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Ratline. Nazisti in sacrestia, La fuga dei nazisti organizzata da Vaticano, Croce Rossa e diocesi di Genova

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GalileoGalilei
view post Posted on 17/9/2013, 05:26 by: GalileoGalilei
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italia 15 settembre 2013
Nazisti in fuga, il silenzio della Curia

Andrea Casazza

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Il passaporto falso della Croce Rossa ritrovato a Buenos Aires con il quale di Eichmann si imbarcò a Genova
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* Don Petranovic nel porto di Genova Nazisti, la Chiesa di Francesco faccia luce

Genova - Un silenzio durato dieci anni. Era il 21 settembre del 2003 quando Tarcisio Bertone, allora arcivescovo di Genova, annunciava la creazione di un pool di esperti incaricati di confutare le tesi di un’inchiesta che Il Secolo XIX aveva svolto quell’estate destando grande clamore. Una commissione composta da sei saggi (storici, giuristi, uomini di cultura) incaricati di dimostrare l’estraneità della Chiesa genovese al piano di aiuto e copertura che aveva permesso ad alcuni fra i più feroci criminali della Seconda Guerra Mondiale di trovare rifugio a Genova per poi imbarcarsi alla volta dell’Argentina. Una responsabilità, quella della curia genovese, che l’inchiesta del Secolo XIX aveva prima adombrato e, giorno dopo giorno, reso più nitida man mano che venivano alla luce nuovi documenti e testimonianze tratte dagli archivi dei servizi segreti americani, dalla sede ginevrina della Croce Rossa e, soprattutto, dal Centro di Immigrazione di Buenos Aires.

Proprio dall’apertura degli archivi della capitale argentina, rimasti sino a quell’anno segreti, aveva del resto preso avvio l’inchiesta giornalistica. Una desecretazione avallata, nella primavera di quell’anno, dall’allora presidente argentino Néstor Kirchner e legata alla pubblicazione del saggio “La autentica Odessa” dello storico e giornalista Uki Goñi. Le lunghe e dettagliate indagini di Goñi, volte a dimostrare che l’immigrazione in Argentina di criminali nazisti non era stata passivamente subita ma, al contrario, pianificata dal governo di Juan Domingo Peron con la complicità della Chiesa cattolica, avevano inaspettatamente acceso i riflettori su Genova. La città, in quel saggio, veniva indicata quale luogo di passaggio, soggiorno e imbarco di alcuni fra i più noti e sanguinari ufficiali delle SS, di collaborazionisti francesi e ustascia. In particolare veniva segnalata la presenza a Genova, fra la fine del 1947 e gli inizi del 1951, di criminali come il Duce degli ustascia Ante Pavelic, il medico della morte Joseph Mengele, il pianificatore della soluzione finale Adolf Eichmann, il boia di Lione Klaus Barbie, il capitano delle SS poi condannato all’ergastolo per il massacro delle Fosse Ardeatine Erich Priebke e il responsabile del piano di sterminio dei disabili Aktion 14, Gerhard Bohne. L’inchiesta era partita da lì. Dal clamore e dallo sgomento di scoprire come la città, medaglia d’oro per la Resistenza, si fosse a sua insaputa trasformata, negli anni dell’immediato dopoguerra, nel terminale della ratline, la via dei topi seguita dai criminali di guerra in fuga dall’Europa.

Il primo tassello per ricostruire il complicato puzzle del loro passaggio in città era dato, come in un gioco enigmistico, da un acronimo: Daie, Delegaciòn Argentina de Inmigraciòn en Europa. Una sigla che, sul finire degli anni Quaranta, compariva sul portone di Villa Bombrini in Albaro, l’attuale sede del conservatorio “Nicolò Paganini”. Si era scoperto che a Villa Bombrini la Daie aveva aperto i battenti nella seconda metà del 1947. Da Buenos Aires, a dirigere l’ufficio che sarebbe divenuto il centro di raccolta per i criminali di guerra in fuga da Germania, Austria, Croazia e Francia, era stato mandato Carlos Fuldner, un ex capitano delle SS, nato in Argentina ma di nazionalità tedesca. La Daie godeva di uno status semidiplomatico. Aveva uffici a Roma, dove venivano tenuti i contatti con Buenos Aires, e a Genova dove i candidati all’emigrazione, oltre a ricevere i documenti che consentivano loro di imbarcarsi, venivano sottoposti a un esame medico per accertarne il buono stato di salute. Tutte le pratiche venivano raccolte in fascicoli numerati presso il centro di immigrazione a Buenos Aires. Si era così scoperto che dagli uffici di Albaro della Daie, dal 1947 al ’51, erano passati non solo Mengele, Eichmann, Barbie e camerati più o meno noti ma centinaia di “figure minori”, di sterminatori e seviziatori al servizio della follia nazista che negli uffici diretti da Carlos Fuldner trovavano una nuova identità, un visto per entrare in Argentina e un passaporto rilasciato dalla Croce Rossa.

I passaporti della Croce Rossa erano poco più che un attestato introdotto negli anni del dopoguerra per ridare un’identità ai molti che, nelle vicissitudini del conflitto mondiale, avevano perso (o distrutto) il proprio documento. Identità che, nella maggior parte dei casi, veniva certificata da testimoni accreditati. Ed è proprio grazie alle copie di questi passaporti conservati nella sede centrale di Ginevra della Croce Rossa che si era potuto ricostruire la rotta genovese dei fuggiaschi, determinare dove avevano alloggiato in città e, soprattutto, chi aveva garantito per loro. Si era dunque scoperto che Joseph Mengele, nel maggio del 1949, aveva trovato asilo sicuro in via Vincenzo Ricci 3, in una casa privata; sarebbe partito il 16 di quello stesso mese sul piroscafo North King sotto un nome di copertura: Helmut Gregor. Adolf Eichmann, invece, era arrivato a Genova “solo” nella tarda primavera del 1950. In attesa del passaporto a nome di Ricardo Klement e dell’imbarco sulla motonave Giovanna C. in partenza per Buenos Aires il 17 giungo del 1950, aveva trovato alloggio in albergo, in via Balbi 9. Ultimo grande ricercato di guerra ad arrivare a Genova era stato Klaus Barbie. Fuggito da un carcere austriaco probabilmente grazie all’aiuto dei servizi segreti americani che l’avevano appena arruolato, Barbie era arrivato in treno nel marzo del ’51 e ad accoglierlo alla stazione Principe aveva trovato un sacerdote: il croato Krunoslav Draganovic. L’uomo che aveva controfirmato il suo passaporto attestandone le false generalità. Il nome di copertura di Barbie era Klauss Altmann e aveva soggiornato all’albergo Nazionale di via Lomellini 6 in attesa di imbarcarsi, il 22 di marzo, sul piroscafo argentino Corrientes. La destinazione per lui non era stata l’Argentina di Peron, ma la Bolivia.

Ma l’inquietante passaggio del boia di Lione in città accende anche per la prima volta i riflettori su Krunoslav Draganovic. Si scopre che il sacerdote, capo della Confraternità di San Girolamo con sede a Roma, a Genova veniva molto spesso e che il suo nome quale garante non compare solo sul passaporto di Barbie ma anche su quello di altri criminali in fuga dal porto genovese. Dei suoi particolari servizi si è avvalso ad esempio anche Hans Fischbock, assistente di Eichmann e ministro delle Finanze del Reich nell’Olanda occupata, che salperà alla volta dell’Argentina sull’Anna C. il 2 febbraio del ’51. Ed era stato grazie al passaporto falso sottoscritto da Draganovic se Gerhard Bohne aveva trovato imbarco con la sorella Gisele nel gennaio del ’49. Destinazione, guarda caso, Buenos Aires.

Ma le tracce della presenza a Genova del prete croato facevano risalire ad altri due sacerdoti attivi in città in quegli anni. Il nome del primo, Edoardo Dömöter, compariva addirittura sul documento falso che aveva aperto la via della fuga a Eichmann. Dömöter è un francescano ospitato nella chiesa di Sant’Antonio di Pegli e ha frequenti contatti con monsignor Alois Hudal, da molti storici indicato come l’eminenza grigia della rete salva-nazisti con sede in Vaticano. Il secondo sacerdote in contatto con Draganovic che è particolarmente attivo sul fronte dell’accoglienza e della protezione dei criminali in fuga si chiama don Carlo Petranovic. Di lui e del suo zelo parlerà, molti anni dopo, Eric Priebke, ricordando la coda che aveva dovuto fare negli uffici della Daie per procurarsi il visto d’ingresso in Argentina: «Nelle ore passate in fila, non avevo tardato a venire a sapere che la strada di chi aveva fretta di imbarcarsi era solo una: padre Carlo Dragutin Petranovic, un sacerdote croato. Questi aveva sempre a disposizione dei posti sulle navi in partenza per Buenos Aires».

Scavando sul passato di don Petranovic, ex cappellano militare delle milizie ustascia di Ante Pavelic, si scopre che la sua storia genovese comincia nei primi mesi del 1946 con un biglietto di presentazione scritto dal cardinale di Milano Ildebrando Schuster e inviato all’arcivescovo Giuseppe Siri. E’ con questo viatico che il sacerdote croato si stabilisce a Genova ed è qui che, fino ai primi mesi del ‘52, gestirà direttamente la trama di rapporti tra Vaticano, Croce Rossa, Auxilium e Comitato nazionale emigrazione in Argentina. In città Petranovic alloggia in una cella del convento benedettino del Boschetto, sopra Fegino, ed ha, rivelano alcune fonti, un rapporto personale e costante con il cardinale Siri che dell’Auxilium e del Comitato nazionale per l’emigrazione in Argentina è il referente principe. Ha il diritto di usare la Mercedes nera dell’arcivescovo con targa diplomatica della Città del Vaticano; viaggia spesso, di notte, tra Genova e Roma, e ritorna sempre di notte, portando una “valigia diplomatica”. E c’è chi dice che contenga proprio i passaporti in grado di garantire una nuova vita ai nazisti e agli ustascia in fuga da Genova. Solo maldicenze? Non si direbbe visto che lui stesso, nel corso di un’intervista rilasciata nell’89 a Mark Aarons e a John Loftus, autori del saggio “Unholy Trinity”, si vanterà di essere stato molto vicino al cardinale genovese dichiarando di avere aiutato un paio di migliaia di persone a imbarcarsi a Genova.

Ma l’inchiesta del Secolo XIX prosegue. A collegare il nome del cardinale Siri alla rete di protezione e aiuto dei criminali di guerra in fuga non sono solo le dichiarazioni di don Petranovic. Dell’alto prelato genovese si occupano, nell’immediato dopoguerra, anche i servizi segreti americani. In una nota del Central Intelligence Group, datata 21 gennaio 1947, Siri viene ad esempio segnalato come referente di “un’organizzazione internazionale il cui scopo era favorire l’emigrazione di europei anticomunisti in Sudamerica”. Mentre altri due rapporti inviati a Washington quello stesso anno sottolineano come i nazisti in arrivo a Genova non solo fossero assistiti da dignitari cattolici ma che la Pontificia Commissione di Assistenza avesse a tal fine persino aperto un ufficio alla stazione Principe. Un centro che faceva capo all’Auxilium.

Giunta a questo punto l’inchiesta del Secolo XIX si era dovuta fermare davanti all’impossibilità di accedere alle fonti della curia genovese e in particolare all’archivio privato del cardinale Siri. Archivio tuttora chiuso. Quali rapporti legavano l’arcivescovo genovese a padre Dömöter e a don Petranovic? È davvero possibile che la curia genovese fosse del tutto ignara di quanto stava avvenendo in città? Il cardinal Bertone garantiva allora che la Chiesa «era pulita», che non aveva favorito quelle fughe e, per spazzare via ogni sospetto, annunciava l’apertura di una controinchiesta affidata a un pool di esperti. Da allora, però, sono passati dieci anni e dei risultati raggiunti da quella commissione non si è avuta notizia.
 
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