Garibaldi mettendo all’opera il personaggio di Lionello (un anti Garibaldi), settario pentito, il cui ciclo di “avventure” inizia, appunto, nel 1853.
Quando si può parlare, dunque, di una frattura “definitiva” fra il movimento nazionale e il mondo cattolico? Molti storici hanno collocato l’evento nel periodo 1848-49, fra l’allocuzione di Pio IX e la Repubblica romana. Lucy Riall riprendendo alcune osservazioni di Giuseppe Battelli ha osservato che quel periodo rappresenta il vero spartiacque nei rapporti fra Stato e Chiesa in Italia, più di quanto non lo sia il 1870 (2007, 81; Battelli 1986, 809-810). Non sarei del tutto d’accordo con questa tesi, che guarda i vertici. Ma forse ai vertici è giusta. Alla base, però, mi sembra che l’entusiasmo visto per il 1848 si ripeta in parte nel 1859 e soprattutto in occasione dell’impresa dei Mille, quando di nuovo si osserva la corsa dei volontari alla guerra nazionale. Al Sud, in particolare, metà della Chiesa, quella dei nove milioni di abitanti residenti nel Regno borbonico, non è in rotta con la prospettiva unitaria, almeno fino all’estensione delle leggi restrittive dello Stato italiano. Azzarderei questa ipotesi facendo affidamento, soprattutto, sull’osservatorio garibaldino. Già Maurice Agulhon, in un noto saggio sul mito di Garibaldi in Francia del 1982, pronunciato durante il LI congresso di storia del Risorgimento italiano, a Genova nell’autunno del 1982, aveva sostenuto che solo dopo il 1860 Garibaldi era divenuto quella figura che sommava su di sé, agli occhi dei cattolici, l’incrocio d’una rivoluzione liberale, democratica e mortale per il potere pontificio (1988, 89).
2.
Il fascino di Garibaldi sul clero tocca sicuramente il vertice più alto nel 1860. Non più singole personalità, ma un’adesione di massa del clero meridionale. I diaristi garibaldini lo ricorderanno come un ritorno al ’48. L’impresa, per altro, non avvenne sotto il segno dell’anticlericalismo, benché fosse ormai chiaro – dopo il 1859 e l’adesione al Regno di Sardegna della parte Nord dello Stato pontificio – che l’unità d’Italia si sarebbe fatta contro il papa. La storiografia ha insistito sul vuoto politico e di autorità che regnava nell’Italia borbonica e specie in Sicilia (Riall 2011). Una crisi che coinvolgeva anche la Chiesa, nelle sue varie componenti e non solo nel basso clero, su cui aveva già chiamato l’attenzione Giorgio Candeloro (1982, 99; Brancato 1965). Anzi, per certi versi, l’ascendente di Garibaldi fra il clero, ma perfino fra suore e monache, sia nella prima fase palermitana, sia in quella messinese e calabrese, poté crescere in un’atmosfera che potremmo definire improntata, di fatto, a una forma di “autonomia” da Roma.
Non per nulla andrà notato un certo tatto garibaldino verso la Chiesa meridionale nel suo complesso.
Uno dei primi proclami di Garibaldi, emanato a Salemi o forse già a Marsala, era una appello ai “preti buoni” affinché seguissero la “vera religione di Cristo” attribuendo loro un ruolo di guida per “combattere gli oppressori” e liberare la “nostra terra” i “nostri figli” e le “nostre donne” e il “nostro patrimonio” (Riall 2007, 274). Confermava il garibaldino Giuseppe Cesare Abba che “laggiù nell’isola, dove il clero viveva ancora delle passioni civili del popolo, i sacerdoti in generale erano caldi patrioti”. E che “anche i preti, i frati e le monache dicevano bene” di Garibaldi (1910, 108, 156). Giuseppe Bandi, segretario di Garibaldi, raccontava di un funerale cattolico celebrato a un caduto garibaldino nella chiesa dei francescani di Alcamo: al centro il catafalco con sopra la camicia rossa, dal pulpito un frate che grida “Dio lo vuole” (1914, 182). Sulle barricate di Palermo il clero predicava dicendo che chiunque fosse morto avrebbe meritato, subito, un posto bellissimo in paradiso. Gli insorti avevano appiccicato sul calcio dei fucili le immagini di santa Rosalia e lo stesso sulle culatte dei cannoni (Bandi 1914, 186). Del resto, i conventi dei frati erano i soli veri rifugi per i garibaldini. I paesi, fatti di capanne, mettevano sgomento, secondo il ricordo di Abba; non c’era neppure l’acqua da bere (Abba 1910, 104). I monasteri, invece, offrivano cibo e riparo. Fonti un po’ maliziose vedevano suore in gara nel preparare dolci e nel salutare Garibaldi baciandolo sulla bocca.
Come che sia, l’impresa è l’occasione d’una “andata” a Garibaldi. Qui si salderanno nell’universo garibaldino figure di notevole importanza. Il prete Luigi Gusmaroli, quarantanovenne da Mantova, parroco fino al 1846, che girava per Palermo a confortare i feriti e portando loro i saluti dei combattenti. Come prete, tuttavia, rifiutava di impugnare armi. “Essere ucciso poteva; uccidere no” (Ivi, 189-190). Una singolare popolarità gli derivava dalla sua straordinaria somiglianza fisica con Garibaldi, tanto che i picciotti lo prendevano per lui (Ivi, 190). Fra tutti, certamente la recluta di maggior spicco fu il frate Giovanni Pantaleo. Si fece avanti a Salemi, dov’era lettore di filosofia dei minori osservanti. Garibaldi lo accolse immediatamente ribattezzandolo l’Ugo Bassi delle sue nuove legioni (Ivi, 108). Secondo Abba, fra Pantaleo ricordava nel viso i sacerdoti del ’48, quelli che predicavano e benedicevano la patria dal pulpito. Infatti, Pantaleo con la coccarda tricolore sul saio e la spada al fianco, come appare in una stampa del tempo, rappresenta con efficacia l’immagine di una Chiesa siciliana militante e patriottica. Il frate si era presentato a Garibaldi dicendo: “In mezzo a questa gente superstiziosa e cieca, la croce e la parola d’un frate patriota valgono per cento delle vostre sciabole” (Bandi 1914, 128). Pantaleo usava tenere in mano una croce di legno, che una palla borbonica gli aveva spezzata in due, mentre esortava i picciotti alla zuffa (Ivi, 203).
“Piacque ma non a tutti – notò Abba -. Tra quella gente dell’Alta Italia, v’erano i diffidenti e gli avversi per sistema agli uomini di chiesa; ma poiché Garibaldi accolse bene il monaco, e lo chiamò l’Ugo Bassi delle sue nuove legioni, anche quelli rispettarono il frate e lo lasciarono predicare” (1997, 108).
3.
Messe al campo, comunioni, promesse di salvezza: la guerra al Sud era anche una battaglia fra simboli e riti religiosi. Si combatte fra reliquie, immagini sante, benedizioni delle vittime. Predicatori con la tonaca o il saio incitano o guidano i soldati, dall’una e dall’altra parte, fra i garibaldini come fra i borbonici. Garibaldi dal canto suo non trascura nulla: usa il suo carisma fino alla promozione del culto per la sua persona. Benché ufficialmente scomunicato, come gli ricorda fra Pantaleo, asseconda i suggerimenti del frate, come quando ad Alcamo si fa benedire di fronte al popolo sui gradini della chiesa. Lo racconta anche Dumas: la città era in festa. Garibaldi “si lasciò cadere in ginocchio sui gradini esterni della chiesa, davanti ai contadini, ai soldati, alla popolazione”. Il frate, preso allora il santissimo sacramento dall’interno, tornava fuori e gridava: “Guardate tutti! Ecco il vittorioso che si inchina a Colui che dà la vittoria” e benedisse Garibaldi “in nome di Dio, dell’Italia e della libertà” (1996, 73, 74).
Sempre su consiglio di Pantaleo, Garibaldi renderà omaggio in forme solenni a santa Rosalia a Palermo e a san Gennaro a Napoli. E proprio a Napoli, il 31 ottobre, affacciatosi dal balcone della Foresteria, diceva alla popolazione. “Io sono cristiano, sono un buon cristiano, e parlo a dei buoni cristiani; io amo e venero la religione di Cristo, perché Gesù Cristo è venuto al mondo per sottrarre l’umanità alla servitù, che non è lo scopo per cui Dio l’ha creata. Ma il papa, il quale vuole che gli uomini siano schiavi, e chiede ai potenti della terra ceppi e catene per gli Italiani, il papa-re misconosce Cristo; misconosce la sua propria religione” (Du Camp 1963, 374-375). Garibaldi, dunque, distingue la gerarchia ecclesiastica dal messaggio cristiano, verso il quale ha un atteggiamento di rispetto. L’una, cioè il papa, simbolo di “servitù” politica, l’altro ossia il ritorno alla parola di Cristo quale autentica “religione della libertà”, come notava il garibaldino Maxime Du Camp, che ricordava come Garibaldi avesse terminato il suo discorso inneggiando all’Italia, a Vittorio Emanuele e al cristianesimo (Ivi, 375).
I diaristi garibaldini sono prodighi di episodi intorno all’attiva partecipazione di religiosi alla guerra antiborbonica. Abba li ha visti nella battaglia di Calatafimi: sei o sette francescani, i quali “dopo aver combattuto fino con tromboni, partivano per tornare al loro convento. Erano accorsi là da Castelvetrano. A quell’ora se ne andavano giù dal colle nei loro tonaconi grossi, con le loro armi in spalla, seri e tranquilli, come se tornassero da aver fatta la questua tra quei soldati che avevano fame, e stavano divorando pane e cacio distribuito in fretta già quasi nel buio” (1910, 130). Durante la battaglia di Palermo, sempre secondo Abba: “Dei frati veri, molti parevano più rivoluzionari dei garibaldini stessi” (Ivi, 185). Il sacerdote siciliano Antonio Rotolo guidava una grossa squadra di Picciotti (Ivi, 171).
Secondo l’Album storico artistico del 1862, fonte ufficiale dei garibaldini, la rapida risalita dei volontari attraverso la Calabria sarebbe dipesa essenzialmente dal fatto che preti e frati avevano aderito in massa all’appello di Garibaldi. “Questi forti montanari – si legge -, disertando a frotte i loro abituri, armati, erano corsi ad ingrossare le compagnie di Stocco, di Morelli, del parroco Foresta, del prete Bianchi e di tanti altri generosi che organizzarono quel meraviglioso movimento. Preti e frati s’erano posti alla testa degli insorti, e, armati de’ loro fucili, precedevano a capo delle bande” (1862, 104). L’Album riproduceva integralmente l’indirizzo presentato a Garibaldi dagli agostiniani di Monteleone, a conferma dello spirito che animava quei frati. Aperto con un richiamo alle radici storiche “dell’italico sermone”, per dirla con Dante, il manifesto dei “poveri frati” esprimeva gratitudine al “gran cittadino d’Italia” Garibaldi, “per quanto avete operato a pro’ della patria comune”. Né i frati scartavano il pronunciamento politico, per quanto subordinato al fine primario dell’ordine di “professare la dottrina di Cristo”. Alla quale, tuttavia, essi attribuivano il merito di essere “sovranamente inspirata dalla carità dell’amore di patria”. E così concludevano: “Dio è sempre coi giusti, Egli sarà quindi con voi e coi forti che guidate, sino al giorno nel quale la vostra spada trionfatrice potrà scrivere sulle sponde dell’Isonzo e sui dirupi dell’Alpi marittime: Oltre questi confini non passeranno d’ora innanzi eserciti di barbari o di civili stranieri” (Ibid.).
Anche la letteratura antigaribaldina di un don Buttà, confermava il coinvolgimento del clero e perfino di un alto prelato come monsignor Caputo, vescovo di Ariano Irpino in provincia di Avellino, che naturalmente don Buttà vedrà morire più tardi fra gli spasimi dell’inferno, come l’“ateo” Voltaire (1985, 241). Ma don Buttà dimenticava il vescovo di Monreale, Benedetto D’Acquisto, che compiaciuto aveva visitato il forte di Castellamare di Palermo, conquistato dai garibaldini, e dato da demolire alla popolazione (Riall 2007, 284). A voler essere, infine, un po’ impertinenti, anche l’acrimonioso don Buttà non era stato del tutto esente da frequentazioni garibaldine. Si avvicinava ai garibaldini anche uno “strano” frate, già socialista, e che Abba non ricorda per nome (Mengozzi 2010). Un tipo dal quale aveva avuto modo di udire obiezioni rimaste senza risposta. Quel frate gli aveva spiegato che la rivoluzione non bastava, che non di quella guerra la Sicilia aveva bisogno, perché troppo grande era la miseria. “Insomma quel monaco – scriveva Abba – voleva la guerra non soltanto contro i Borboni, ma contro tutti gli oppressori grandi e piccoli, che si trovavano laggiù dappertutto”. Anche contro frati ricchissimi: “ma col Vangelo in mano e con la Croce”. E allora anche lui ci si sarebbe messo. Ma così gli pareva inutile, concludeva il garibaldino (1910, 152).
4.
Ebbene, chiediamoci a questo punto quando finisce tale reciproca intesa o meglio quel tipo di attrazione e simpatia per la figura di Garibaldi o, in altre parole, quando viene meno l’attenuazione dell’anticlericalismo fra i garibaldini, da un lato, e dall’altro riemerge la centralità gerarchica del papa fra i cattolici? Senza levare lo sguardo dalla Chiesa meridionale, potremmo rispondere senz’altro con Vittorio Gorresio, quando in un suo libro del 1958 imputava all’estensione a tutt’Italia delle leggi piemontesi contro i privilegi ecclesiastici, il divorzio della Chiesa meridionale (2011, 111-112). Ma a mettere tutto nel bilancio, non è da dimenticare l’evolvere dello stesso orientamento spirituale e politico di Garibaldi. Con Aspromonte nel 1862, poi Mentana nel 1867, la questione della presa di Roma diviene quasi un’ossessione per lui. Anzi, per raccogliere adesioni, si mette a fare il prete laico, dispensatore di sacramenti, battesimi, e predicatore di una nuova religione del vero, di cui darà un saggio al congresso internazionale della pace a Ginevra (Mengozzi 2008, 31-32).
Garibaldi (non meno di Pio IX) rifiuta la legge sulle guarentigie e la separazione cavourriana fra Stato e Chiesa, radicalizzando il suo anticlericalismo, che in certi tratti appare come una guerra contro la stessa presenza della Chiesa, i suoi istituti e le sue cerimonie nella società, specie quelle vicine ai costumi popolari (Candeloro 1982, 129-135). In parallelo anche la sua concezione filosofica e religiosa si sposta progressivamente dal deismo verso un materialismo scientista. Dio eguagliato a infinito, spazio, materia, rassomiglia sempre più a una formula matematica, alla quale Garibaldi domanda – ultimissima e vaga inquietudine metafisica – se possa ancora appartenere alla materia il pensiero, e cioè – pare di capire – una sorta di anima, del tutto simile – però – alla personalità o all’identità del singolo.
Prende forma sempre più religiosa anche il culto per la sua persona, con rituali e catechismi. Nel 1866 uscirà il primo, forse di mano di Gusmaroli, nel quale vengono offerte preghiere a un Garibaldi divinità laica (Dottrina 1866). Egli assume sempre più le sembianze di un papa laico, che somministra sacramenti, immortalità o dannazione, avente una propria fonte di sacralità, autonoma, fondata sul proprio corpo di eroe.
Nel corso degli anni Settanta, infatti, Garibaldi consegna alla stampa quattro romanzi storici, con i quali si propone di rivedere la lista degli “amici” e dei “nemici” nelle lotte per l’unificazione italiana, gli uni da spedire all’inferno della memoria, gli altri in paradiso. E di farlo rivolgendosi alle nuove generazioni, dando quasi per scontato l’impossibilità di un “dialogo” con la classe dirigente attuale, specie nel definire la sua ultima e gloriosa impresa, la spedizione dei Mille (Isnenghi 2007, 106-130), la cui mitologia – i Mille, appunto – nasceva proprio sotto la sua penna in quegli anni (Mengozzi 2012, 251-255). La forma romanzata gli permette libertà narrativa e anche inventiva. Infatti, nel ripercorrere la liberazione del Sud apriva ampie parentesi per mettere in scena le trame antigaribaldine di un nemico “attuale”, ma che al tempo egli non aveva ritenuto altrettanto pericoloso, e cioè la Chiesa e il papa, con la sua corte di gesuiti, “loschi” preti e monsignori.
In verità, in questo periodo Garibaldi non può più contare su quei preti in camicia rossa, che lo avevano accompagnato e consigliato. Perfino l’amico e biografo Guerzoni non gli risparmierà una certa ironia in merito alle prediche e agli atteggiamenti da sacerdote laico (1882, 470), che pretendeva avanzare la candidatura di don Verità a futuro papa.
Di fatto, Garibaldi ritiene ormai irrimediabile il divorzio fra Chiesa e nazione o addirittura fra clero e nazione, al quale imputa le difficoltà maggiori che il neonato Stato nazionale stava incontrando nel “fare gli italiani”. Nei romanzi storici e nelle Memorie del 1872 fa spesso del clero il capro espiatorio dei mali nazionali, dalla scarsa propensione dei giovani alla vita militare, una debolezza che per Garibaldi deriva dalla passata volontà dei preti a fare chierichetti invece che uomini virili, alla mancata partecipazione dei contadini al volontariato in camicia rossa, perché trattenuti nelle parrocchie dai loro parroci, o infine per il fenomeno del brigantaggio meridionale. In Clelia, romanzo storico del 1870, scriveva, infatti, che “La Nazione italiana vide alla luce del sole il ceffo deforme degli impostori, marciare col crocefisso in mano alla testa delle masnade straniere, suscitando dovunque quel brigantaggio che devasta ancora le nostre provincia meridionali con ogni specie di orribili delitti, per tentare la dissoluzione dell’unità nazionale sì felicemente costituita” (2006, 140).
In tale radicalizzazione dello scontro fra clericali e anticlericali, i cui linguaggi spesso si copiano a vicenda, i preti garibaldini, quelli che non l’avevano ancora fatto, lasciano la tonaca e muoiono da laici impenitenti, come Gusmaroli e Pantaleo, fra i più noti. Tra i pochi che non lo fanno è don Verità, ma al prezzo dell’emarginazione nella sua piccola parrocchia di montagna a Modigliana, sull’Appennino tosco-romagnolo. Sarà, tuttavia, ugualmente punito dalle autorità clericali con la negazione del funerale religioso e punito ancora, dopo morto, con la ritardata traslazione della sua tomba nel nuovo cimitero di Modigliana, all’epoca dei Patti lateranensi. Ancora più triste la fine di Gusmaroli: la lapide per lui, dettata da Garibaldi, nel cimitero della Maddalena sarà poi tolta, si può bene indovinare da chi, e con quella sparirà anche il suo sepolcro.
 
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IL DECRETO CHE PROIBIVA LA CUMULAZIONE DEGLI IMPIEGHI E DEGLI STIPENDI PRUMULGATO DA GARIBALDI -

L'Italia Repubblicana ne parla da decenni ma non ha mai fatto nulla di serio

(N. ° 8) Decreto col quale viene proibita la cumulazione degl’impieghi e degli stipendii.


Napoli, 8 Settembre 1860.

ITALIA E VITTORIO EMANUELE.
IL DITTATORE DELLE DUE SICILIE

Decreta.

La cumulazione degl’impieghi e degli stipendii è interdetta.
Coloro i quali occupano più impieghi dovranno entro cinque giorni dichiarare quale di essi desiderino conservare.
Il Dittatore

G. GARIBALDI.
 
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Archivio . AdnAgenzia . 1998 . 11 . 19
CULTURA
GARIBALDI: FU UN NEGRIERO? RISOLTO IL MISTERO, SOLO UN EQUIVOCO
STUDIOSO INGLESE CHIARISCE L'ASPETTO BIOGRAFICO PIU' CONTROVERSO
Roma, 19 nov. - (Adnkronos) - E' stato risolto un mistero della biografia di Giuseppe Garibaldi, che gettava un'inquietante ombra sull'eroe risorgimentale. Il generale della Spedizione dei Mille non fu, infatti, mai un ''negriero'', a dispetto della voce raccolta dal suo primo e piu' noto biografo, Augusto Vittorio Vecchi, che nel 1882 pubblico' ''La vita e le gesta di Giuseppe Garibaldi''. Vecchi scrisse, e mai e' stato smentito, che tra il 1851 e il '53 Garibaldi comando' una barca peruviana, ''El Carmen'', trafficando con schiavi cinesi. A togliere l'infame macchia al patriota italiano per antonomasia e' ora uno studioso inglese Philip Kennet Cowie, autore di un articolo per la ''Rassegna storica del Risorgimento'', diretta dal professor Giuseppe Talamo. E' stato solo un equivoco, afferma Cowie: il biografo Vecchi tradusse in modo sbagliato dallo spagnolo la testimonianza da lui raccolta a Lima dalla viva voce di Pedro De Negri, l'armatore e proprietario del vascello ''El Carmen''.

Nella celebre biografia garibaldina si legge che De Negri avrebbe detto: ''M'ha sempre portati i cinesi nel numero imbarcati e tutti grassi ed in buona salute; perche' li trattava come uomini e non come bestie''. Il professor Cowie, con una ricerca d'archivio nella capitale del Peru', ha accertato che la nave comandata da Garibaldi non aveva mai trasportato cinesi, ma solo carichi di ''cineserie'', soprattutto prodotti tessili. Sulla base degli elenchi relativi agli imbarcati, risulta che sul cargo del ''Carmen'' non erano mai saliti schiavi, ma al massimo ''26 hombres de mar'', cioe' marinai, dei quali almeno sei erano italiani: il vascello non era, infatti, destinato al trasporto dei passeggeri.

Ma allora com'e' stato possibile che Vecchi abbia riferito quelle parole di De Negri, che hanno contribuito ad accreditare l'immagine di Garibaldi come avventuriero capace di qualsiasi espediente per guadagnarsi il pane? E' stato solo un equivoco linguistico, assicura Cowie: il biografo ottocentesco tradusse il termine spagnolo ''chino'', pronunciato dall'armatore, con ''cinesi'', mentre in Peru' all'epoca aveva il significato di indigeno. Secondo la tesi formulata dallo studioso britannico, gli indigeni citati dal proprietario del vascello altri non erano che i marinai peruviani, quindi non schiavi.

(Pam/Zn/Adnkronos)
 
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view post Posted on 5/5/2017, 20:23
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"Il prete è la personificazione della menzogna. Il mentitore è ladro. Il ladro è assassino, e potrei trovare al prete una serie di altri infami corollari"

garibaldi


Da un discorso di Ernesto Rossi:

Il 28 aprile 1861 ad esempio, egli scriveva alla Società operaia napoletana, che sarebbe stato un sacrilegio continuare nella religione dei preti di Roma.

"Essi sono i più fieri e terribili nemici dell'Italia. Dunque fuori dalla nostra terra quella setta contagiosa e perversa".

E, in un indirizzo alla società italiana degli operai, scritto nell'ottobre dello stesso anno, additava al disprezzo dei lavoratori la "razza satanica" dei preti, che, mentre l'Italia faceva ogni sforzo per costituirsi a nazione, erano disposti a venderla anche al sultano, "e venderebbero Cristo se non l'avessero già venduto da tanto tempo".

"Fuggite la Chiesa, la vendetta che puzza d'infetti rettili e non la permettete ai vostri congiunti".

Nella prefazione alle sue memorie, Garibaldi, il 3 luglio 1872, scriveva di aver sempre attaccato il "pretismo", perché aveva sempre trovato in esso "il puntello di ogni dispotismo, di ogni vizio, di ogni corruzione".

"Il prete è la personificazione della menzogna. Il mentitore è ladro. Il ladro è assassino, e potrei trovare al prete una serie di altri infami corollari".

Era questo il linguaggio abituale di Garibaldi, quando parlava dei preti. E tutta la sinistra, se pur non adoperava il suo linguaggio, condivideva i suoi sentimenti.

Dal testamento dell'Eroe dei Due Mondi

«Siccome negli ultimi momenti della creatura umana, il prete, profittando dello stato spossato in cui si trova il moribondo, e della confusione che sovente vi succede, s’inoltra e, mettendo in opera ogni turpe stratagemma propaga, con l’impostura in cui è maestro, che il defunto compì, pentendosi delle sue credenze, ai doveri di cattolico; in conseguenza io dichiaro che, trovandomi in piena ragione, oggi non voglio accettare in nessun tempo il ministero odioso, disprezzevole e scellerato di un prete, che considero atroce nemico del genere umano e dell’Italia in particolare. E che solo in stato di pazzia o di ben crassa ignoranza, io credo possa un individuo raccomandarsi a un discendente di Torquemada»
 
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Idiecisegretidipaolobrosio
view post Posted on 20/5/2017, 10:40




Aveva perfettamente ragione... L'Italia attuale colla sua ottusità e menefreghismo e il lascito avvelenato della setta romana che si è sempre battuta contro questo povero paese e la libertà della sua gente. Stanno finalmente sparendo .. ma l'ignoranza è la divisione che hanno diffuso quella resta purtroppo. Comunque viva l'Italia.
 
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view post Posted on 19/5/2019, 16:54
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Giuseppe Garibaldi Comandante in capo le forze
Nazionali in Sicilia.
In virtù de’ poteri a lui conferiti.
DECRETA
Art. 1. È abolito il titolo di Eccellenza per chicchessia .
Art. 2. Non si ammette il baciamano da un uomo ad
altro uomo.
Art. 3 Il Segretario di Stato dell’Interno è incaricato
della esecuzione del presente Decreto.
Palermo 13 Giugno 1860

Il Dittatore
G. GARIBALDI G. GARIBALDI
Il Segretario di Stato
F. CRISPI



Edited by pincopallino2 - 4/7/2020, 14:05
 
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view post Posted on 23/6/2019, 17:15

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I FINANZIAMENTI ALLA CAMPAGNA GARIBALDINA DEL 1860
23 giugno

Una delle ricorrenti montature propagandistiche contro Garibaldi e la campagna del 1860 riguarda i finanziamenti alla medesima. Le “voci” fatte circolare ad arte, tutte senza prove, vogliono che: 1) la spedizione si sia avvalsa di enormi finanziamenti provenienti dall’estero, precisamente dall’Inghilterra; 2) Garibaldi si sia arricchito lucrando sulle somme corrisposte; 3) le finanze di Sicilia e di Napoli siano state rovinate da un saccheggio od esproprio compiuto da Garibaldi; 4) la documentazione sia stata distrutta per celare l’origine dei finanziamenti ed il loro impiego. Tutto ciò è completamente, incontrovertibilmente falso.

Bisogna premettere che la spedizione dei Mille era stata improvvisata ed era male armata, male equipaggiata, mal finanziata. I fucili erano vecchissimi moschetti ad avancarica, a canna liscia, logorati dall'umidità, che quasi non sparavano ed a cui era persino difficile inastare le baionette: dismessi dai depositi militari perché inefficienti. Fucili più moderni, in gran numero, era stati raccolti da una colletta della "Società Nazionale", ma erano stati sequestrati per ordine di Massimo d'Azeglio (!). L'unico cannone disponibile al momento dello sbarco in Sicilia era in bronzo, risaliva alle guerra napoleoniche e faceva solo rumore. Preso in Toscana da un deposito militare, dove faceva solo esibizione. La spedizione parti senza polvere da sparo e senza palle, che furono ottenute a gran fatica da una caserma in Toscana. La polvere da sparo era così poca, che a Palermo Garibaldi rischiò di restarne senza. Si rivolse a navi inglesi ed americane presenti al largo di Palermo, ma gli fu rifiutata. Le mappe della Sicilia erano state acquistate da alcuni volontari, il giorno prima della partenza, in negozi di Genova. I fondi disponibili alla partenza ammontavano in tutto a 70.000 lire, ottenute tramite una colletta svoltasi a Genova la notte prima che si salpasse. Già soltanto questo basterebbe a provare l’assurdità piena e palese dei fantomatici giganteschi finanziamenti a Garibaldi.

Comunque, la documentazione su tutti i finanziamenti di Garibaldi è stata debitamente trascritta, registrata, conservata ed è consultabile presso gli archivi di stato. Le scarse somme disponibili quando fu preparata la spedizione provenivano da offerte private giunte al “Fondo per il milione di fucili”, istituito a Milano nell’autunno del 1859, con rendiconto di Enrico Besana.
Successivamente a Genova fu creata la “Cassa centrale per il soccorso a Garibaldi”, amministrata da Agostino Bertani. La dettagliata relazione fu chiusa il 24 dicembre 1860 ed inviata a Garibaldi il giorno seguente.

Le entrate totali furono di lire 6.201.060,13 e per la maggioranza provennero da cambiali emesse dal governo provvisorio dittatoriale durante la campagna: 5 milioni (l’80 % circa del totale) furono così pagati, coperti dalle ditte genovesi “Parodi” e “C. e Fratelli Rocca”, che a loro volta (con ogni probabilità) furono rimborsate dal regno di Sardegna. Di fatto, quasi tutto il finanziamento delle spese di guerra provenne da finanziatori genovesi, che erano prestatori presso il governo sardo.

Il denaro tratto in loco, dalla Sicilia o dal Napoletano, fu minimo: giunsero 100.000 lire dalla tesoreria di Sicilia e 41.134,57 ducati dalla segreteria generale della dittatura di Napoli. Furono cifre minime rispetto al totale. Inoltre si noti che le spese suddette non servivano soltanto alla guerra, ma anche al funzionamento della normale macchina statale che la dittatura di Garibaldi aveva rilevata dal precedente governo borbonico e che andava fatta funzionare. Ad esempio, 184.323,44 lire furono spese per ciò che è detto “esercizio politico”, quindi normali costi di pubblica amministrazione. In ogni caso, le somme provenienti dalle finanze siciliane o napoletane furono una parte minimale del totale: il 4 % circa, rispetto all’80 % versato da Genova ovvero dal regno sardo.

La campagna sia avvalse anche di contributi privati, pari a 851.735,28 lire. Essi giunsero quasi tutti dall’Italia, con una piccola parte proveniente dall’estero: comunità italiane all’estero, Russia, Francia, Usa, Regno Unito. I famosi finanziamenti giunti dall’Inghilterra ammontarono in tutto a 49083 lire dall’Inghilterra, quindi circa lo 0,8 % del totale. Il totale dei finanziamenti giunti dall’estero, ma che di fatto comprendevano anche raccolte di emigrati italiani, fu circa del 2 % del totale. Per dare un’idea dell’esiguità del denaro di provenienza estera basti ricordare che, tra i finanziamenti italiani, quello raccolto con la vendita di coccarde tricolori raccolse 16.000 lire! Arrivarono meno soldi dall’Inghilterra di quanti ne siano pervenuti dalla sola Brescia (62.071) o dalla piccola Como (58.710) o Bologna (62.317).

Il rimanente dei fondi adoperati nella campagna del 1860, poche decine di migliaia di lire, provennero da rimborsi d’interessi sui prestiti (le cambiali), vendite di armi od equipaggiamento ormai inutili etc.; ma furono spicci rispetto al totale.

La quasi totalità della somma raccolta, 6125345,38, fu impiegata in spese vive, anzitutto quelle per l’acquisto di armi ed equipaggiamento, oppure per forniture di viveri e vestiti etc. Rimasero al momento della conclusione della campagna 75.714,75 lire, che Garibaldi destinò come sussidio alle famiglie dei volontari caduti ed ai mutilati.

I dati sulla gestione finanziaria della campagna sono dettagliati, molto più di quanto non dica la sintesi qui riportata, e sono conservati, liberalmente consultabili, negli archivi di stato.
Ciò che si è diffuso ad arte sui finanziamenti di Garibaldi, le mastodontiche somme giunte dall’Inghilterra, la spoliazione delle casse dei Banchi di Palermo e Sicilia, l’arricchimento personale di Garibaldi, la distruzione dei documenti, è interamente falso.
[I dati sui finanziamenti della campagna garibaldina del 1860 sono riportati in G. VIRGA, La rivoluzione nel regno delle Due Sicilie. L’insurrezione siciliana e la campagna di Garibaldi nell’Italia meridionale, pp. 602-609]

Edited by pincopallino2 - 19/11/2019, 23:46
 
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