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La bufala del diritto all'oblìo. Google condannato a oscurare ricerche, Ma quasi sempre l'effetto è opposto: rilanciare l'attenzione su crimini e misfatti

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GalileoGalilei
view post Posted on 23/11/2015, 07:05 by: GalileoGalilei
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Diritto all’oblio, un anno e mezzo dopo

22/11/2015 di Laura Caschera
A un anno e mezzo dalla storica sentenza “Google Spain”, che riconosce all'interessato la possibilità di rivolgersi direttamente al motore di ricerca per la rimozione di notizie relative alla sua persona, il Garante della privacy e Google tirano le prime somme.

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Su circa 25mila richieste di “deindicizzazione” giunte a Google in tema di diritto all’oblio, solo 50 richiedenti hanno deciso di rivolgersi all’ Authority per chiedere di rivedere la scelta di “Big G.”. Il Garante ha ritenuto che solo in un caso su tre Google sia colpevole di aver negato il godimento del diritto all’oblio. In più del 60% dei casi, invece, il Garante giudicato la posizione del motore di ricerca corretta, giustificando il mancato riconoscimento del diritto con il motivo di “interesse pubblico”.

La Corte di Giusitizia dell’Unione Europea, con la sentenza “Google Spain”, obbliga il motore di ricerca a cancellare le indicizzazioni relative ai propri dati personali, a richiesta del cittadino europeo che fosse interessato, “a meno che non vi siano ragioni particolari, come il ruolo pubblico del soggetto”. Viene richiesta, in sostanza, la deindicizzazione, ovvero la possibilità di eliminare dai risultati di una ricerca il proprio nome, quando risulti collegato ad articoli per i quali vuole farsi valere questa fondamentale garanzia. Possono essere mostrati solo risultati che rispondono la requisito di rispondere all’interesse pubblico. Contro la decisione di Google è ammesso l’appello al Garante, oppure al giudice.

Sostanzialmente, quello che si ricava incrociando i dati resi disponibili sul sito dell’Authority con quelli di Google, resi noti attraverso il suo “transparency report”, è che, nella maggioranza dei casi, “Big. G.” e la nostra Autorità sono arrivate alla stessa conclusione. In realtà è presto per tirare le somme, ma possiamo cominciare a farci un’idea. Solo lo 0, 2% degli interessati fa generalmente ricorso alle autorità competenti. Si può dedurre allora che il motore di ricerca è considerato dai più come un buon “decision maker”. In realtà, ci si è domandati se questa sorta di “giustizia privatizzata” non possa nuocere ad un sistema che avrebbe tutto l’interesse, per i valori che difende, ad essere gestito esclusivamente da Autorità indipendenti e dal potere giudiziario. Uno dei motivi per i quali in così pochi si rivolgono al Garante per capovolgere la decisione di Mountain View, è che forse in troppi chiedono l’”oblio”, pur sapendo di non meritarlo.

Nella grande quantità di decisioni, però, c’è un dato mancante: quello dei contenuti deindicizzati da Google, che forse avrebbero avuto tutto l’interesse a rimanere a disposizione della collettività del web. Un’altra questione interessante è quella relativa ai dati pubblicati da Google, riferibili al maggio 2015. L’Italia si classifica tra i paesi nei quali le richieste di indicizzazione hanno avuto il minor grado di accoglienza, attestandosi al 29, 5%. Peggio di noi ha fatto solo la Bulgaria, con 22,20% di rimozioni a seguito delle richieste degli interessati.

Ma di diritto all’oblio non si occupano la sola Europa e la nostra Corte di Giustizia. Infatti, altri paesi, come la Russia, hanno deciso di prendere di petto la questione. Nel luglio scorso la Duma ha approvato una legge che dà la possibilità al cittadino che si ritenga leso nel suo diritto all’oblio di chiedere la rimozione dai motori di ricerca degli Url che l’interessato giudica irrilevanti o inadeguati. La legge, in realtà largamente ispirata alla sentenza “Google Spain”, ha ricevuto già numerose critiche, perché darebbe la possibilità anche a soggetti di rilevanza pubblica di chiedere l’applicazione del diritto all’oblio. Il rischio sarebbe quello di favorire il diritto alla riservatezza, senza bilanciarlo quello all’informazione.

Il richiedente deve inoltrare il suo ricorso al motore di ricerca, che ha 10 giorni per analizzare la situazione. I colossi del web hanno però un limite: non possono eliminare contenuti che potrebbero potenzialmente consistere in un illecito penale. Quest’ultima parte ha generato numerosi dubbi: sarebbe colpevole infatti di lasciare un eccessivo margine di libertà al motore di ricerca, senza predisporre adeguati criteri per una valutazione. Il provvedimento entrerà in vigore in Russia il 1 gennaio 2016, e per ora non c’è alcun riferimento a sanzioni per l’inottemperanza alla richiesta di cancellazione.

Tornano all’Italia, secondo i dati comunicati dal quotidiano inglese “The Guardian” lo scorso luglio, meno del 5% delle richieste inoltrate a Mountain View riguardano criminali o personaggi noti. Al contrario, circa il 95% delle richieste pervenute proviene da gente comune.

 
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