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Ratline. Nazisti in sacrestia, La fuga dei nazisti organizzata da Vaticano, Croce Rossa e diocesi di Genova

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view post Posted on 13/3/2012, 12:59
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Le palle storiografiche del giornale. Per assolvere i vertici ecclesiastici basta una dichiarazione di un prelato: i nazisti ci hanno osteggiato

http://www.ilgiornale.it/genova/quellesodo...ge=0-comments=1

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Quell’esodo di rifugiati che passava da Genova
di Redazione - 13 marzo 2012, 08:00
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di Ferruccio Repetti

L'accusa, prima sommessa, poi sempre più amplificata su libri e giornali (tanto da accreditarsi di per se, non in quanto verità provata!), è lapidaria: la Chiesa genovese, e in particolare l'allora vescovo Giuseppe Siri sono responsabili d'aver favorito, nell'immediato secondo dopoguerra, la fuga in Sudamerica di criminali nazisti (tra cui Adolf Eichmann) e ustascia.
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Tutto questo, ben conoscendo l'identità dei «protetti», nell'ambito dell'«Operazione Odessa» che era stata organizzata verso al fine del conflitto con il concorso di industriali e politici tedeschi e aveva lo scopo di assicurare l'incolumità a un «esercito» di fuggiaschi, criminali in cerca di scampo dalle forche degli Alleati. Non solo: secondo una certa storiografia ufficiale o ufficiosa, e comunque accreditata, «Odessa» - l'acronimo in lingua tedesca per indicare l'«Organizzazione degli ex membri delle SS» - aveva anche l'obiettivo di esportare l'ingente massa di denaro che alti gradi delle forze armate tedesche avevano accumulato all'epoca del nazismo e, infine, di creare una sorta di Quarto Reich a completamento dell'opera di Hitler.
Tesi suggestive, richiamate, nel 2003, da Uki Goni nel libro «Operazione Odessa-La fuga dei gerarchi nazisti verso l'Argentina di Peron» (Garzanti Editore), oltre che in alcuni servizi giornalistici che ribadivano le colpe di Siri, della Chiesa locale e del Vaticano nell'aver non solo coperto, ma addirittura organizzato l'espatrio clandestino di personaggi che si erano macchiati dei crimini più orrendi. Alle accuse era seguita una replica del cardinale Tarcisio Bertone e un ampio servizio del «Settimanale Cattolico», senza peraltro riuscire a diradare i sospetti e le «testimonianze» di pseudo-storici sull'argomento. Tanto più opportuno, quindi, arriva ora in libreria l'approfondito volume «Odessa-La vera storia e la leggenda nera» di Sergio Pessot e Piero Vassallo (Novantico Editrice, 280 pagine, 20 euro), che confuta le tesi semplicistiche degli accusatori della Chiesa e del Cardinale che ne tenne la guida dal 1946 al 1987, riportando fatti storici, testimonianze autentiche (senza «virgolette»), ricordi e documenti in parte inediti, in grado, in molti casi, di ribaltare le verità acquisite in precedenza. A partire dalla definizione dei fuggiaschi, «scampati ai massacri e lasciati passare attraverso la fitta rete tesa dai militari al servizio dei giudici di Norimberga perch´ risultati del tutto estranei alle attività criminali dei nazisti. Erano a volte provvisoriamente ospitati in conventi o altri istituti protetti da extraterritorialità, dove ottenevano salvacondotti della Croce Rossa». Uno dei più importanti centri di accoglienza era la chiesa di San Teodoro, dove era parroco don Bruno Venturelli, ex prete partigiano e amico di Siri. Grazie alla copertura delle organizzazioni umanitarie cattoliche, spiegano gli Autori, «la cosiddetta “via dei Monasteri“ o “dei Ratti“ si dimostrò la più sicura», e venne percorsa prima di arrivare al porto di Genova da cui sarebbero salpati i bastimenti alla volta del Sudamerica. In questo ambito, «la smentita di Bertone non contemplava la conoscenza di alcune decisive notizie sui fatti».
Nelle pagine di Pessot e Vassallo - che si leggono come un romanzo, ma sono tutt'altro che un romanzo - scorrono le evidenze che frantumano le supposizioni assurte a realtà: come cita nella prefazione Beppe Franzo, «il tentativo degli autori di riaffermare la verità storica mira a scardinare le false teorie propagandate dalla (sub)cultura di sinistra, atea e anticristiana, dal dopoguerra a oggi. La Chiesa - sottolinea ancora Franzo - corse in aiuto di uomini in pericolo visti come creature da amare in Dio, per mezzo di Dio e per Dio.
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E lo fece in maniera naturale e spontanea. La riprova è nelle parole del vescovo Alois Hudal a Erik Pribke in fuga (“Mi fa piacere aiutare chi in passato ci ha osteggiato“)».
Da qui, insomma, sarebbe indispensabile ricominciare: tralasciando le storie e attenendosi alla Storia. Per conoscere e capire, einaudianamente, prima di giudicare.

 
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view post Posted on 17/9/2013, 05:26
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italia 15 settembre 2013
Nazisti in fuga, il silenzio della Curia

Andrea Casazza

nazi2-016-kDDF--673x320@IlSecoloXIXWEB

Il passaporto falso della Croce Rossa ritrovato a Buenos Aires con il quale di Eichmann si imbarcò a Genova
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* Don Petranovic nel porto di Genova Nazisti, la Chiesa di Francesco faccia luce

Genova - Un silenzio durato dieci anni. Era il 21 settembre del 2003 quando Tarcisio Bertone, allora arcivescovo di Genova, annunciava la creazione di un pool di esperti incaricati di confutare le tesi di un’inchiesta che Il Secolo XIX aveva svolto quell’estate destando grande clamore. Una commissione composta da sei saggi (storici, giuristi, uomini di cultura) incaricati di dimostrare l’estraneità della Chiesa genovese al piano di aiuto e copertura che aveva permesso ad alcuni fra i più feroci criminali della Seconda Guerra Mondiale di trovare rifugio a Genova per poi imbarcarsi alla volta dell’Argentina. Una responsabilità, quella della curia genovese, che l’inchiesta del Secolo XIX aveva prima adombrato e, giorno dopo giorno, reso più nitida man mano che venivano alla luce nuovi documenti e testimonianze tratte dagli archivi dei servizi segreti americani, dalla sede ginevrina della Croce Rossa e, soprattutto, dal Centro di Immigrazione di Buenos Aires.

Proprio dall’apertura degli archivi della capitale argentina, rimasti sino a quell’anno segreti, aveva del resto preso avvio l’inchiesta giornalistica. Una desecretazione avallata, nella primavera di quell’anno, dall’allora presidente argentino Néstor Kirchner e legata alla pubblicazione del saggio “La autentica Odessa” dello storico e giornalista Uki Goñi. Le lunghe e dettagliate indagini di Goñi, volte a dimostrare che l’immigrazione in Argentina di criminali nazisti non era stata passivamente subita ma, al contrario, pianificata dal governo di Juan Domingo Peron con la complicità della Chiesa cattolica, avevano inaspettatamente acceso i riflettori su Genova. La città, in quel saggio, veniva indicata quale luogo di passaggio, soggiorno e imbarco di alcuni fra i più noti e sanguinari ufficiali delle SS, di collaborazionisti francesi e ustascia. In particolare veniva segnalata la presenza a Genova, fra la fine del 1947 e gli inizi del 1951, di criminali come il Duce degli ustascia Ante Pavelic, il medico della morte Joseph Mengele, il pianificatore della soluzione finale Adolf Eichmann, il boia di Lione Klaus Barbie, il capitano delle SS poi condannato all’ergastolo per il massacro delle Fosse Ardeatine Erich Priebke e il responsabile del piano di sterminio dei disabili Aktion 14, Gerhard Bohne. L’inchiesta era partita da lì. Dal clamore e dallo sgomento di scoprire come la città, medaglia d’oro per la Resistenza, si fosse a sua insaputa trasformata, negli anni dell’immediato dopoguerra, nel terminale della ratline, la via dei topi seguita dai criminali di guerra in fuga dall’Europa.

Il primo tassello per ricostruire il complicato puzzle del loro passaggio in città era dato, come in un gioco enigmistico, da un acronimo: Daie, Delegaciòn Argentina de Inmigraciòn en Europa. Una sigla che, sul finire degli anni Quaranta, compariva sul portone di Villa Bombrini in Albaro, l’attuale sede del conservatorio “Nicolò Paganini”. Si era scoperto che a Villa Bombrini la Daie aveva aperto i battenti nella seconda metà del 1947. Da Buenos Aires, a dirigere l’ufficio che sarebbe divenuto il centro di raccolta per i criminali di guerra in fuga da Germania, Austria, Croazia e Francia, era stato mandato Carlos Fuldner, un ex capitano delle SS, nato in Argentina ma di nazionalità tedesca. La Daie godeva di uno status semidiplomatico. Aveva uffici a Roma, dove venivano tenuti i contatti con Buenos Aires, e a Genova dove i candidati all’emigrazione, oltre a ricevere i documenti che consentivano loro di imbarcarsi, venivano sottoposti a un esame medico per accertarne il buono stato di salute. Tutte le pratiche venivano raccolte in fascicoli numerati presso il centro di immigrazione a Buenos Aires. Si era così scoperto che dagli uffici di Albaro della Daie, dal 1947 al ’51, erano passati non solo Mengele, Eichmann, Barbie e camerati più o meno noti ma centinaia di “figure minori”, di sterminatori e seviziatori al servizio della follia nazista che negli uffici diretti da Carlos Fuldner trovavano una nuova identità, un visto per entrare in Argentina e un passaporto rilasciato dalla Croce Rossa.

I passaporti della Croce Rossa erano poco più che un attestato introdotto negli anni del dopoguerra per ridare un’identità ai molti che, nelle vicissitudini del conflitto mondiale, avevano perso (o distrutto) il proprio documento. Identità che, nella maggior parte dei casi, veniva certificata da testimoni accreditati. Ed è proprio grazie alle copie di questi passaporti conservati nella sede centrale di Ginevra della Croce Rossa che si era potuto ricostruire la rotta genovese dei fuggiaschi, determinare dove avevano alloggiato in città e, soprattutto, chi aveva garantito per loro. Si era dunque scoperto che Joseph Mengele, nel maggio del 1949, aveva trovato asilo sicuro in via Vincenzo Ricci 3, in una casa privata; sarebbe partito il 16 di quello stesso mese sul piroscafo North King sotto un nome di copertura: Helmut Gregor. Adolf Eichmann, invece, era arrivato a Genova “solo” nella tarda primavera del 1950. In attesa del passaporto a nome di Ricardo Klement e dell’imbarco sulla motonave Giovanna C. in partenza per Buenos Aires il 17 giungo del 1950, aveva trovato alloggio in albergo, in via Balbi 9. Ultimo grande ricercato di guerra ad arrivare a Genova era stato Klaus Barbie. Fuggito da un carcere austriaco probabilmente grazie all’aiuto dei servizi segreti americani che l’avevano appena arruolato, Barbie era arrivato in treno nel marzo del ’51 e ad accoglierlo alla stazione Principe aveva trovato un sacerdote: il croato Krunoslav Draganovic. L’uomo che aveva controfirmato il suo passaporto attestandone le false generalità. Il nome di copertura di Barbie era Klauss Altmann e aveva soggiornato all’albergo Nazionale di via Lomellini 6 in attesa di imbarcarsi, il 22 di marzo, sul piroscafo argentino Corrientes. La destinazione per lui non era stata l’Argentina di Peron, ma la Bolivia.

Ma l’inquietante passaggio del boia di Lione in città accende anche per la prima volta i riflettori su Krunoslav Draganovic. Si scopre che il sacerdote, capo della Confraternità di San Girolamo con sede a Roma, a Genova veniva molto spesso e che il suo nome quale garante non compare solo sul passaporto di Barbie ma anche su quello di altri criminali in fuga dal porto genovese. Dei suoi particolari servizi si è avvalso ad esempio anche Hans Fischbock, assistente di Eichmann e ministro delle Finanze del Reich nell’Olanda occupata, che salperà alla volta dell’Argentina sull’Anna C. il 2 febbraio del ’51. Ed era stato grazie al passaporto falso sottoscritto da Draganovic se Gerhard Bohne aveva trovato imbarco con la sorella Gisele nel gennaio del ’49. Destinazione, guarda caso, Buenos Aires.

Ma le tracce della presenza a Genova del prete croato facevano risalire ad altri due sacerdoti attivi in città in quegli anni. Il nome del primo, Edoardo Dömöter, compariva addirittura sul documento falso che aveva aperto la via della fuga a Eichmann. Dömöter è un francescano ospitato nella chiesa di Sant’Antonio di Pegli e ha frequenti contatti con monsignor Alois Hudal, da molti storici indicato come l’eminenza grigia della rete salva-nazisti con sede in Vaticano. Il secondo sacerdote in contatto con Draganovic che è particolarmente attivo sul fronte dell’accoglienza e della protezione dei criminali in fuga si chiama don Carlo Petranovic. Di lui e del suo zelo parlerà, molti anni dopo, Eric Priebke, ricordando la coda che aveva dovuto fare negli uffici della Daie per procurarsi il visto d’ingresso in Argentina: «Nelle ore passate in fila, non avevo tardato a venire a sapere che la strada di chi aveva fretta di imbarcarsi era solo una: padre Carlo Dragutin Petranovic, un sacerdote croato. Questi aveva sempre a disposizione dei posti sulle navi in partenza per Buenos Aires».

Scavando sul passato di don Petranovic, ex cappellano militare delle milizie ustascia di Ante Pavelic, si scopre che la sua storia genovese comincia nei primi mesi del 1946 con un biglietto di presentazione scritto dal cardinale di Milano Ildebrando Schuster e inviato all’arcivescovo Giuseppe Siri. E’ con questo viatico che il sacerdote croato si stabilisce a Genova ed è qui che, fino ai primi mesi del ‘52, gestirà direttamente la trama di rapporti tra Vaticano, Croce Rossa, Auxilium e Comitato nazionale emigrazione in Argentina. In città Petranovic alloggia in una cella del convento benedettino del Boschetto, sopra Fegino, ed ha, rivelano alcune fonti, un rapporto personale e costante con il cardinale Siri che dell’Auxilium e del Comitato nazionale per l’emigrazione in Argentina è il referente principe. Ha il diritto di usare la Mercedes nera dell’arcivescovo con targa diplomatica della Città del Vaticano; viaggia spesso, di notte, tra Genova e Roma, e ritorna sempre di notte, portando una “valigia diplomatica”. E c’è chi dice che contenga proprio i passaporti in grado di garantire una nuova vita ai nazisti e agli ustascia in fuga da Genova. Solo maldicenze? Non si direbbe visto che lui stesso, nel corso di un’intervista rilasciata nell’89 a Mark Aarons e a John Loftus, autori del saggio “Unholy Trinity”, si vanterà di essere stato molto vicino al cardinale genovese dichiarando di avere aiutato un paio di migliaia di persone a imbarcarsi a Genova.

Ma l’inchiesta del Secolo XIX prosegue. A collegare il nome del cardinale Siri alla rete di protezione e aiuto dei criminali di guerra in fuga non sono solo le dichiarazioni di don Petranovic. Dell’alto prelato genovese si occupano, nell’immediato dopoguerra, anche i servizi segreti americani. In una nota del Central Intelligence Group, datata 21 gennaio 1947, Siri viene ad esempio segnalato come referente di “un’organizzazione internazionale il cui scopo era favorire l’emigrazione di europei anticomunisti in Sudamerica”. Mentre altri due rapporti inviati a Washington quello stesso anno sottolineano come i nazisti in arrivo a Genova non solo fossero assistiti da dignitari cattolici ma che la Pontificia Commissione di Assistenza avesse a tal fine persino aperto un ufficio alla stazione Principe. Un centro che faceva capo all’Auxilium.

Giunta a questo punto l’inchiesta del Secolo XIX si era dovuta fermare davanti all’impossibilità di accedere alle fonti della curia genovese e in particolare all’archivio privato del cardinale Siri. Archivio tuttora chiuso. Quali rapporti legavano l’arcivescovo genovese a padre Dömöter e a don Petranovic? È davvero possibile che la curia genovese fosse del tutto ignara di quanto stava avvenendo in città? Il cardinal Bertone garantiva allora che la Chiesa «era pulita», che non aveva favorito quelle fughe e, per spazzare via ogni sospetto, annunciava l’apertura di una controinchiesta affidata a un pool di esperti. Da allora, però, sono passati dieci anni e dei risultati raggiunti da quella commissione non si è avuta notizia.
 
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Aaliyah
view post Posted on 14/1/2014, 22:15




Hello! This post could not be written any better! Reading through this post reminds me of my previous room mate! He always kept chatting about this. I will forward this article to him. Pretty sure he will have a good read. Thanks for sharing!
 
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view post Posted on 29/4/2014, 17:50
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avelic fu nascosto in Vaticano
A Zagabria un giornale pubblica i rapporti della Cia sulla fuga del duce degli "ustasha" nel 1945: vestito da prete fu nascosto a Roma nell'istituto san Girolamo
AdminSito
lunedì 28 aprile 2014 21:29
italintermedia.globalist.it
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Ante Pavelic, capo del regime "ustascia" di Croazia che negli anni della seconda guerra mondiale fu fedele alleato di Adolf Hitler e Benito Mussolini, dopo la sconfitta dell'Asse riuscì a rifugiarsi in Sud america dopo essere riparato a Roma nascondendosi in Vaticano. Quella che finora era stata soprattutto una ipotesi, sia pure suffragata da diversi elementi di fatto, adesso viene rilanciata dallo "Jutranij List" di Zagabria sulla scorta di nuove prove.

Il quotidiano si rifà soprattutto ad un documento della Cia americana il cui contenuto è stato svelato a distanza di quasi settant'anni dagli eventi: risulta redatto l'8 novembre del 1947 e a giudicare dal suo contenuto completa e integra una serie di relazioni precedenti. Il personale delle "operazioni mediterranee" della US Army spiega che americani e inglesi nell'estate di quell'anno avevano in programma la cattura di Pavelic , ma questo piano non si poté attuarea causa dell'intromissione della santa Sede: il 6 maggio del 1945 Pavelic era ancora a Zagabria ma da là riuscì a fuggire in Austria, che in quel momento era zona di occupazione statunitense e poi con falsi documenti falsi peruviani , sotto il nome di Don Pedro Goner e vestito da sacerdote, si trasferì in Italia e raggiunse Roma, dove come riferisce una spia interna alle gerarchie ecclesiastiche venne accolto in Vaticano, che era allora la sede del Papa Pio XII, ex nunzio nella Germania nazista.

A Roma Pavelic poté contare in prima battuta sull'aiuto di un sacerdote vero, Krunoslav Draganovic e di un gruppo di sacerdoti e monaci di origine croata dell'Istituto di San Girolamo, dove venne nascosto fino al momento in cui venne messo in grado raggiungere una posizione più sicura in sud America. Il 12 febbraio 1947 l'agente speciale Robert Clayton Mood del servizio dj controspionaggio del servizio degli Stati Uniti scrive che Pavelic scelse di raggiungere un paese governato dauna giunta militare, ovvero Argentina, Paraguay o Brasile, ed in preprazione di questo incontrò una serie di croati che vivevano a Roma da religiosi oppure da rifugiati. Nell'istituto San Girolamo in quei mesi sarebbero passati personaggi come l'ex comandante dell'aviazione croata Vladimir Kren, il vice Ministro degli Affari esteri Vjekoslav Vrancic ed anche il serbo Djordje Peric , ministro della propaganda del governo fantoccio di Milan Nedic.

L'agente Mood nei suoi rapporti avvertiva che si stavano preparando le operazioni per il trasferimento Pavelic, poco dopo il capo degli "ustasha" sarebbe scomparso dal convento ma intanto i servizi segreti degli Stati Uniti avevano dato il via alle ricerche della sua nuova localizzazione.

Il compito di guidarle venne assunto dal colonnello G.F. Blund, che arrivò Roma l'11 agosto nel 1947 e dopo contatti coni agenti americani e britannici scrisse nella sua prima relazione che "tutti i dati "indicano che Pavelic si fosse rifugiato Vaticano". Blund propose anche un arresto con un'operazione congiunta ma aggiunse che i diplomatici britannici stavano cercando di "manipolare le cose" per far eseguire l'azione solo dalle forze statunitensi, vista la delicatezza dell'intervento e le implicazioni di un'incursione i territorio vaticano.Blund discusse a lungo la cosa con il suo omologo britannico Bendal e giunse all'ideazione di un secondo piano che prevedeva la stretta sorveglianza dell'itituto San Girolamo da parte di entrambi i servizi in attesa del momento in cui Pavelic avessse lasciato l'edificio. Anche una squadra della polizia italiana avrebbe preso parte all'azione finale, concepita tutta per evitare un incidente diplomatico.

A quel punto inglesi e americani informarono le autorità italiane che avevano individuato il criminale di guerra Ante Pavelic e che la questione sarebbe stata risolta di lì a breve. Un rapporto di quei giorni sostiene che nel luglio Pavelic sarebbe stato visto camminare in una strada di Roma al di fuori del territorio vaticano, portava i capelli molto corti e indossava un saio da monaco, l'11 di agosto i responsabili inglese e americano dell'operazione di incontrarono nuovamente per fissare i dettagli del'intervento ma poi, stranamente, per tre mesi tutto si bloccò.

L'agente Mood nel suo rapporto adombra il fatto che i britannici di colpo erano tornati riluttanti e fu proprio in qella rfase che Pavelic riuscì a lasciare il Vaticano per raggiungere Genova e imbarcarsi su una nave diretta a Buenos Aires. Nel frattempo anche la famiglia del "poglavnik" aveva trovato riparo in Italia, la spia americana scrive che probabilmente si era rifugiata a Firenze.
 
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view post Posted on 29/4/2015, 17:25
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Quel vescovo fra croce e svastica
Alois Hudal, rettore della chiesa nazionale tedesca a Roma, voleva redimere il nazismo essendone tuttavia complice


Mario Cervi - Mer, 29/04/2015 - 08:22
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La croce e la svastica s'incontrarono amichevolmente a Roma, durante il fascismo, nella persona del vescovo Alois Hudal, austriaco di nascita, rettore di Santa Maria dell'Anima, la chiesa nazionale tedesca nella capitale italiana.


Hudal ebbe il progetto visionario di cristianizzare il nazionalsocialismo e utilizzarlo come poderosa barriera contro gli assalti dell'ateismo sovietico. Si unì alla nutrita schiera dei preti che alzavano il braccio nel saluto fascista o nazista, ma non fu, come tanti altri, un conformista servile. Hudal voleva redimere il nazismo essendone complice. Insomma, un personaggio complesso e ambiguo, protagonista d'un libro di Dario Fertilio che ha per titolo L'anima del Führer (Marsilio, pagg. 215, euro 16,50).

Il racconto di Fertilio oscilla, molto efficacemente, tra la rievocazione storica e la ricostruzione letteraria degli avvenimenti. I dialoghi sono inventati, ma la loro sostanza è aderente con totale fedeltà ai fatti. Molto toccanti sono le pagine che Fertilio dedica a una buona azione compiuta, in circostanze drammaticissime, del vescovo in camicia bruna. È il 16 ottobre 1943 e centosessantacinque sgherri tedeschi danno il via a un rastrellamento di ebrei nel ghetto di Roma, a Trastevere, a Testaccio, a Monteverde. L'avvio degli ebrei ai campi di concentramento e di sterminio procedeva bene, a metà della giornata il generale tedesco Reiner Stahel, stratega dell'azione, era soddisfatto e risoluto a proseguire. Nel primo pomeriggio di quello stesso giorno un giovane molto distinto si presentò a Santa Maria dell'Anima e chiese di parlare con Hudal. Il nome del visitatore era Carlo Pacelli, nipote di Pio XII e suo messaggero. Lo zio Papa - spiegò il Pacelli nipote - voleva che lui, il vescovo, scrivesse una lettera a Stahel il cui testo era già pronto. Al generale, Hudal avrebbe rivolto un monito: se la caccia all'ebreo non fosse finita «il Papa sarà costretto a pendere apertamente posizione contro queste azioni, il che darà indubbiamente armi ai nemici di noi tedeschi». Un Hudal perplesso ma obbediente vergò l'appello. Annota Fertilio: «La stessa sera di quel sabato, ne fosse oppure no la causa quella lettera scritta sotto dettatura, il rastrellamento degli ebrei venne sospeso». Una buona azione, anche se non molto spontanea, di Hudal. Mai ricevuto in udienza, nonostante ripetute richieste, da Pio XII.

Hudal, negli anni del nazismo ruggente e vincente l'aveva fiancheggiato con slancio, e negli anni del nazismo vinto e fuggiasco con altrettanto slancio si prodigò per mettere in salvo alcuni tra i più noti responsabili delle efferatezze naziste. La morte di Hitler piombò il vescovo nel lutto, il crollo del Terzo Reich gli impose una missione alla quale si era preparato da tempo. Quella, umanitaria e ideologica insieme, di aprire vie di salvezza - le cosiddette «vie dei ratti», con riferimento ai topi in fuga dalla nave che s'inabissa - per i gerarchi del defunto regime. Molti tra loro erano figure di mezza tacca, manovali della dittatura e se del caso della morte, altri erano primattori dell'orrenda recita antisemita. Si servirono della breccia aperta da Hudal, fra gli altri Joseph Mengele, l'«angelo della morte» ad Auschwitz, Adolf Eichmann, Eduard Roschmann il macellaio di Riga, Gustav Wagner comandante del lager di Sobibór. Fertilio cita anche Erich Priebke, definendolo «responsabile della strage delle Fosse Ardeatine». In realtà il responsabile fu il colonnello Kappler, condannato all'ergastolo in un processo del 1948. Tutti i suoi subalterni se ne andarono assolti per avere obbedito a ordini superiori. Priebke, subalterno anche lui, era già a Bariloche, in Argentina, grazie alla «via dei ratti» e l'Italia ne ottenne l'estradizione.

Hudal aveva previsto l'emergenza e concordato il fuggi fuggi con l'ex capo dello spionaggio tedesco in Italia Walther Rauff. «L'organizzazione austriaca di assistenza ai profughi, un fumoso ente di copertura messo in piedi da Hudal a Roma, forniva nuove identità ai fuggiaschi, mentre un compiacente comitato internazionale della Croce Rossa, con il consenso del Vaticano sfornava strani passaporti». Anche Fertilio si pone gli interrogativi che la sorte dei gerarchi nazisti propone. Forse si esagerò nella protezione data anche a figuri hitleriani della peggiore specie. Ma il solo fatto di essere dalla parte dei vincitori poteva o doveva salvaguardare i boia staliniani da giuste accuse e condanne? Norimberga fece davvero giustizia? Per il vescovo Hudal - ma anche per molti altri - sicuramente non la fece. La croce non avrebbe dovuto allearsi con la svastica, ma non poteva allearsi con falce e martello.

Hudal si dimise da rettore di Santa Maria dell'Anima nel 1952 e morì a Roma nel 1963.
 
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PornoPrete69
view post Posted on 3/11/2015, 21:02




Cavolo NazyPreteSS sarebbe stato un altro nick fighissimo, peccato... alla prossima.
 
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Olgo Polovo
view post Posted on 11/11/2016, 16:41




Mi pare di ricordare una vecchia storia circa i battesimi di Eichmann e di Priebke http://corrieredelveneto.corriere.it/venet...180032474.shtml
 
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view post Posted on 16/10/2017, 14:45

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https://www.focus.it/cultura/storia/che-fi...ti-a-norimberga

Che fine hanno fatto i gerarchi nazisti scampati al processo Norimberga?
Furono almeno 50 i generali del Reich che dopo la guerra fecero perdere le loro tracce. Molti di loro vissero per anni una seconda vita, alcuni non pagarono mai per i loro crimini. Com'è stato possibile?
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Alcuni gerarchi nazisti al Processo di Norimberga.

Nell’autunno del 1945 a Norimberga iniziava il primo dei due processi che portava alla sbarra 24 gerarchi nazisti. All’appello mancavano però almeno una cinquantina di “pezzi grossi” del Reich, da Eichmann, a Mengele, a Priebke: che fine avevano fatto? Chi li proteggeva? Sul loro conto e su queste vicende sono circolate dicerie e bufale.

Oggi è possibile ricostruire lo schema della rete di contatti che ha permesso loro di rifarsi una vita (in alcuni casi senza mai pagare per i crimini commessi): la cosiddetta rats line (la linea dei topi), come la chiamarono i servizi segreti americani.


Per approfondire: 10 cose che dovresti sapere su Hitler. | JERRY TAVIN/EVERETT COLLECTION/CONTRASTO
LE BUFALE. La leggenda più famosa è quella che vuole che alcuni dirigenti nazisti (c’è chi dice lo stesso Hitler) nel 1945 siano scappati a bordo di improbabili sommergibili attraverso l’Atlantico. Oppure che abbiano approfittato, per scappare, di un Piano Odessa: un’operazione pianificata dai capi delle SS (le Schutzstaffel, squadre di protezione) poco prima della fine del regime, per agevolare la fuoriuscita dei gerarchi e dare vita a uno stato neonazista.

Se sembra certo che non ci fu nessuna pianificazione a tavolino, è innegabile che si creò una rete di fuga ramificata per aiutare i collaboratori del Reich. A renderla possibile, connivenze di uomini dello Stato e della Chiesa, legati ai gerarchi da affinità ideologiche.

FUNZIONAVA COSÌ. Approfittando del fuggi fuggi generale, già nella primavera del 1945 - mentre Berlino capitolava e l’Italia veniva liberata - almeno 50 criminali di guerra e 300 quadri militari nazisti si unirono ai 12 milioni di profughi che dall’Europa Centrale e dalla Croazia scendevano verso l’Italia e la Spagna.


Curiosità: la propaganda sovietica ai tempi della Guerra Fredda.
Molti passavano per il Brennero - valico di frontiera tra Italia e Austria - e soggiornavano nel nostro Paese, spesso ospitati in monasteri (vedi per esempio qui sotto, Il caso Eichmann). I criminali di guerra vissero così in un primo tempo da clandestini, protetti da uomini di chiesa compiacenti. Trascorsi i primi 3 o 4 anni, mentre iniziava la guerra fredda, presero contatti con persone di fiducia (ex amici influenti rimasti in Germania o uomini dei servizi segreti) che fornirono loro passaporti e nuove identità. In questo modo poterono espatriare, perlopiù in Sud America. Il flusso maggiore fu tra il 1948 e il 1949.

IL CASO EICHMANN. Accadde così che uno dei principali responsabili dell’olocausto, Adolf Eichmann, ideatore della “soluzione finale” contro gli Ebrei, in abiti da montagna e con in testa un cappello tirolese, sia riuscito a passare per il valico del Brennero senza essere riconosciuto.


Il documento con cui Eichmann arrivò in Argentina. Documenti recentemente desecretati hanno permesso di ricostruire tipologie e prezzi dei passaporti: i nazisti pagavano fino a 1.000 scellini austriaci (più o meno 400 euro, una cifra stratosferica per l'epoca) per andarsene il più in fretta possibile, ma c'era chi otteneva i documenti anche gratis.
Chiese aiuto al parroco di Vipiteno e, con il beneplacito del vicario generale della diocesi di Bressanone (un filotedesco che non aveva digerito l’annessione del Sudtirolo all’Italia) ricevette un nuovo nome.

Il suo rifugio fu poi un chiostro dei francescani nella provincia di Bolzano, finché a Merano ottenne documenti falsi e, a Genova, un “permesso di libero sbarco”. Trovò rifugio in Argentina: venne catturato solo nel 1960 dal Mossad (il servizio segreto israeliano) e condannato a morte per genocidio e crimini contro l'umanità. Fu lui che al processo dichiarò di "aver solo eseguito gli ordini".

Andò meglio a Josef Mengele, il sadico medico di Auschwitz che finì i suoi giorni in Sud America senza mai rendere conto delle atrocità compiute su donne e bambini. La sua fuga fu simile a quella di Eichmann: rimase nascosto alcuni anni in Baviera, poi ottenne, con modalità mai chiarite, documenti falsi a nome di "Helmut Gregor, nato nel comune di Termeno (Bolzano), di professione meccanico" e potè rifarsi una nuova vita oltre l’Atlantico.

Morì di infarto a 67 anni in Sud America, nel 1979. Nel 1992 la salma fu riesumata e il suo DNA confrontato con quello del fratello: risultò una probabilità pari al 99,69% che Helmut Gregor fosse Josef Mengele.
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Anche Erich Priebke, capo delle SS, responsabile dell'eccidio delle Fosse Ardeatine, riuscì a farla franca. Lui si dotò di documenti e identità nuove diventando "Otto Pape, lettone, direttore d’albergo, con doppia residenza a Roma e Bolzano". Trascorse quasi mezzo secolo a San Carlos de Bariloche (Argentina) con la moglie e tornò più volte in Italia prima di essere riconosciuto e arrestato nel 1994, a 81 anni. Condannato all'ergastolo in Italia, scontò la pena agli arresti domiciliari fino alla morte, avvenuta nel 2013 un paio di mesi dopo il suo centesimo compleanno.


Roma, entrata alle Fosse Ardeatine, dove il 24 marzo 1944 i nazisti uccisero 335 tra civili e militari italiani come rappresaglia per l'attentato partigiano di via Rasella. Erich Priebke, capo delle SS, fu uno dei responsabili della pianificazione e della realizzazione dell'eccidio. | ANTMOOSE - FLICKR, CC BY 2.0

CHI GESTIVA IL TRAFFICO? Oggi sappiamo che a gestire il traffico dei criminali nazisti erano in molti: il più attivo era un prete croato, padre Krunoslav Dragonovich, dal 1945 impiegato all’Istituto croato del Collegio di San Girolamo degli Illirici, a Roma. Come lui, diversi altri uomini di fede. Tuttavia, al di là di singoli sacerdoti implicati, che non lavoravano per il Vaticano, ma per altre associazioni e comitati della Chiesa cattolica, non c’è prova di una strategia vaticana volta a salvare alti funzionari nazisti.


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Ad aiutare i nazisti furono poi ex compagni di partito, che ben volentieri si prodigavano a favore di quelli che consideravano "fratelli". E anche uomini dei servizi segreti dell'Occidente, che si servivano degli ex nazisti, delle loro conoscenze e delle reti di contatti per contrastare l'emergente "pericolo rosso comunista".

DOVE SONO SCAPPATI? Il paese più ospitale verso i nazisti fu l’Argentina, governata allora da Juan Perón (ne accolse fino a 5mila). In buona compagnia con altri paesi sudamericani: il Brasile ne ospitò quasi 2mila. Il Cile poco più di 500, seguito da Uruguay e Paraguay. E chi non attraversava l’Atlantico andava in Sudafrica, in Medio Oriente e in Australia.

Molti uomini della Gestapo (Geheime Staatspolizei, polizia segreta di stato), esperti in tecniche di spionaggio e di tortura, vennero arruolati nei servizi segreti della Cia (Usa), del Kgb (Unione Sovietica), della Stasi (Germania Est) e di altri Paesi come spie "specializzate" da spendere nel nuovo grande conflitto mondiale, la Guerra fredda.
15 OTTOBRE 2017 | GIULIANA ROTONDI
 
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Il mistero del nazista in fuga
di Enrico Franceschini
Horst Wächter piccolo con Charlotte, Otto e Traute (1944) © Horst Wächter
Otto von Wächter era il governatore della Galizia responsabile del genocidio di migliaia di ebrei. Caduto Hitler riuscì a riparare a Roma grazie alla complicità del Vaticano. Ma poi morì in modo oscuro. Un libro ricostruisce la vicenda
26 LUGLIO 2021

Un anno fa il Vaticano ha aperto per la prima volta gli archivi su Pio XII, il pontefice a lungo sospettato di avere chiuso un occhio sull'Olocausto. Tra le possibili scoperte di presunte complicità della Chiesa cattolica con il nazismo, la Bbc ritiene che potrebbero emergere particolari inediti sulla notoria "ratline", la rotta clandestina che aiutò criminali di guerra del Terzo Reich come Adolf Eichmann e Josef Mengele a nascondersi in Sud America.

Edited by pincopallino2 - 23/8/2023, 10:45
 
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