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Ratline. Nazisti in sacrestia, La fuga dei nazisti organizzata da Vaticano, Croce Rossa e diocesi di Genova

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GalileoGalilei
view post Posted on 30/9/2008, 14:44 by: GalileoGalilei
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Il Messaggero Veneto pag. 13
"ante pavelic, il duce croato"
Data: 30/09/08


Cronaca Locale


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MARTEDÌ, 30 SETTEMBRE 2008

Pagina 13 - Cultura e spettacoli

Anche alcuni importanti documenti inediti nel libro di Massimiliano Ferrara pubblicato da Kappavu: è uno studio che fa luce su quegli anni controversi e sulle relazioni tra il “Poglavnik”, Mussolini e il Vaticano

Ante Pavelic, il Duce croato

Un saggio sul capo degli ustascia e sui suoi rapporti con l’Italia






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di LUCIO CARACCIOLO
Questo saggio appassionato e documentato di Massimiliano Ferrara illumina di nuova luce la figura di Ante Pavelic, capo degli ustascia e fondatore nel 1941 dello Stato Indipendente Croato, una meteora geopolitica destinata a concludere la sua parabola con la sconfitta dell’Asse nella seconda guerra mondiale. Ma quella vicenda, strettamente intrecciata alla personalità e alla biografia del Duce croato, continuerà a irradiarsi nei decenni successivi, a scatenare polemiche tutt’altro che accademiche fra gli slavi del Sud, a dividere le opinioni pubbliche e gli stessi leader europei e mondiali.
Il merito di questo studio non è dunque solo legato alla ricostruzione di un capitolo di storia balcanica che ci riguarda molto da vicino, ma alle indicazioni che se ne possono trarre per interpretare vicende successive, a cominciare dalle guerre di successione jugoslava che insanguinarono la regione negli anni Novanta dello scorso secolo.
Ma partiamo dalla storia. Ferrara ci ricorda le coordinate della geopolitica mussoliniana entro cui occorre leggere la vicenda Pavelic. Il Duce considerava che per il suo imperialismo non vi fosse spazio nei quadranti nord-occidentali, occupati da potenze consolidate, e che quindi gli allori della nuova Roma fossero da conquistare a Oriente. E l’Oriente vicino, per noi, era e rimane la penisola balcanica, in particolare quelle coste istriane e dalmate frequentate e fecondate dalla civiltà veneziana, oggetto delle mire irredentistiche dell’Italia postrisorgimentale. Insomma, la Croazia già asburgica e poi ricompresa nel Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni sorto dalle macerie della prima guerra mondiale. Verso quella Jugoslavia delle origini l’Italia ha dapprima oscillato tra due opzioni. La prima, legata al nome di Carlo Sforza, cerca un rapporto positivo con la nuova entità geopolitica, di ragguardevoli dimensioni territoriali e demografiche. Approccio che trova il suo culmine nel Trattato di Rapallo (1920). La seconda, tipica del nazionalismo più aggressivo, punta a recuperare le terre irredente istro-dalmate e a conquistare l’Albania. Considera la Jugoslavia «una formazione statale artificiosa creata a Versaglia» e quindi immagina la sua spartizione, con l’Italia a fare la parte del leone. Ciò anche al prezzo di spingere lo Stato degli slavi meridionali nelle braccia della Francia. E di aprire un contenzioso con la Germania, anch’essa proiettata nella regione.
Quest’ultima tesi, che grosso modo guiderà l’iniziativa balcanica del Duce a partire dal 1924, postula la convenienza per il nostro Paese di un arcipelago di staterelli deboli, esigui e imbelli alla nostra frontiera orientale. Non la Jugoslavia, insomma. Sotto qualsiasi veste e forma. In termini pratici, questo significa investire nei nazionalismi rivoluzionari balcanici (ad esempio quello macedone), cercando di giocarli gli uni contro gli altri e di indirizzarli nel senso dei nostri interessi.
Ante Pavelic, capo del separatismo croato, un reazionario che si richiama al Partito croato del diritto della fine del secolo precedente e che non esita a dichiarare le sue simpatie politico-ideologiche per le potenze dell’Asse, è una delle principali carte che l’Italia fascista ritiene di poter giocare per questa sua ambiziosa geopolitica balcanica. L’assassinio del re Alessandro I di Jugoslavia e del ministro degli esteri francese Louis Barthou a Marsiglia nel 1934, pur circondato da un alone di mistero che Ferrara si sforza di penetrare anche sulla base di nuovi documenti, è probabilmente da inscrivere nel contesto della cooperazione fra movimento ustascia e regime fascista. Tesi già sostenuta da Gaetano Salvemini e più tardi messa in discussione da Renzo De Felice. La storiografia jugoslava degli anni Settanta del Novecento tende a corroborare la lettura salveminiana. Come ricorda l’Autore – che sulla specifica vicenda offre nuove fonti e originali interpretazioni –, lo storico Bogdan Krizman, ad esempio, sostiene che l’attentato di Marsiglia è stato concordato da Mussolini con Pavelic allo scopo di liquidare, con Alessandro I, il principale ostacolo alla geopolitica balcanica del fascismo, anche per quanto concerne la penetrazione nello spazio albanese.
Il mistero di Marsiglia non sarà probabilmente mai del tutto svelato. Ma non c’è dubbio che esso apra una nuova stagione geopolitica nei Balcani. E nella vita politica di Ante Pavelic. Del quale Ferrara ricostruisce in dettaglio la lunga permanenza in Italia, i contatti con il regime e il suo capo (che per la verità di Pavelic non aveva straordinaria stima, come ci ricordano fra l’altro le testimonianze di Anfuso), la frenetica attività di organizzazione e stimolo del movimento ustascia e delle sue bande armate, che disponevano di campi di addestramento più o meno clandestini sul nostro territorio nazionale. Come osserva Ferrara, «l’istituzione dei campi di addestramento croati in Italia rappresenta la chiara volontà del governo fascista di investire sul separatismo di Ante Pavelic, espediente irrinunciabile per l’espansione nei Balcani». Di più, «senza l’amara vicenda dell’attentato di Marsiglia e la copertura da parte di Mussolini nei confronti degli ustascia, difficilmente si sarebbe giunti alla nascita della Croazia indipendente».
Sarebbe tuttavia ingenuo immaginare Pavelic come mero strumento dell’imperialismo fascista. Anzi, questa ricerca sembrerebbe confermare che la manipolazione è stata reciproca. E forse, alla fine, è stato semmai Pavelic a usare Mussolini, certo più di quanto il capo del fascismo immaginasse. Perché il Poglavnik sapeva bilanciare i rapporti con Roma (non solo con il regime, ma anche con la Chiesa cattolica) con quelli con Berlino. A mano a mano che i fatti dimostrano come le promesse tedesche circa il riconoscimento del preminente interesse italiano nell’area istriano-dalmata siano fasulle, l’evidenza delle strette relazioni fra il regime di Hitler e quello di Pavelic mette il Duce di fronte al fallimento dei suoi progetti di conquista nei Balcani a noi più prossimi. Terzo Reich e Italia erano certo alleati, ma in concreto le loro azioni nella regione si rivelavano incompatibili. E dati i rapporti di forza fra le due potenze, non v’è dubbio che dal punto di vista dello Stato Indipendente Croato la sponda germanica risultasse assai più promettente e produttiva di quella nostrana. D’altronde, le affinità ideologiche del nazionalismo paveliciano con l’hitlerismo sono ben note e trovarono triste conferma nella prassi razzista e sanguinaria di quella Croazia indipendente, a spese soprattutto dei serbi. Nell’appello lanciato il primo aprile 1941 al popolo croato, alla vigilia della nascita del nuovo Stato (proclamato il 10 aprile a Zagabria), Pavelic è esplicito: «Come potrebbe la Croazia, ricca di cultura occidentale, latina e germanica, della cultura umanistica italiana e del romanticismo germanico, come potrebbe andare insieme ai primitivi, selvaggi e brutali Serbi ortodossi?».
Dopo la guerra, Pavelic e molti altri esponenti ustascia usarono dei contatti stabiliti negli anni precedenti con alti prelati cattolici e con funzionari e dirigenti fascisti e nazisti per darsi alla macchia e rifugiarsi fuori della portata dei tribunali che davano loro la caccia (spesso in America del Sud, paradiso dei criminali di guerra dell’Asse). Il lavoro di Ferrara ci fornisce nuovi elementi a dimostrazione della collaborazione fra Vaticano e regime ustascia. E approfondisce con cura lo scottante dossier dell’oro ustascia, circa 250 chili di oro e 1.100 carati di diamanti – secondo un documento Cia del 1951 – dirottati in Argentina a favore della cricca paveliciana, a quanto pare con la partecipazione di ambienti vaticani.
Come si vede, la storia di Ante Pavelic e del suo rapporto con l’Italia offre più di uno squarcio per interpretare anche le successive vicende jugoslave e croate, e il nostro ruolo in esse. Ma questo, eventualmente, sarebbe materia di un altro libro. Che in ogni caso non potrà trascurare i risultati di questa ricerca e il ricco apparato di fonti su cui poggia.
 
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